“Il negazionismo”, scrive Bernard-Henri Lévy, “è lo stadio supremo del genocidio”, in quanto cancella un ricordo dalla memoria collettiva. Altre tesi sono meno radicali, considerando il revisionismo una componente innata della ricerca storiografica.
Tuttavia, la vicenda legata al “sacrario” che il comune di Affile, alle porte di Roma, ha dedicato al Gen. Rodolfo Graziani, autore di efferati crimini ai danni delle popolazioni africane che provarono a resistere al colonialismo nostrano, va letta anche sotto un’altra lente. Quella dell’indifferenza collettiva di un popolo con scarsa memoria, che fatica a fare i conti con il proprio passato, ed è ancora vittima del datato ancorché falso cliché “Italiani, brava gente!”. Ne è prova lo spazio risibile dedicato alla vicenda sui media nazionali, preoccupati a puntualizzare lo sperpero di denaro pubblico piuttosto che il significato dell’opera. Si sono mobilitati la scrittrice italo-somala Igiaba Scego, l’Associazione per gli Studi Africani in Italia (ASAI) con un appello inoltrato al Presidente della Repubblica, nonché il deputato Jean-Léonard Touadi con un’interrogazione parlamentare. Nobili iniziative, ma ben poca cosa dinanzi allo stupore internazionale e ad una campagna di protesta che ha raggiunto il New York Times, la BBC e l’ONU, attraverso alcuni diplomatici etiopi.
Ripercorrendo le tappe della vicenda, il comune di Affile aveva ottenuto un finanziamento regionale per la “realizzazione di un monumento al soldato”: terminata la costruzione, aveva poi deciso di dedicarlo a Rodolfo Graziani (per il sindaco di Affile e la comunità locale sarebbe lui “il Soldato”), inaugurandolo l’estate scorsa alla presenza di alcuni politici di destra locali. È di pochi giorni fa la notizia del blocco dei finanziamenti per il completamento dell’opera (che è costata 127 mila euro, contiene un busto del maresciallo e vi campeggiano le scritte “Patria” e “Onore”) e dell’iscrizione al registro degli indagati del sindaco e di due assessori per il reato di apologia del fascismo.
L’accusa è respinta categoricamente dal sindaco Viri, il cui intento sarebbe stato soltanto quello di onorare “il più illustre cittadino di Affile”. Graziani, firmatario del Manifesto della razza e poi repubblichino, fu uno dei peggiori criminali di guerra italiani della seconda guerra mondiale e si macchiò di gravissimi reati per i quali non pagò mai. Se nella Repubblica di Salò “si distinse” per la fucilazione dei renitenti alla leva, fu in Africa che la sua condotta è stata particolarmente ignominiosa. Chiamato alla “riconquista” della Libia (1924), ottenne il soprannome di “Macellaio di Fezzan”. Per isolare i guerriglieri dalla popolazione, aprì campi di concentramento nel deserto, deportandovi centinaia di migliaia di appartenenti alle tribù nomadi della Cirenaica, ove sterminò le mandrie e bruciò i raccolti. Pochi sopravvissero alle deportazioni che coinvolsero vecchi, donne e bambini, e alla vita nei lager; ancora meno all’uso delle armi chimiche quali l’iprite, il fosgene e l’arsine che – sebbene già vietate dalle convenzioni internazionali – divennero la normalità in Libia e poi in Abissinia. A proposito della dura repressione, Ugo Pini scriverà: “Di impiccatori ce ne furono dappertutto ed in nome di tutte le patrie o quasi, ma Graziani ne divenne modello inappuntabile”. Il colpo più spettacolare lo mise a segno nel settembre 1931, quando catturò e, dopo un processo sommario, fece impiccare pubblicamente il più importante capo della guerriglia senussita, il settantenne Omar al-Mukhtar, considerato un eroe nazionale in Libia.
Fu anche peggio nel Corno d’Africa: oltre a metter in pratica le tecniche di terrore e sterminio già sperimentate dai colonizzatori inglesi e francesi, Graziani fece sistematico ricorso a vendette e rappresaglie. A seguito del fallito attentato contro la sua persona (19 febbraio 1937) messo in atto da due Arbegnuoc (i patrioti etiopi), Graziani lasciò che i fascisti si lasciassero andare per tre giorni a un’ondata di violenza collettiva contro i civili per le vie di Addis Abeba, uccidendo chiunque capitasse loro davanti, in un pogrom costato migliaia di morti. Fu colpito anche il clero locale, accusato di essere dalla parte dei patrioti. Fu in questo frangente che Graziani ordinò al generale Pietro Maletti di decimare tutti i preti e i diaconi (molti giovanissimi) del monastero copto di Debrà Libanòs, il cuore della Chiesa etiope, credendo che lì si fossero nascosti gli attentatori. Una strage costata la vita ad almeno 1.400 monaci e commissionata ai reparti islamici inquadrati nel nostro esercito, per evitare problemi di coscienza ai nostri soldati. “Preti e monaci adesso filano che è una bellezza”, telegrafò Graziani con cinico sarcasmo al generale Alessandro Pirzio Biroli. Il maresciallo completò poi l’opera ordinando di uccidere i numerosi cantastorie, indovini, guaritori e fattucchiere che si trovavano ad Addis Abeba, poiché sospettati di predicare contro l’occupazione italiana.
D’altronde, mai mostrò segnali di ravvedimento, neppure quando l’Italia repubblicana gli riservò, analogamente a tutti i gerarchi fascisti, una sorte favorevole: l’amnistia di Togliatti ed il rifiuto all’estradizione in Etiopia che ne chiedeva il processo per crimini contro l’umanità. “Non ho mai dormito tanto tranquillamente”, sosteneva di rispondere a se stesso quando s’interrogava sulle accuse di atrocità che gli erano state mosse. Se è vero che simili violenze sono frutto di una totale disumanizzazione dell’avversario, l’operato di Graziani in Africa è un’ulteriore riprova di quanto le idee razziste fossero ben radicate nell’Italia fascista, grazie alla propaganda dei cinegiornali, con buona pace di una storiografia auto-assolutoria che narra di un colonialismo italiano “diverso dagli altri” e giustifica ad esempio la proclamazione delle leggi razziali nella deriva filonazista assunta dal tardo fascismo.
“L’Eroe di Affile” cui il comune voleva tributare “onore” per il suo “inflessibile rigore morale” è lo stesso che, secondo Angelo Del Boca, ha garantito il più grande “serbatoio illegale di quadri e pitture e crocefissi della chiesa etiope […] in Italia”: ed è anche “il soldato” che, come Badoglio, quando l’imperativo era salvare la propria pelle, dirigeva le operazioni di guerra a decine di chilometri dal fronte, mentre l’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié era talvolta lui medesimo sul campo a manovrare la contraerea.
La storia di Graziani s’interseca quindi con quella del colonialismo nostrano, non meno brutale degli altri, solo più avventuriero, incerto e tardivo: l’Italia dovette accontentarsi delle briciole della “Scramble for Africa” iniziata decenni prima, ovvero scampoli di terre aride poco adatte a farne colonie, e per di più in un’epoca in cui già nascevano i primi movimenti di liberazione, come quelli di Nkrumah in Ghana e di Kenyatta tra i Kikuyu del Kenya.
Ma al di là dell’uomo, ci sono almeno due fenomeni che emergono da questa storia, che i media stranieri faticano a comprendere, chiedendosi se, ad esempio, può mai venire in mente ad un borgo tedesco, oggi, di dedicare una statua ad Himmler. In Italia, la mancata incriminazione dei criminali fascisti in nome della concordia nazionale e delle imminenti esigenze di ricostruzione post-bellica portarono in secondo piano la piena assimilazione da parte dell’opinione pubblica della natura stessa del fascismo, talvolta bonariamente minimizzato o, peggio, ridotto a mero fenomeno di costume: in più si è prodotta, soprattutto, una quasi cancellazione del colonialismo, autentico tabù nazionale, dalla memoria collettiva (si pensi, a titolo d’esempio, alla censura imposta al film “Il leone del deserto” sulle gesta di Omar al-Mukhtar). Solo nel 2008, in occasione di una visita del premier Berlusconi a Sirte, per la prima volta l’Italia porge le sue “scuse” alla Libia, per i danni inflitti alla Libia dal colonialismo: all’interno, però, di un’operazione politica volta a porre termine agli “esodi biblici” degli immigrati dell’Africa sub-sahariana verso le coste italiane. Il risultato è che talune aree politiche ancora oggi rifiutano pervicacemente l’esistenza del colonialismo. Le stesse forze politiche xenofobe che oggi inveiscono contro il neo-ministro dell’integrazione Cécile Kyenge, paventano l’invasione da parte di orde di “clandestini” (quando la maggior parte di essi arriva in Italia in aereo con visti turistici e poi vi rimane) e impediscono la realizzazione di serie politiche dell’immigrazione e dell’integrazione.