di Pietro Clemente
Città
Credo che i risultati elettorali che hanno caratterizzato questa fase politica e amministrativa del 2018 non vadano nella direzione in cui la rete dei piccoli paesi si muove perché coloro che ne fanno parte possano ‘restare paesi’. Restare paesi è l’etichetta della nostra futura pagina Facebook, e tiene insieme il titolo di un libro di Felice Tiragallo su Armungia (Restare paese) e la poetica (e politica) di Vito Teti per una ‘antropologia del restare’.
Non è che la sinistra abbia fatto molto: negli ultimi decenni non era più criticabile il modello di sviluppo, se uno parlava di ‘decrescita’ era oggetto di insulti da destra e da sinistra. C’è stata la legge sui piccoli comuni, a fine legislatura, ma l’impressione è che sia poco utilizzabile.
La politica risponde e sollecita grandi numeri di votanti, ascolta interessi di gruppi umani traversati da paure di impoverimento e di conflittualità sociale in un tempo in cui fondamentalmente i redditi – nonostante la crisi – sono relativamente elevati (rispetto alla fase dell’Italia migratoria tra gli anni ’50 e ’60) e in modo diffuso, e tutte le statistiche dicono che la criminalità è in calo. Sono le città che perdono qualità di vita e percepiscono la pesantezza del futuro ma che danno il tempo agli interessi collettivi rappresentati dalla politica.
I piccoli paesi chiedono un altro tipo di sguardo, di attenzione, di qualità della vita. La fatica del restare tali bisogna costruirla con poca fiducia nel sostegno della politica, anche se è evidente che una modificazione dello sguardo politico e degli investimenti è la condizione per ‘restare paesi’.
La Sardegna ha appena presentato al governo un piano che chiede il riconoscimento della diminuzione dei diritti di cittadinanza per chi si trova nei difficili contesti insulari, e propone interventi importanti per produrre parità. Questo tipo di richiesta di uguaglianza dei cittadini potrebbe essere esteso ai piccoli paesi senza servizi e trasporti o con servizi lontani. Anche queste cose sembrano fuori agenda. Forse il crollo demografico dei piccoli paesi richiederebbe immigrazioni finalizzate; si è parlato di progetti per l’artigianato, di una nuova agricoltura. Ma sono cose che soccombono tra reddito di cittadinanza e respingimenti dell’esodo dall’Africa e dall’Oriente.
Così questi temi erano già descritti nell’assemblea della Società dei territorialisti:
«la maggioranza degli obiettivi, delle vertenze e delle azioni portate avanti dalla cittadinanza attiva non trovano da tempo risposta nelle azioni dei governi locali che sembrano rispondere al comando di interessi esogeni e di attori economici forti, poco coincidenti con una visione dell’amministrazione locale rappresentativa degli interessi degli abitanti e poco finalizzate a risolvere strategicamente le criticità responsabili dell’abbassamento crescente della qualità della vita nelle periferie metropolitane e della desertificazione delle aree interne» (verbale assemblea SdT 5.02.18, stralcio arbitrario).
Intanto per la terza volta, ha avuto luogo l’evento Un caffè ad Armungia. Festival dei piccoli paesi (14-17 giugno), aperto da laboratori di tessitura a mano, tintura naturale, alimentazione e biodiversità. Aveva al centro il tema della rinascita delle aree interne, quello della democrazia delle pratiche locali e del rapporto tra arti del fare ed economie locali. Il festival è nato nel 2016, l’anno in cui l’Associazione culturale Casa Lussu ha avuto il riconoscimento nazionale per l’attività di tutela come impegno civile, legato alla rinascita della tessitura a mano e all’attività di artigianato in rete. Quel riconoscimento ha dato all’Associazione il mandato e la missione di potenziare la presenza locale e di dialogare con gli altri paesi e con altre esperienze.
Casa Lussu cerca di essere anche un polo di creatività e di arte territoriale. Da due anni sperimenta un recital a tema (reading/concerto Un paese ci vuole, con Giacomo Casti e Chiara Effe) dedicato quest’anno al ‘paese’, un dialogo intensissimo sui paesi tra letteratura e antropologia, canzoni e suoni di chitarra: un modo di produrre comunicazione e conoscenza emotivamente coinvolgente, che mi fa desiderare che la didattica universitaria sia così, se non tutti i giorni almeno due volte all’anno. Alla pittura murale, ai corsi di tessitura, si è aggiunta quest’anno una esperienza di musica e di allestimento effimero d’arte in uno spazio paesaggistico straordinario, quello del Flumendosa, con un concerto per launeddas e sonorità computerizzate che ha salutato il tramonto che avveniva dietro Pizzu Achili (punta di Aquila) , uno dei luoghi del racconto di caccia Il cinghiale del diavolo di Emilio Lussu. Prima del concerto il fiume ha accolto il lancio di alcune forme circolari e triangolari di canne sulle quali era stata posta una rete colorata di tessuto. Una sorta di dialogo simbolico con la natura e la storia, il segnale che volgendo lo sguardo alla periferia anche il senso del mondo e della vita acquista dimensioni legate a storie millenarie ma anche nuove, attuali e creative (Installazioni del collettivo Res con lo studio Revolver, concerto di Rizoma: Massimo Congiu e Federico Orrù).
Le comunità di eredità come democrazia del fare era la prima tavola rotonda. Al centro l’esperienza della Regione Lombardia e il Registro delle eredità immateriali, la qualità degli investimenti che favoriscono sempre la ricerca e il dialogo con le comunità riconosciute. Il tema della democrazia del fare è anche al centro dell’Assemblea annuale della Società dei territorialisti che si terrà in autunno (Castel del Monte 15-17 novembre), e si è cercato di riconoscerlo nelle attività ludiche della Sardegna, e nella trasformazione dello sguardo antropologico che opera verso le comunità locali non più come oggetti ma come soggetti della attività conoscitiva. Questo ‘movimento’ metodologico già dalla Carta europea del paesaggio, la Convenzione Unesco sul Patrimonio Culturale Immateriale, e la convenzione di Faro, ha suscitato una messa al centro della partecipazione e il protagonismo locale in modalità basilari per una democrazia plurale della società civile. Le comunità di eredità, che ancora devono essere riconosciute dalla legge italiana insieme con la Convenzione di Faro, propongono un capovolgimento coraggioso della salvaguardia affidandola ai protagonisti stessi, esperienze già in corso in Monumenti aperti. La manifestazione di Monumenti aperti è un evento ramificato, anche su scala nazionale, riconosciuto quest’anno dall’Europa come evento dell’anno, nato a Cagliari dall’Associazione Imago Mundi e caratterizzato dalla iniziativa diffusa della visione e del racconto del patrimonio culturale.
Un dato importante, sperando che regga alle nuove gestioni politiche, è l’acquisizione espressa nel documento del Consiglio Superiore dei beni culturali del MIBACT (20 marzo 2018) sul tema Il patrimonio culturale è il futuro dei territori colpiti dal terremoto. Noi lo estendiamo ai paesi delle zone interne colpiti dal terremoto demografico e migratorio, con la consapevolezza che il patrimonio culturale non è ormai più cosa per raffinati esperti di settore, ma è invece tema centrale dello sviluppo locale e quindi legato a interessi e partecipazione di tutti. Un nodo che occorre diffondere e trasmettere a livello di massa, per ottenere un cambiamento generale di sguardo e di modo di vedere anche nel senso comune.
Arti del fare
La sessione sulle arti del fare che creano economie locali è stata aperta da una straordinaria esperienza di museografia in Val d’Aosta, in cui il museo è polo di attivazione di iniziative, di ascolto della popolazione, di promozione di prodotti locali che vengono garantiti e controllati, una sorta di pluriattività sia del museo che dei cittadini che mostra in modo esemplare i processi di crescita e di partecipazione e di redditi da turismo e da qualità garantita dei prodotti (https://www.tascapan.com/maison-bruil-valle-aosta/). In Sardegna il tema degli artigianati di qualità come fattori di microeconomie ha una certa rilevanza, e sono state ricordate oltre alla esperienza di Casa Lussu, anche altre sulla tintura, la diversità biologica, il settore delle case in terra che ha conosciuto una rinascita di competenze tradizionali, adattate al presente.
Questi temi si connettono con le comunità ludiche in cui l’arte del fare è espressa dalla competenza dei giocatori, o dai saperi naturalistici come ad esempio nella festa dei serpari di Cocullo che l’associazione Simbdea co-protagonista del Caffè ad Armungia segue per una candidatura di salvaguardia urgente. Casa Lussu propone una teoria delle pratiche artigiane assai estesa, basata sul pensiero di Richard Sennett (L’uomo artigiano) che riguarda anche il controllo complessivo del prodotto e della produzione. Questa teoria impegna in una idea di lavoro manuale inteso anche come attività riflessiva, critica del tempo della produzione industriale che trasforma tutto il tempo di tutti in tempo ‘industrializzato’, e restituzione di centralità al progetto e non alla sola esecuzione. Questi temi erano già presenti nella presentazione la sera prima di un film Start up! Cosas Galanas, prodotto da Storyville, e dedicato alla nascita di una sorta di sodalizio di cooperative: la pellicola racconta la storia di tre cooperative tra le più antiche della Sardegna, storie di donne e uomini che hanno deciso di unirsi e lavorare insieme. Il loro successo che dura nel tempo le ha rese espressioni storiche del fare “economia collaborativa” in un contesto complesso come la Sardegna.
La Cooperativa S’Enis di Oliena, la Lacesa di Bortigali e la Cooperativa allevatrici sarde di Santa Giusta hanno rispettivamente 37, 62 e 112 anni di attività e sono le Start up! del titolo. Una esperienza insieme di lavoro centrato sulla qualità e il controllo del paesaggio del territorio e della biodiversità e la partecipazione come base della democrazia del fare. Poi come in un festival che si rispetti vi sono due presentazioni di libri, una sul pane con una lezione pratica su come toccarlo, odorarlo, riconoscerne le corrette procedure di cottura, saggiarlo e gustarlo a pieno, metterlo a tavola e condirlo (nel caso del pane pistoccu, prodotto anche locale di Armungia): Gerardo Piras, Saludi e trigu
Un altro libro è su Lussu in carcere sotto il fascismo nel 1927, mentre l’Ordine degli avvocati, imbeccato dal fascismo, ne proponeva la cancellazione dall’Albo degli avvocati (Lussu verrà poi assolto per legittima difesa, avendo sparato a un giovane che si arrampicava al suo balcone, tra una folla di fascisti che minacciava di linciarlo, come lo stesso Lussu ha raccontato anche in Marcia su Roma e dintorni). La vita quotidiana della città tra maggio e giugno è raccontata attraverso il protagonista, l’istruttore nominato dall’Ordine, ex sodale di Lussu nel Partito Sardo d’Azione ma passato al fascismo per paura. La sua vita tra piaceri del cibo, tentazioni del paesaggio, attesa della nascita di un bimbo, mette Lussu sullo sfondo come un fantasma inquieto che minaccia la tranquillità della vita. La scrittrice riesce a raccontare la ‘banalità del male’ e la costruzione della indifferenza verso l’ingiustizia e il dolore. Un tema attualissimo anche se qui giocato sul piano della storia e della psicologia dei personaggi: Marangela Sedda, La cancellazione.
Un festival leggero
Casa Lussu dichiara di avere scelto un tipo di festival leggero, gestibile, che non punta a un pubblico di grandi dimensioni, poco adatto sia alla realtà locale sia agli scopi di un incontro che vuol evidenziare fenomeni qualitativi e di piccola scala. I presenti oscillano tra i 40 e i 60, anche se c’è un certo ricambio sui tre giorni. Dimensioni adeguate anche per la scelta di dare a persone del luogo l’opportunità di fare tavolate di cibo fatto in casa e prodotto localmente. In un certo senso non c’è ad Armungia un pubblico ‘passivo’ come nei festival urbani. C’è un pubblico che esercita cittadinanza attiva qui o altrove, nel campo dei musei o del patrimonio immateriale, scrive o legge criticamente, fa artigianato o lo ama e apprezza, fa politica della cultura, anche solo decidendo di venire a prendere un caffè dove è nato Emilio Lussu, dove la popolazione è in calo, dove la vita però ha una qualità sensibilmente diversa per il benessere derivante dai prodotti e dai contesti paesaggistici, nonostante la fatica di vivere a distanza dai servizi.
La pratica di inclusione e coinvolgimento del territorio nella molteplicità dei soggetti interessati e anche con attenzione alla memoria e al saper fare delle generazioni più adulte, è apparsa in modo esemplare nello straordinario dinamismo del Museo Maison Bruil di Introd in Val d’Aosta. Si tratta di un museo che ha risorse, ma che l’attivismo ben progettato dei suoi protagonisti moltiplica in modo impressionante: diventa centro di ascolto, di promozione e vendita di prodotti, di monitoraggio dei saperi e del loro possibile uso per risolvere problemi locali, oltre che luogo della memoria e del saper fare. Pur essendo un Museo che nella missione ha soprattutto i temi dell’alimentazione locale – e non un ecomuseo – Maison Bruil sembra corrispondere alla teoria di De Varine sugli ecomusei come agenzie democratiche dello sviluppo locale e della partecipazione totale della comunità.
Verso la democrazia comunitaria
Democrazia comunitaria è il tema lanciato dalla Società dei territorialisti per la sua assemblea annuale. Un nodo interessante per la rete dei piccoli paesi. Se ne è parlato in una delle sessioni di dialogo ad Armungia in una chiave però prevalentemente legata al patrimonio, alle comunità patrimoniali. Io credo che anche questa chiave sia importante. È difficile dire come viene coniugata la ‘democrazia comunitaria’ nelle comunità di eredità che gli antropologi frequentano. Quali sono i tratti di democrazia che animano ad esempio la molteplicità organizzata dei portatori delle macchine a spalla dei Gigli di Nola riconosciuti dall’Unesco, dei carnevali irpini e di quelli lombardi riconosciuti nel REIL e di varie altre comunità di eredità che esistono di fatto?
Spesso qui la democrazia sta in un modo di condividere e partecipare completamente diverso da quello della rappresentanza politica. Si formano leadership, processi di trasmissione per imitazione, pratiche spesso anche autoritarie, ma che sembrano dare fisionomia a una assenza della modernità, quella di rapporti di prossimità forti, basati sul confronto e sulla comunanza. In molte comunità di eredità circola una democrazia del fare che si potrebbe definire ‘premoderna’, ereditata da formazioni sociali di ‘antico regime’ che si sono trasmesse o riformate in cui ci sono riti di passaggio, anziani e iniziandi, culti degli antenati. Ma è chiaro oggi che senza questo tipo di pratiche si rischia una democrazia ‘anomica’, lasciata alle cordate e allo yuppismo, a individualismi e corporativismi. A rappresentanze sempre più pallide. Nel giro dei piccoli paesi non siamo vicini a modelli socioeconomici di autogoverno locale dei beni comuni.
Da quando i Comuni non hanno risorse e i territori vengono deprivati dei servizi, anche i Comuni non sono autorità, sono in balìa delle tendenze. Molte associazioni della rete non hanno rapporti importanti con i Comuni, sono semmai questi che possono essere sollecitati, avvertiti, spinti a collaborare dalle realtà associative locali. Si è visto nel caso dei Musei, che spesso essi vengono vitalizzati e sottratti alla marginalità da processi di ritorno e di riabitazione. La democrazia sta dunque più che altro in una tendenza minuscola sul piano dei numeri a rivitalizzare, a produrre attenzione e riconvertire processi dati per irreversibili, con un fare ancora molto plurale e diversificato, che non si esprime ancora in forme complesse di governo del territorio, ma tenta reti, scambi, attivazioni, lancia segnali di limite anche ai comuni che continuano a credere nel cemento, nel turismo non progettato e di transito, che non amano considerare il rispetto dei luoghi una regola amministrativa.
Alcune associazioni hanno per ora un ruolo di critica e di proposta dei processi in atto, di difesa del territorio, ma restano voci parziali senza accesso a forme di gestione, se non della vita delle persone che ci investono, e che è – in questo quadro – essa stessa una difficile prova pratica di democrazia del fare oltre che una testimonianza della possibilità di agire localmente. Sarebbe interessante studiare tutte le comunità della rete da questo punto di vista. Mi sembra a occhio che una delle caratteristiche che le accomuna – nella loro grande differenza – al di là dello spopolamento, è la consapevolezza di muoversi nello spazio della visibilità globale, di coniugare esperienze passate con bisogni attuali, di aprire alle esperienza di artisti (fotografi, uomini di cinema, pittori, poeti, scrittori, etc…) che mostrano una sensibilità assai forte verso questi mondi locali e che con le antenne della forma estetica del conoscere e comunicare riescono spesso, anche se in modo intermittente, a trasformare piccole testimonianze in grandi voci che traversano gli spazi migratori e si fanno sentire anche nei contesti delle arti e della politica.
Ma niente è facile. Qui si avanza a piccoli passi, in tempi lunghi, importante non arretrare. Confrontarsi nel tempo serve anche a questo. Quando la Società dei Territorialisti parla di una democrazia basata sul ‘territorio degli abitanti’, non intende tanto i residenti, o anche i cittadini temporanei che designano una forma nuova di turismo, ma quelli che hanno realizzato una coscienza di luogo, e quindi non vivono nella dimensione della centralità urbana ma costruiscono invece una centralità delle periferie. Su questa linea, nei decenni prossimi, è necessario anche costruire una egemonia che trasformi il senso comune urbano, e che cominci a dare senso al disagio delle città in termini di una civiltà di nuova relazione territoriale.
Spaesati
Per il festival di Armungia Eugenio Cirese, che ci segue a distanza su face book, aveva inviato in omaggio una sua pittura con il titolo Spaesato, una immagine che mi è apparsa subito come fortemente allusiva al disagio urbano, alla mancanza di ‘paese’. Legata alla problematica dei territorialisti di guardare alla città non come al luogo della libertà. ma come il luogo della violazione delle regole dell’abitare e del vivere, che deve ritrovare – guardando alle zone interne – il senso del suo rapporto con il mondo reale intorno. Si dice tra i territorialisti che nelle zone interne non c’è sottosviluppo ma ricchezza di biodiversità, forme culturali, eredità, memoria, cittadinanza attiva, associazionismo, patrimonio immateriale. Quindi è la città il luogo dello spaesamento, che cerca di trovare dove ‘appaesarsi’.
Gli antropologi trovano queste riflessioni anche nelle note postume di Ernesto De Martino su La fine del mondo e su “Le apocalissi culturali”. Tra queste c’è una nota in cui viene introdotto il concetto di ‘appaesamento’, legato alla percezione dello spazio locale di un contadino che, man mano che si allontana dal campanile del suo paese, sente un senso di angoscia ‘territoriale’. Questi disegni dipinti di Eugenio Cirese fanno riflettere su appaesamento e spaesamento. Lo spaesato sembra cercare una direzione del suo volo, forse verso i piccoli paesi e l’appaesamento.
Ho chiesto a Eugenio di consentirci di pubblicare qui anche altri Spaesati (sono tutti autoprodotti, che con la modalità insieme più intuitiva e conoscitivamente più complessa della comunicazione estetica ci aiuta a pensare questi problemi.
Voci
I piccoli paesi sono rappresentati in questo spazio de Il centro in periferia in modi diversi. Il testo di Claudia Sias è molto vicino alla esperienza di Armungia ed è tratto dal dibattito “le arti del fare e le microeconomie locali” e si connette direttamente con il racconto che ho fatto del dibattito armungese. Il lavoro di Mariano Fresta su Pontito, piccolo centro del pistoiese, cui seguirà un altro intervento nel prossimo numero, è invece un esperimento di etnografia su un paese paradigmatico, legato alle pitture di Franco Magnani, emigrato in USA, che rappresentò a memoria con ricchezza di dettagli il paese non più visto, e che suscitarono interesse sia per lo studio della mente (Oliver Sacks) che per una antropologia delle rappresentazioni estreme (Daniel Fabre), un paese rarefatto ma a suo modo compatto, dove nuovi transiti aiutano a arricchire campi di problematicità dei mondi periferici. Questi primi contributi sono di antropologi. Con Olimpia Niglio (architetto) abbiamo un resoconto di prima mano della 16^ mostra Internazionale di Architettura (Venezia a partire dal 26 maggio scorso), che ha al centro il Padiglione Italia con l’Arcipelago Italia, e riflette sullo spazio delle isole di comunità che punteggiano il mare delle Zone interne richiamando a una architettura aderente ai processi contemporanei, legata alla fragilità del territorio e alla costruzione di spazi democratici.
Salvatore Piermarini (fotografo, che ha spesso collaborato in ricerche con antropologi) ci regala infine – e gliene sono molto grato – un intero percorso di vita e di fotografia attento ai mondi fragili, animato da sensibilità legata anche alla sua terra e al suo mondo terremotato. Si tratta di una conferma che la sensibilità degli artisti coglie in modo diverso e spesso anticipativo i grandi processi di cambiamento e le domande profonde del territorio, e riesce a dare ad esse una visibilità, prodotta con sguardi dialoganti e non prepotenti, come è proprio di una certa celebrata fotografia americana.