di Aldo Gerbino
Ecco, dunque, le ‘camere del mare’ / abitate da correnti, deboli respiri ittici, popolate /da corpi vagoli di annegati, da soffi inquieti / di sirene, cinture appena cosparse di scaglie malachite / e frammenti cerosi di arti, implumi conchiglie, fragori di relitti [A. G., da “Per mare, per sirene”, «Nuovi Argomenti», Milano 2003].
Una notturna fascinazione incombe su questi pastelli tracimati, con il loro singolare impulso effusivo, da quelle braci che affiorano dall’anima di Ennio Calabria [1]. Maestro dall’indubbia e lucida consistenza emotiva si concede, con rigore, alla visione grazie alla sua armatura esistenziale accogliendo in sé, privo di ogni infingimento, impalpabili stringhe visionarie, e, allo stesso tempo, compatti grumi d’esistenza nei quali il sogno, l’abbaglio e quel raccolto guizzo del lampo che par che accechi la visibilità del reale, s’incistano. Ed è proprio in questo cieco spazio che trova alimento la sua conoscenza, il suo evidente tentativo di decrittare quanto si stratifichi nella terra di mezzo del subconscio, e quel suo dettare materie ridotte a segmenti, ricavate da escissioni di umane figure, le quali diventano strati: una tettonica arricchita dalla eluizione di cromatismi dispersi per i molteplici piani del vedere e dilavanti sulla superficie cartacea.
Varie forme del sapere segnano, dunque, ogni suo avvertimento visuale, quel suo poggiare corpo e mente oltre la realtà, oltre l’astrazione, o, la sua inclinazione a porsi nell’ingenita compresenza tra il molecolare e il corporeo. Ogni avvertimento, ogni inquieta manipolazione di verità sembrano inoltre giocare, in Calabria, una sorta di misurato, eppur tangibile, scollamento anche tra quanto insiste nel mondo e la sua falsificazione, tra la verità cosparsa dal velo delle frantumazioni (ma fieramente in attesa d’un possibile svelamento) e la vorace decorticazione del portato macroscopico, di quel quanto che a poco a poco si è andato agglomerando, per precipitazione, sul suo necessario contrasto alle immagini vagolanti di fronte allo sguardo, o attraverso l’occhio che dipana il gomitolo filmico dal labirinto intimo delle emozioni, del personale vedere.
Probabilmente si tratta d’una forma empatica del rammemorare: quella rammemorazione che, come spesso ci piace scrivere, si mostra in linea con quanto dichiarato dal magistero filosofico di Edmund Husserl per il quale il sentimento del rammemorare va letto, appunto, quale vera e propria opera di rianimazione a supporto del proprio trascorso esistenziale. Un ri-animare capace di concretarsi, spinto da una vibrante energia, nella pedana del presente. Processo, questo, che sollecita l’estetica, o meglio la poetica di Ennio verso la discesa in quel globo semantico nel quale la pertinente definizione di tale sentimento – qui mediato dall’esercizio dell’accesa visualità – consente l’approdo allo scenario della memoria attiva.
Un guscio adatto a tale esercizio che accoglie la profondità del pastello in cui Ennio racchiude oltre la natura fragile e tenace del mezzo tecnico (così da Perréal alla Carriera a Boldini) la forza concentrica di questo lemma husserliano il cui prefisso ‘ra’, sovraccarico di un noto valore intensivo, evoca, in modo maieutico, accadimenti vestiti dalla loro imprescindibile termica la quale sostenta una sempre più ravvivata materia votata alla percezione e alla sua trascrivibilità.
Si stabilisce, orbene, quasi un’atmosfera da metaverso, ampia e partecipativa, immersa in quel mood fluttuante posto tra le pieghe complesse della reminiscenza. E in ciò Calabria opera, e non soltanto col raccogliere, attraverso i suoi pastelli suggerimenti della iper-realtà che lo circonda – (una recente pubblicazione per le Edizioni Galleria La Vite di Catania, ci consegna un manipolo di pastelli che oscillano dal 2006 al 2022, accompagnati da un testo di Giuseppe Frazzetto) – ma col travasare e con l’assorbire, sottilmente, forme di un passato che, in maniera indefettibile, appaiono sostanziali al suo presente, dandoci l’impressione come, a volte, egli vada riscoprendo, quasi in parallelo alla metodologia archeologica, quei depositi cultuali (qui siamo nel culto dei momenti perfetti caratterizzanti la sua vita intima) definiti ‘ripostigli’: elementi ed esperienze del ricordo: un portare ancora tra le corde del proprio animo, o nel gorgo stesso del “lago del cor”, un accadimento, un momento perfetto o perfettibile, al fine di riconsegnare significato all’onda lunga del proprio vissuto sensibile.
Se osserviamo alcuni tra i suoi ‘studi’, più che l’effetto flou, praticato dalla ricerca foto-cinematografica, vi traspare un valido tremore mutuato da certi gusti provenienti dalla aristotelica mano artigianale legata al ‘pouchoir’ (coloritura manuale) fino al lacerazioni affini al ‘decoupage’, proprio in virtù dei suoi personali ritagli mentali: veri e propri detriti ultrafiltrati dalla mente, sostanze espressive di un’arte smagnetizzata dal vecchio e dal contemporaneo in progress dalle quali si distilla, attraverso un sincretismo estetico con i prodotti della rammemorazione, una condensa ricca di ‘altre’ potenzialità, sovente rigettate per insospettabili orizzonti.
Corpi e immagini – fondamentali oggetti di speculazione per Walter Benjamin – recuperati e messi in rapporto alla storia dell’arte, ai suoi multipli modelli estetici, proprio per quel loro incremento di peso qualitativo sostenuto dalla continua necessità della “restituzione di esistenza” alle cose e alle anime. Un riassemblare, in tale registro espressivo, per cortocircuiti semantici, elaborati nella coppa ribollente di secrezioni della memoria visiva; in tal modo tale ‘restituzione’, dalla pittura al disegno, dal pastello all’incisione, così germinante di progetti vitali propri (e altrui), s’immerge in quei suoi gettiti sonori e luminosi che contrassegnano non soltanto questi pastelli, ma sono significativi indicatori dell’intera dignità creativa di Ennio Calabria.
Che la luce rivesta, in tale spaccato segnico e pigmentario, un ruolo preponderante non v’è alcun dubbio, proprio per la sua funzione di esaltazione dell’oscurità qui felicemente omologata alla densità. In La luce taglia il buio è il solco segnato dal corpo femminile a estendere la forza dirompente di un confine, restituendo una fisiologica permanenza tra chiarore e oscurità, tra una realtà ed un’altra ad essa complementare per magnificarne, nel contrasto spugnoso dell’azzurro, il fluire del fuso sirenico nel calco di un organismo femminile: l’icona che abbandona nell’acqua le sue tracce e che si riflette è, essa stessa, riflesso disseccato nell’affocata e cretacea materia della sabbia.
Tale senso di disgregazione e riappropriazione del corpo – una sorta di delaminazione dei movimenti e, con essi, della storia composita delle passioni – emerge in modo palmare nei pastelli La mente e il mare (2019) e in Lievi passi della sera (2022) in cui il senso della terrestrità si coniuga all’organico vitale esaltato dal momento crepuscolare e dal rincorrersi di un verde straziato in un effetto ‘frottage’; una sorta di metafora sulla transizione, sulla trasposizione delle cose, sulla loro stessa essenza e sul valore del loro esserci lungo la scia delle rovine accumulate dal tempo, sospinte dal progresso tecnologico e di frequente avviluppata da quell’ ‘inverno dei sentimenti’ denunciato dalla Yourcenar. E, ancor più, in Il mare accanto (2022) – espressione tensiva della sua poetica già avvertita sin dagli anni Novanta – la ‘trasposizione’ prende inizio dalla mitografia silenziosa nei confronti dell’imponente divinità equorea, dal contatto con essa, da quel lambire appena percepibile, dal tocco sufficiente a delineare contorni attestati ad una morfologia globale dell’esserci e di una laica sacralità della vita spirituale. Corpo e vitalismo dell’acqua sono, pertanto, categorie poetiche e di pensiero che traggono il loro essere in mostra dalla suprema volontà a condursi verso la limpidità di esistenze troppo spesso snaturate, disperse, nella costante ricerca di una consapevole e umanissima identità.
V’è una ricerca d’identità, in Calabria, artista nato a Tripoli nel 1937 (elemento non infrequente per tanti italiani che hanno avuto i loro natali in Nord Africa); ed è un dato, peraltro, che riveste importanza sia per la sua autorivelazione umana sia per quella artistica da intendere, con l’acuto suggerimento di Brodskij, quale non retrivo valore da attribuire al complemento geo-anagrafico. Una spirale creativa, quella di Ennio, che emerge, col suo impeto gentile e deciso, nell’intercapedine posta tra gli anni Cinquanta/Sessanta. Son proprio i temi legati alle problematiche sociali a costituire in quel torno di anni il concime primario, lo stroma, affinché dai fatti più crudi ed evidenti, o da un necessario pragmatismo (da non leggere in modo assoluto), può chiarificarsi quell’indispensabile travaso che, dai fatti, sposta, senza tralasciarli, l’attenzione dell’artista sul piano della dialettica esistenziale validamente sostenuta dal personale rigore d’espressione fino alla dimensione metafisica.
Di certo non è un caso la sua nota appartenenza, – con Ugo Attardi, Fernando Farulli, Piero Guccione, Renzo Vespignani e Alberto Gianquinto (e i critici Del Guercio, Micacchi e Morosini) al Gruppo “Il pro e il contro” (1961-1964), – che coglie l’indice, oltre le affinità estetiche, di una sua precipua volontà al confronto, al fuoco ideologico nel giudizio sulla società in espansione, ma anche sui pericoli della mercificazione e della globalizzazione della materia creativa che dall’artista si aggetta sulla coscienza collettiva. In tutto ciò non vi può che esser protagonista il dialogo con la ‘forma’, la sua stessa vocazione artistica che, come per molti suoi compagni di cordata, ha rappresentato un modello di superamento di faziosità legate alle dinamiche tra realismo ed astrattismo.
In Ennio Calabria tutto ciò si consolida, nello scorrere dei decenni, con il leggere il tutto attraverso la decantazione di uomini e cose, e ancora corroborando e appropriandosi di un ‘punto di fuga’ (caro a Herbert Marshall Mc Luhan) per rafforzare il proprio ‘punto di vista’ (di efficace impatto il carnale, eppur levitante pastello, Studio per Donna e cane; 2022) e consentendo di dragare nel profondo delle morfologie che abitano la concretezza, fino a seguire inavvertitamente il consiglio, non peregrino, del poeta modernista William Carlos Williams: «nessuna idea, se non nelle cose». Sono alfine i suoi Presagi della notte (2022) a svegliarci in un sussulto, ad avvertirci del sopraggiungere delle ansie, a pesare gli informi timori diffusi nel compatto realismo di corpi alati confusi in una trincea, a separare l’azzurro dal cupo inarrestabile di un drappo notturno. Dalla consistenza anatomica Ennio ora indica, oltre al suo insistere nel mondo, la metafisica predella del suono: si avverte, infatti, col battito d’ali sincrono al cuore, lo scivolare senza più equilibrio nella flebile azzurrità di una luce diafana, inquieta.
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
Note
[1] Ennio Calabria (Tripoli 1937) partecipa, per la prima volta alla VII Quadriennale d’Arte di Roma del 1959; poi alle edizioni del 1972, del 1986 e del 1999. Nel 1961, insieme ad Attardi, Farulli, Gianquinto, Guccione e Vespignani, e ai critici Del Guercio, Micacchi e Morosini, fonda il gruppo “Il pro e il contro”, energico punto di riferimento per le nuove ricerche figurative in Italia. Nel 1964 è invitato alla Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, della quale sarà membro del Consiglio Direttivo dal 1974 al 1978. Ancora presenze alla Biennale veneziana nella edizione 2011 (Padiglione Regione Lazio) e del 2015 (Padiglione Internazionale Guatemala). Numerosissime le presenze nazionali e internazionali, che lo vedono anche come tra i protagonisti dell’arte italiana dagli anni Sessanta ad oggi: Italy Three Directions (San Francisco, 1959), Art against racialism (Londra, 1965), Intergrafis, Triennale Internazionale di Grafica (Berlino 1984, RDT).
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Aldo Gerbino, morfologo, è stato ordinario di Istologia ed Embriologia nella Università di Palermo ed è cultore di Antropologia culturale. Critico d’arte e di letteratura sin dagli anni ’70, esordisce in poesia con Sei poesie d’occasione (Sintesi, 1977); altre pubblicazioni: Le ore delle nubi (Euroeditor, 1989); L’Arciere (Ediprint, 1994); Il coleottero di Jünger (Novecento, 1995; Premio Marsa Siklah); Ingannando l’attesa (ivi, 1997; Premio Latina ‘il Tascabile’); Non farà rumore (Spirali, 1998); Gessi (Sciascia-Scheiwiller, 1999); Sull’asina, non sui cherubini (Spirali, 1999); Il nuotatore incerto (Sciascia, 2002); Attraversare il Gobi (Spirali, 2006); Il collettore di acari (Libro italiano, 2008); Alla lettera erre in: Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011). Di saggistica: La corruzione e l’ombra (Sciascia, 1990); Del sole della luna dello sguardo (Novecento, 1994); Presepi di Sicilia (Scheiwiller, 1998); L’Isola dipinta (Palombi, 1998; Premio Fregene); Sicilia, poesia dei mille anni (Sciascia, 2001); Benvenuto Cellini e Michail K. Anikushin (Spirali, 2006); Quei dolori ideali (Sciascia, 2014); Fiori gettati al fuoco (Plumelia, 2014); Cammei (Pungitopo, 2015); Non è tutto. Diciotto testi per un catalogo (Il Club di Milano – Spirali, 2018).
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