di Pietro Clemente
Musei e territorio
In questo incontro che ha come tema guida quello dei “territori resistenti” abbiamo scelto un titolo “Ecomusei come presidi del territorio”. Ma non volevamo parlare degli ‘ecomusei’ come diversi e altri dai musei, ma piuttosto di quel tratto che accomuna tutti i musei etnografici, di cultura materiale, etnoagricoli, demoetnoantropologici ed ecomusei in senso proprio (perché ci sono delle leggi che come tali li classificano) che è il nascere in un nesso fondamentale con un contesto e il vivere confrontandosi, misurandosi, crescendo nel dialogo con quel contesto.
Cerchiamo di non mettere confini, di vederci in una larghissima alleanza sugli scenari del resistere localmente. E comunque è vero che il tema del rapporto tra museo e territorio è all’ordine del giorno. Nell’ambito museale dopo la carta di Siena promossa dall’ICOM e il grande convegno internazionale milanese su “Musei e paesaggi culturali”, l’idea guida è che i musei siano presidio del territorio. Non è una cosa semplice, tutt’altro, molti musei non hanno le risorse, altri non hanno l’abitudine, il senso professionale adeguato a un ruolo di mediazione, di dialogo con le comunità locali. Nella formazione tradizionale di un museografo prevale la competenza sulle collezioni e sulla loro promozione, il mondo esterno è sullo sfondo. Oggi, acquisita una esperienza collettiva di accreditamento e di riconoscimento del carattere pubblico e di servizio dei musei, lo sguardo al territorio non riguarda solo più il pubblico (le scuole, gli anziani, gli amici del museo) ma compiti nuovi di conservatori, curatori e direttori.
Il museo, come molti anni fa aveva teorizzato De Varine, cerca di diventare ecomuseo, museo della comunità, o in dialogo con essa. Fattore di sviluppo e di interconnessione. Anche se gli ecomusei sono un settore specifico della museografia, che ha in varie regioni di Italia leggi proprie di istituzione e di sostegno, oggi i musei dovrebbero tendere a muoversi con una logica simile, e di fatto la distinzione tra i due ambiti dovrebbe tendere ad affievolirsi, almeno nella forma di una maggiore cooperazione. I grandi musei durano fatica a cambiare missione, pur avendone la possibilità per risorse umane e finanziarie. Di fatto queste esperienze tendono, in modo non colpevole, a corporativizzarsi. A difendere ruoli tradizionali e competenze specialistiche, al di là della missione.
Paradossalmente sono più vicini alla possibilità di questo cambiamento i musei a base volontaria, piccoli, spesso non accreditati, perché di fatto già costituiscono, soprattutto in ambito demoetnoantropologico, delle azioni sul territorio, valorizzano saperi locali, energie locali. Mescolano comunità e competenza. Nella rete dei piccoli paesi, che seguo dal 2016, e che è solo una forma di contatto tra realtà locali senza un atto formale di costituzione, nata per favorire scambi di esperienza, ci sono vari musei che è interessante osservare dal punto di vista del rapporto museo-territorio. Sia Introd (Val d’Aosta) che Monticchiello (Toscana), Cocullo (Abruzzo), Soriano (Calabria), Armungia (Sardegna) hanno musei. In questi casi si può dire in linea generale che non sono stati i musei ad animare la resilienza locale, ma al contrario che è questa ad avere rianimato i musei. Tuttavia quando si svolge attività sociale e culturale in un luogo dove i musei ci sono, anche se talora chiusi o ‘in sonno’, questi si mostrano subito come risorse, supporti, servizi, attrattori, contenitori di utili memorie.
A Introd il museo svolge un ruolo di mediazione, garanzia, e promozione dei prodotti gastronomici della comunità. Nei casi di Cocullo e di Monticchiello svolge un ruolo di supporto degli eventi importanti di queste comunità (La festa di San Domenico e dei serpari, il teatro estivo), a Soriano i musei di diversi ambiti (terremoto, marmi, storia locale, grande convento domenicano) svolgono un ruolo centrale nella politica culturale del comune e si connettono con i musei dei paesi vicini per una offerta complessiva. Ad Armungia il museo degli strumenti del lavoro tradizionale diventa l’ambiente di riferimento dell’attività di tessitura (Associazione casa Lussu), nata come nuovo nodo di sviluppo locale, diventa luogo di insegnamento dell’arte tessile contestualmente pertinente. In tutti i casi si tratta di ruoli nuovi che il museo è chiamato a svolgere, rispetto al suo essere luogo chiuso o aperto, ma centrato sulla ‘scatola museale’.
L’attività di scambio di esperienze legate ai piccoli paesi, mostra spesso aspetti imprevisti, che tendono a ‘decostruire’ immaginazioni e ideologie consolidate. Rispetto a certi pregiudizi correnti sul turismo, sulla ‘gentrification’, sulla tutela conservatrice del paesaggio, le esperienze locali chiedono dei ripensamenti. Imposti dalle esigenza pragmatiche e al tempo stesso orientate in una direzione di sviluppo sostenibile, degli attori che operano nella società civile. Il tema centrale che le connette è il processo di riconoscimento di una coscienza di luogo, come tratto comune delle diverse realtà, perché in effetti nella ‘coscienza di luogo’ non prevalgono i tratti unificanti come nelle ideologie del Novecento, ma quelli diversificanti, perché legati alle differenze tra i territori.
Fare la cosa giusta può significare fare cose diverse. Di queste diversità si coglie il tentativo di connettersi con i saperi e le esperienze che sono immagazzinate nella storia locale, nel paesaggio, nell’agricoltura e nelle competenze del territorio presenti, forse ancora qua e là trasmesse a generazioni ormai staccate dalle attività primarie, o ancora recuperabili dalla memoria di generazioni precedenti, talora anche grazie al museo.
Il caso di Armungia, con l’apprendimento della tessitura tradizionale a telaio da una esperta locale novantenne, ha anche un valore esemplare: quello di non rinunciare a ricostruire e riattivare saperi che possono essere di nuovo spendibili nel nuovo contesto glocale. Colture, gastronomie locali, forme espressive, sono riutilizzabili dentro progetti di futuro locale (come dimostra assai bene il caso della Corsica).
Si è detto che il museo Maison Bruil di Introd valorizza i prodotti alimentari del territorio, e vede il museo in un nuovo ruolo rispetto al passato, non solo esporre ma promuovere, fare da tramite tra territorio e pubblico, mettendo in rete i produttori e cercando di farsi anche certificatore della qualità. È una traccia di un diverso modo di essere museo, ma anche di altre attività della rete. Quelle ad esempio legate alla biodiversità. Nella rete c’è, ad esempio, Fiamignano (Rieti) con una pro loco che promuove la lenticchia locale (detta lenticchia di Rascino). La promuove, crea sinergie, dopo averla recuperata dalla memoria storica del territorio. Ed essa è ora affidata a agricoltori di nuove generazioni e a un mercato globale in cui il valore aggiunto di una biodiversità comincia ad apparire importante.
Casa Lussu ad Armungia, con la sua attività di tessitura, crea reti tra chi lavora sui colori naturali per la tintura, si connette con chi lavora sulla alimentazione ‘biodiversa’. Inoltre nella ristrutturazione della casa storica di famiglia Tommaso Lussu ha fatto l’esperienza dell’edilizia tradizionale sarda e delle nuove imprese che ci si dedicano valorizzando elementi costruttivi diversi da quelli correnti, e vantaggiosi dal punto di vista della abitabilità. Anche qui vale un principio di ‘coscienza di luogo’ che recupera il valore dell’edilizia locale e cerca di contrastare la linea prevalente della cementificazione che domina nelle periferie e nei piccoli paesi.
Ecomusei come quelli cuneesi, in specie quelli della pecora sambucana, e quello del Castelmagno sono direttamente connessi alla produzione alimentare, e nel caso della pecora, anche alla salvaguardia della razza. Ma tanti altri musei sono connessi a produzioni alimentari contemporanee. Il campo della valorizzazione del patrimonio, oggi potendo connettere mondo materiale e immateriale, ha bisogno di una continuità e comunità di approcci che ci aiuti ad evitare barriere e collocarsi invece in un flusso continuo anche dei saperi esperti e di ricerca. Museo o ecomuseo per me tende a diventare solo il nome di un nodo, non un diverso modo di rapportarsi al pubblico o alla conservazione. Anche la ricerca etnografica sarebbe avvantaggiata dal muoversi in questo flusso più che dentro paratie e classificazioni.
In tutte queste realtà locali in cui sono attive iniziative di ‘riabitare’ località in crisi demografica e marginali, si svolgono anche attività culturali, come festival, residenze d’artista, eventi, convegni. In alcuni casi sono attive forme di teatro collettivo che aiutano a ‘fare comunità’ molto più della altre attività. La sfera teatrale è al centro della resistenza di Monticchiello, ma è attiva in forma collettiva anche ad Altavalle (Trento), un altro paese della rete e a Introd. Monticchiello inoltre sta facendo una esperienza di accoglienza di giovani africani. Su questo tema ho visto anche un bell’articolo della Molinari su Dislivelli, che riguarda Berceto e la situazione politica di oggi dell’accoglienza.
I piccoli paesi sono luoghi della diversità. Sarebbe interessante che a Fà la cosa giusta potessimo esporre l’attività dei piccoli paesi della rete per dare una idea della varietà, molteplicità delle loro forme e pratiche di azione. Nella cornice di uno ‘stand’ si potrebbe vedere come poco utile è per un territorio essere espresso per forme separate e specialistiche, e come nulla lo possa rappresentare se non il lavoro sul posto: il dinamismo delle generazioni, degli ‘innovatori’ e dei resilienti.
Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2018
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Pietro Clemente, professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale, collabora con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).
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