Nello studio delle migrazioni come nella loro corriva rappresentazione la soggettività dei migranti è spesso oscurata o minimizzata, quasi essi fossero semplicemente e passivamente in balìa di forze sovrastanti, di spinte irresistibili e incontrollabili e perfino estranee alla loro diretta volontà. A lungo le scienze sociali hanno guardato all’immigrato come ad un soggetto duttile e docile, senza potere contrattuale e senza capacità di resistenza e di negoziazione nei processi di assimilazione agli stili e ai modelli culturali della società d’insediamento. Fino a pochi anni fa le migrazioni sono state spiegate secondo logiche eminentemente economiciste, secondo il modello che si regge sul duplice fattore, quello dell’espulsione dal proprio Paese e quello dell’attrazione esercitata dal Paese cui si è diretti. Vettori gli uni e gli altri delle pressioni e dei flussi demografici, degli strutturali squilibri economici e sociali, delle fasi congiunturali che alternano espansione e recessione, non meno che delle vecchie e nuove forme del colonialismo. Ma i differenziali di reddito non sono di per sé cause sufficienti ad alimentare fenomeni migratori su larga scala. Anche le teorie macrosociologiche trascurano di considerare la natura sociale, relazionale e processuale delle migrazioni, mancando di giustificare come mai solo alcune persone partono, e non soltanto quelle che hanno capitali.
Se è vero che un’emigrazione non è mai spontanea né casuale, è ancor più vero che non può mai essere deterministicamente ritenuta la meccanica risposta ad uno stimolo indotto o reale. Ogni emigrazione ha in verità una sua storia, fatta di centinaia di piccole risoluzioni familiari, di semplici gesti individuali, di povere azioni, «il cui rumore appena percettibile», direbbe Braudel, finisce coll’avere nel tempo e nello spazio un considerevole effetto ponderale. I migranti non sono individui isolati ma esseri sociali che tentano di conquistare posizioni di benessere migliori per se stessi e per le proprie famiglie, cercano di appagare ansie di libertà e aspirazioni di riscatto, modellando in maniera attiva e funzionale tattiche, strategie e prassi. In questo contesto la potenza simbolica delle immagini veicolate dai media ha un suo specifico ruolo nel plasmare l’universo mitico dei desideri, l’orizzonte onirico dei migranti, nel lievitare aspettative e speranze, nel promuovere consapevolezze ideali e progettuali.
Concretizzare quanto si è immaginato e sperimentare il nuovo dispiegato dalle moderne tecnologie della comunicazione e delle rappresentazioni visuali, dai mediorami come li chiama Appadurai, costituiscono probabilmente le leve che spingono migliaia di individui a partecipare al generale movimento di dislocazione collettiva, all’idea di vivere e lavorare in posti diversi da quelli in cui si è nati. Immaginazione e azione congiuntamente mobilitano e motivano le soggettività dei migranti, anche di coloro che fuggono da guerre e da violenze, perfino dei profughi e dei rifugiati, che pur rappresentando la componente più debole del fenomeno esercitano comunque un potere selettivo, decisionale, una volontà di essere e di esistere. Un atteggiamento, da un lato, di non rassegnazione alle condizioni di partenza, al destino prospettato nel proprio Paese d’origine e, dall’altro, di strenua opposizione alle politiche di esclusione e di espulsione da parte delle società di arrivo. Entro gli oggettivi limiti imposti dalle condizioni in cui sono costretti a muoversi, essi hanno in più circostanze dimostrato di essere in grado di porsi come interlocutori nei confronti del mondo esterno e di negoziare, nella quotidianità dei rapporti sociali, la loro posizione.
A guardar bene, i migranti sono da sempre agenti di una sorta di globalizzazione popolare, di una globalizzazione ante litteram costruita dal basso, promotori, anzi motori, di una potente leva alla mobilità e alla dislocazione. Lo sono ancora di più oggi, nel tempo del nomadismo e del transnazionalismo. È appena il caso di precisare che l’ampliamento del mercato internazionale del lavoro, le innovazioni tecnologiche e le rivoluzioni introdotte nell’universo mediatico, la compressione spazio-temporale, hanno favorito la velocità degli spostamenti, l’enorme incremento delle opportunità di contatto e di interscambio, la diffusione delle comunicazioni e delle connessioni.
Drammatica diaspora o coraggiosa avventura, via di fuga o passaggio frontaliero, trasferimento familiare o ricerca personale di fortuna, le migrazioni oggi sono per loro natura esperienze transnazionali, processi di costruzione di nodi e di ponti che legano il paese di partenza a quello di arrivo, il luogo di origine a quello di insediamento, in un intreccio mutevole di rotte, di percorsi, di traiettorie e di relazioni. Per cui alla fine il migrante o meglio il transmigrante è figura esemplare della postmodernità, cioè dello sradicamento ovvero del radicamento in più luoghi geografici e simbolici. Sia esso profugo, rifugiato o semplicemente migrante, in cerca di asilo o di esilio, in fuga da guerre o stretto dalla fame, egli è comunque soggetto dotato di volontà, di personalità, di azione determinata, di un certo protagonismo, non un individuo privo di identità, sballottato ed eterodiretto dal destino potente e cogente. Paradossalmente ne è prova la sfida drammatica che si consuma nelle acque del Mediterraneo, dove, nonostante l’opera di respingimento o di contrasto concertata dagli Stati europei, a difesa della cosiddetta Fortezza Europa, sono più forti del rischio del rimpatrio e della stessa paura della morte le ragioni del vivere, del progettare la propria vita, del decidere del proprio futuro. Naufragi e speranze, sogni e tragedie, viaggi di un’umanità stivata come carne da macello in piccole barche o carrette, fughe e approdi nelle notti senza luna, tra il pericolo delle burrasche e quello dei blocchi delle guardie costiere, odissee di migranti gettati in mare dai Caronte di turno, morti a un metro dalla riva o sopravvissuti grazie a rocamboleschi salvataggi: tutto questo sarebbe incomprensibile se non ci fosse la forza propulsiva di un progetto, di un desiderio, di una volontà. In quanto doloroso strappo e oneroso costo, rischio e sfida altissimi, l’emigrazione è per se stessa l’esito di un atto intenzionale, di una sofferta risoluzione, di un piano di responsabilità individuale. Dentro quel sesto continente dai mobili confini, che incessantemente solca gli oceani, scavalca le montagne e attraversa i deserti, alla ricerca non solo del pane ma della pace, della libertà e della dignità, ci sono gli individui, le persone, gli uomini e le donne, e i loro corpi – ci ricorda Benedict Anderson – non sono soltanto un’altra forma di merce. Essi portano con sé memorie e costumi, credenze ed usi, musiche e spiriti, oggetti e simboli.
Che i corpi trattati e ridotti al rango di cose nelle esperienze migratorie diventino a tutti gli effetti soggetti carichi di soggettività, di funzioni performative e comunicative, è già in tutta evidenza nelle prove fisiche che i migranti sono chiamati a superare, nell’altezza della sfida contenuta nell’allontanamento e nell’attraversamento degli spazi, nella scommessa stessa dell’emigrazione. C’è poi una radicale simbolizzazione del corpo quando i migranti, trattenuti lungamente e ingiustamente nei CIE, decidono in gruppi – per esempio – di cucirsi le labbra, di operare cioè un gesto in cui il corpo si fa esso stesso parola, o la parola corpo, essendo l’unico ancoramento possibile, l’unico spazio dove la persona sente di essere e di affermare il proprio diritto ad esistere, luogo dove progettare e investire su di sé, espressione estrema di una volontà, di una necessità, di una rivendicazione di se stessi. Il corpo come trasduttore di segni è, in questa dimostrazione autolesionistica, un esplicito atto politico contro le istituzioni totalizzanti, una chiara e forte provocazione, un gesto di resistenza, uno scandalo che nel perturbare gli altri mira ad attestare il sé, la vita del soggetto, la dignità individuale, l’umanità tout court.
Per quanto ideologia e prassi dei poteri politici ne influenzino indubbiamente azioni e progetti, accade che i migranti, in forma individuale o in comunità, ne prescindano in qualche modo e rifiutino di diventare altro da quello che essi pensano di essere e da ciò che i Paesi ospitanti vorrebbero che essi fossero. Mantengono apparentemente le loro casacche identitarie, ma coltivano i loro interessi economici e familiari nei luoghi dove vivono e lavorano, pur continuando a guardare sentimentalmente e a pensare, a volte, patriotticamente al loro Paese d’origine. Se è vero che gli uomini tendenzialmente si comportano secondo le proprie categorie culturali, è anche vero che quel che sono è dato da ciò che concretamente e quotidiamente fanno, modificando, aggiustando e perfino tradendo quelle categorie. E questo legame, controverso e, a volte, contraddittorio, tra ciò che si è e ciò che si fa trova nelle vicende migratorie del nostro tempo una rappresentazione quanto mai densa di implicazioni simboliche. Non si riflette mai abbastanza sul fatto che nella dimensione esperienziale della vita quotidiana, l’identità non è qualcosa che «possediamo» ma è soprattutto qualcosa che «facciamo» e può significare cose diverse a secondo dei contesti situazionali, delle circostanze, delle opportunità offerte dagli altri o provocate dalle nostre scelte.
Intorno a queste questioni teoriche e pratiche dibatte e ragiona ampiamente il volume a cura di Luciano Li Causi, Migrare, fuggire. Ricostruire poteri e stranieri negli spazi sociali europei, edito da Pacini (2013). A leggere attentamente le pagine degli undici saggi dei rispettivi autori, in gran parte antropologi dell’Università di Siena, pur dedicati ai diversi e specifici aspetti del complesso fenomeno migratorio, osservato anche attraverso gli esiti di documentate ricerche etnografiche sul campo, è possibile cogliere un tema ricorrente, un elemento di riflessione trasversale, un fil rouge che percorre in modo carsico tutto il libro e ne ricompone come in un mosaico le singole tessere. Sia che si indaghi sui Centri di accoglienza e sulle comuni prassi di integrazione dei profughi e dei richiedenti asilo, sia che si passino in rassegna le politiche di riconoscimento dei diritti degli stranieri in Italia e all’estero, l’attenzione degli studiosi sembra orientata a portare alla luce le varie e originali forme di soggettività che i migranti elaborano nel contesto delle loro relazioni, in quanto dotati di capacità di agire in modo trasformativo sul mondo.
Agency è la parola che, entrata nel vocabolario accademico non senza criticità e ambiguità interpretative, è espressamente richiamata o tende ad essere evocata nei diversi scritti, per designare quel protagonismo di quanti, in opposizione a norme restrittive e repressive del potere politico e statuale, tessono legami, connettono luoghi, rimodulano e rinnovano il proprio patrimonio etnico, attuano ricongiungimenti familiari e danno vita a catene parentali, costruiscono dispositivi di mutuo sostegno, dispiegano network e strutture associative, creano circuiti di economia etnica transnazionale. Nel sistema reticolare o «rizomatico», per usare le parole di Gilles Deleuze, che le migrazioni comunque producono nonostante i cippi e i muri innalzati dai governi nazionali, hanno modo di esprimersi le soggettività dei migranti, quando nei Centri di accoglienza della Toscana – come racconta Umberto Pellecchia nel suo contributo – a dispetto del puro inquadramento come ospiti fruitori dei servizi assistenziali che il sistema prevede, si appropriano dello spazio di residenza, personalizzano gli ambienti, attivano pratiche di solidarietà e associazionismo fino a tentare interessanti esperienze di autogestione. Diventano cioè autori della loro vita e padroni della loro individualità, quasi sempre negate o mortificate dalle regole burocratiche di un apparato che infantilizza, deresponsabilizza e cancella ogni traccia di umanità. Così è altresì quando assumono ruoli di cittadinanza attiva, perfino nelle aree a forte controllo leghista: nel trevigiano – per esempio, come scrive Francesca Marengo – i migranti, in rappresentanza di minoranze coese e strutturate, guadagnano pubblica visibilità e tracciano precisi percorsi di riconoscimento attraverso l’efficace organizzazione delle consulte e la negoziazione collettiva dei diritti.
Dell’uso strategico della differenza etnica come risorsa politica per accedere a determinati servizi e per ottenere particolari benefici, e delle microdinamiche quotidiane messe in atto dagli stranieri nella dialettica conflittuale con le istituzioni, i diversi saggi propongono numerosi esempi attestati in Italia e nei contesti europei, quali Francia, Serbia, Cipro e Gran Bretagna. A fronte delle procedure di stereotipizzazione degli stranieri che le retoriche pubbliche tendono a intrappolare e denominare entro un’unica categoria indifferenziata, che non distingue tra migranti e profughi né tra comunità e minoranze, gli studiosi sono impegnati a spiegare l’inefficacia delle politiche assimilazioniste e di quelle multiculturaliste alla luce degli sviluppi transnazionali del fenomeno della globalizzazione. La verità è che dentro la massa indistinta dei flussi migratori i soggetti coinvolti plasmano un melange di appartenenze che configura una scomposizione segmentaria delle identità, una capacità di governare e di gestire riferimenti culturali diversi e di modellare in una costante opera di adattamento il regime della propria vita. Tra gli interstizi del potere i migranti cercano e spesso trovano spazi di agibilità e di resistenza, riarticolando usi, norme, abitudini e stili mentali e comportamentali differenti a secondo degli ambiti in cui agiscono. Come ha documentato Riccardo Trulla, i tamil di Palermo ridisegnano nella diaspora la loro posizione di popolo sconfitto nelle sue aspirazioni all’indipendenza e riformulano il progetto del movimento insurrezionale delle Tigri. Dal canto loro, le seconde generazioni dei pakistani immigrati in Gran Bretagna, studiati da Marta Bolognari, rinunciano al mito del ritorno alla loro terra e costruiscono un altro Paese immaginario, in cui coesistono nell’orizzonte simbolico e transnazionale il qui e l’altrove, il passato e il presente, la memoria e la prospettiva.
Di grande interesse etnografico è infine la ricognizione compiuta da Giulia Fabbiano sulla comunità degli Harki originari dell’Algeria e trapiantati in un villaggio della Provenza francese. Si tratta di una originale esperienza di «patrimonializzazione soggettiva e collettiva» ad opera dei giovani harki che elaborano una particolare etnogenesi postcoloniale funzionale alle loro rivendicazioni, così che i loro modelli di comportamento «si adattano di volta in volta alla situazione definita dall’interazione e dal decoro in cui si trovano, al contesto in cui le categorie si formano e si confrontano». Se è vero – come scrive nelle sue conclusioni l’autrice – che «il rapporto, fin troppe volte dato per scontato, tra appartenenza e cultura è una costruzione storico-politica e non un’alchimia primordiale, benchè come tale possa essere percepito dagli attori stessi», il costrutto identitario, nella sua doppia dimensione narrativa e fattuale, è frutto di un lavoro di bricolage, di mediazione e traduzione, di scomposizione e ricomposizione di elementi diversi, in un gioco di appartenenze multiple percepite non più come perdite né come repliche ma come risorse plastiche, opzioni aperte, posizionamenti mobili e fluttuanti. Al centro di queste complesse e sfuggenti dinamiche culturali resta pur sempre la soggettività dei migranti, la loro forza di azione, di resistenza o forse meglio di resilienza, la loro strategia fondata su relativismo e pragmatismo, la loro capacità di negoziare il proprio posto nella società e nel mondo.
Dialoghi Mediterranei, n.7, maggio 2014