CIP
di Pietro Clemente
Traggo questa immagine, che non ha nulla a che fare con i roghi drammatici di questa estate apocalittica, da un volume di Luciano Giacchè sulla Valnerina [1]. Già in un precedente editoriale ho fatto riferimento all’immagine dell’accendere fuochi come modo di condividere destini futuri. Giacchè adopera questa espressione riferendosi ai paesi che hanno perso abitanti, la usa nel senso di ri-costruire famiglie, focolari, ‘fuochi’, accezione quest’ultima usata negli antichi censimenti. In questo senso ‘riaccendere fuochi’ è come dire ‘riabitare l’Italia’, che è lo scopo che si prefigge ‘Il centro in periferia’ e il tema delle riflessioni e dei saggi presenti in queste pagine.
Una estate
Che estate dolorosa! Caldo equatoriale, disastri, quell’ondata di fango che irrompe su Bardonecchia come in un film apocalittico. Incendi dolosi con inneschi documentati in Sardegna, in Sicilia, in Grecia, a Tenerife, nelle Hawaii, disastri in California tra alluvione e terremoto. E poi la guerra senza fine in Ucraina piena di menzogne e di minacce, con le immagini paradossali di spiagge della Crimea dove bagnanti in costume da bagno fotografano i droni ucraini colpiti dalla contraerea russa. Le elezioni in Equador dominate dal cartello della criminalità della droga, situazione che non fa che delineare un assai gracile equilibrio mondiale. E poi i morti sulle nostre montagne, i sempre più frequenti femminicidi, le tragedie in mare quasi quotidiane dei migranti. Meteorologi, scienziati, movimenti ambientalisti ripetono che i segni dell’Apocalisse dell’antropocene sono ben presenti e che stiamo oramai vivendo dentro il grande disastro.
Credo che sia lo scenario più drammatico che ho vissuto nei miei 80 anni di vita. Le forze di destra restano negazioniste o scettiche mentre le forze dell’opposizione non sembrano sensibili all’apocalissi. Nella loro lista di priorità il clima viene dopo il salario minimo, le dimissioni di La Russa e la legge sulla cittadinanza ai migranti. Che dire del futuro ai figli, ai nipoti? Mio nipote mi ha consigliato di leggere La strada di Cormack Mc Carty. Ho letto il libro con l’angoscia di chi ha vissuto gli anni ‘60 e ‘70 dove le lotte politiche aprivano ad un futuro di speranze, di sogni, di cambiamenti importanti per poi assistere ad una progressiva implosione dove la ragione per cui si lotta ancora è forse più che altro una postura a cui non si riesce a rinunciare. Per i giovani l’apocalissi incombe ma sono pochi quelli che cercano di contrastarla: sono abituati a viverci dentro. E noi che discutiamo sul destino delle zone interne, su uno sviluppo basato sui luoghi, sulla coscienza di luogo, sul valore del patrimonio delle tante diversità della nostra terra molteplice cosa siamo? E io chi sono quando nel leggere i testi del volume della Società dei territorialisti (qui segnalato e recensito) vedo aprirsi guizzi di luce nella mia mente ormai adusa al grigiore dei mondi concettuali? Io chi sono quando me ne infischio delle accise e degli extraprofitti – danze comiche nel teatro di un potere che si esercita nel vuoto –? Forse sono e siamo pazzi, animati da follia, chissà se da una santa o da una pura follia. Credo che i pazzi siano loro che sul palcoscenico del presente fingono che il mondo sia sempre lo stesso e non danno l’allarme del disastro in corso. Il nostro dibattito è ai margini del PIL, della Confindustria, della lobby dei consumatori, ed è per questo più vicino agli spazi di resistenza, ai luoghi dove è possibile che – come durante le guerre – la gente sfolli. Luoghi abbandonati e ritrovati, simboli di una altra storia del vivere, dell’abitare, del produrre. Possibili atolli dopo lo tsunami. È inutile illudersi ma è giusto continuare a pensare e a progettare.
Luoghi, storie
Passare dal dibattito teorico e dallo studio di prospettive e tendenze politiche alle pratiche della vita è oggi molto più difficile che nel passato. Non ci sono soggetti sociali cui riferirsi che possano equipararsi alla mitica classe operaia degli anni 60 e 70, o ai ceti medi produttivi, ai capitalisti, ai monopolisti, e agli imperialisti. Oggi questi soggetti-ceti hanno subìto grandi mutamenti e non hanno più riscontri diretti nella politica e nemmeno nelle tendenze e nei processi se non nelle forme delle lobbies. Sono ceti mescolati e plurali: possono essere buoni o cattivi su tanti temi strategici, e quindi anche sul tema del riabitare l’Italia. Nelle aree interne ci troviamo in presenza di altre prospettive: residenti, classi d’età, distanze, servizi. Siamo nell’ambito dei pari diritti dei cittadini previsti dall’articolo 3 della Costituzione.
Quando si passa alla sfera delle pratiche ci si trova di fronte ad un pulviscolo incredibile di luoghi e di varietà che sono evidentemente risorse plurali, polifonie possibili, energie trascurate e dimenticate dalle quali possono scaturire nuove potenze produttive sociali e culturali. A lungo abbiamo visto queste dimensioni come limiti della modernità, e nel loro essere state dimenticate appare chiara l’esigenza e la traccia di una revisione del pensiero, di un ordine di nuovo tipo, di una formazione legata a competenze che non sono state tramandate. Mi pare a questo punto pertinente citare una canzone di Ivano Fossati del 2000 che recita che «la disciplina della terra sono i padri e i figli, i cani che guidano le pecore, tutti quei nomi dimenticati sotto la mano sinistra del suonatore». Ritrovare livelli attivi di formazione pratica, basati sulla tradizione del territorio e sull’innovazione tecnologica, è davvero cosa difficile e non condivisa nella scena sociale e culturale collettiva, nella quale ci sono tante esperienze positive ma una certa confusione generale. Tra letture (Val Nerina [2], Apuane [3]) e percorsi reali (per me la Val Pellice, ma anche l’Abruzzo e il paese di Gessopalena) si trovano difficili passati dimenticati e segni di difficili vite future.
La Val Pellice racconta il mondo valdese, le persecuzioni e la guerriglia di montagna a partire già dal 1600: è un territorio conteso, conosciuto e denominato palmo a palmo. Il piccolo museo valdese di Rorà è un percorso di storia religiosa, un piccolo museo, con pannelli e oggetti, legato al volontariato che certo non è un modello di novità e di comunicazione museale, ma forse proprio per questo mostra la sua forte ragione di esistere. È un presidio della memoria delle valli, dei luoghi impervi dove nacque la resistenza valdese che con tanti morti e una pazienza plurisecolare di esodi e di ritorni portò alla libertà religiosa. Rorà è il luogo centrale di quella guerriglia e della figura di Giosuè Gianavello che ne fu protagonista e ispiratore. Senza il museo quei luoghi potrebbero restare consegnati solo alle passioni alpine, alle passeggiate, al turismo generico. Su questo piano anche un piccolo museo può fare la differenza.
Oggi i musei tendono a ritrovare una funzione di innesto della memoria nel presente, non più solo di storia del passato. In queste pagine vi è un interessante ritorno ai temi del museo sia sul piano delle riflessioni su di esso, che su quello delle esperienze e delle narrazioni. Per Il centro in periferia il museo delle culture locali non perde mai la sua funzione primaria di connessione con il territorio: è un presidio del territorio stesso, una sentinella contro la smemoratezza (Souhaila El Jinani, Mario Sarica). Pagine di libri o sguardi attuali, percorsi, piccoli musei, ai margini della nostra vita, mettono sotto processo quel che siamo diventati, quel che abbiamo fatto. Inurbamento, lavoro operaio, unificazione del mondo in un disegno di costruzione di una comune e nuova umanità, ci hanno fatto perdere il senso di quel mondo di differenze culturali, di saperi, di parole che oggi ritroviamo con fatica e dopo troppo tempo.
La differenza tra le diversità da valorizzare e le diseguaglianze da combattere sono ora nettissime. Confesso che anche io ho ironizzato sulla proposta del Club di Roma del 1968 e poi su quella di crescita zero del primo ecologismo. Un marxista anni 60 e 70, come me, come poteva non sorridere (ma anche i marxisti di ora continuano a sorridere) davanti a proposte che apparivano ingenue e regressive. Ma la decrescita felice, ancora e di nuovo irrisa da destra e da sinistra, arriva quasi 40 anni dopo, e la consapevolezza della crisi planetaria è diffusa e sa di morte, Sorridere non è più possibile: le risate della politica possono essere ascritte alla categoria del riso sardonico, al nesso tra il riso e la morte. Negli anni ‘90 con la rivista Ossimori, in dialogo all’inizio con la ben più nota rivista ecologista L’Arancia Blu, tentammo (eravamo un gruppo formatosi all’Università di Siena) di dare all’antropologia un nuovo campo teorico, un campo ossimorico, senza coerenze obbliganti, in cui l’ecologia e le lotte sociali, il pensiero critico e le terapie sociali passate e presenti potessero convivere senza dogmatismo. Dopo dieci anni constatammo di non avere avuto successo.
Anche per questo ora, 20 anni dopo la fine di Ossimori, mi appassiona leggere le pagine di Ecoterritorialismo a cura di Alberto Magnaghi e Ottavio Marzocca. Sono gli atti di un recente convegno che aveva tra i propositi centrali quello di chiamare a raccolta vari studi sociali per cercare di farli diventare parte di un progetto comune. In queste pagine il volume viene commentato attraverso due interventi con vivaci discussioni (Barbera, Bindi). In apertura del volume Marzocca fa una rilettura delle teorie sociali e politiche del presente, mentre nei testi che seguono – in cui la storia della geografia e della sociologia vengono riviste alla luce dell’esigenza di trovare una dimensione comune di nuova ricerca non specialistica (o post-specialistica) – mi hanno decisamente appassionato. In questo volume manca un mio contributo perché non sono riuscito a scrivere un testo dove rappresentare l’antropologia italiana, che è ancora molto guardinga nel traversare questi temi. La mia esigenza di un approccio teso al ‘centro in periferia’, in uno spazio interdisciplinare o forse anche post-disciplinare in cui l’antropologia può dire molto se rinuncia a presunzioni di primato o di solitudine analitica, mi pare ancora agli inizi. Va segnalato però che dal 2022 è stato finanziato un PRIN nazionale su questi temi e da tempo alcuni colleghi (da Vito Teti a Letizia Bindi presente anche in queste pagine) vi lavorano sistematicamente.
Politiche
Nel volume sull’Ecoterritorialismo, Alberto Magnaghi ha scritto un testo (La bioregione urbana, strumento multidisciplinare del progetto eco-territorialista) che si propone di raccordare le strategie dell’ecoterritorialismo alle politiche e alle nuove figure di politici operativi. Scrive tra l’altro (ivi: 102):
«In questa direzione l’azione politica locale atta a produrre forme di democrazia comunitaria investe la cultura e la professionalità dei nuovi soggetti politici, attivi in diversi ambiti correlati in qualità di: promotori di processi di crescita della “coscienza di luogo”, essenziali a stimolare conoscenza (esperta e contestuale) dei valori patrimoniali del territorio, da mettere in azione nei processi di produzione di ricchezza durevole; questa cultura dei luoghi è il bagaglio imprescindibile di una figura di politico che agisce nei processi produttivi, formativi, comunicativi, culturali atti a riconoscere nel patrimonio territoriale gli elementi di forza e peculiarità della capacità riproduttiva della comunità locale;
• esperti che elaborano progetti, gestiscono finanziamenti e politiche di settore a partire da programmi strategici elaborati dalla comunità di luogo di cui fanno parte attiva;
• abitanti e produttori in grado di condizionare a questi fini le attività delle amministrazioni locali verso l’autogoverno, riorganizzandone in forma intersettoriale l’attività, sganciandone gli obiettivi dall’eterodirezione dei partiti e delle strutture economico-finanziarie globali».
Riflettere su questa dimensione significa mostrare la strada che c’è da fare, la distanza tra stato delle cose e progetto. La riflessione attenta e competente di Luciano Giacchè sulla Valnerina, vista dal basso delle esperienze fatte nel territorio, mostra che quel territorio, offeso da esodo e terremoto, ha già avviato buone pratiche e ne ha anche misurato il potenziale successo, ma che «la Montagna che richiede l’impegnativo esercizio della ‘virtù’ per poter sottrarre al declino un territorio strategico per l’equilibrato sviluppo regionale e nazionale, continua a restare in terra nascosta alla vista , come “il lato oscuro della Luna”»[4].
È il tema della invisibilità dei territori marginali per le politiche di sviluppo che alternano le localizzazioni comunali tipo PNNR, prive di progetti comuni e incapaci di avere esiti di sviluppo equilibrato, con la totale assenza di politiche mirate alle località, ai territori.
Anche in territori come quello delle Alpi Apuane con epicentro Carrara [5] è possibile scorgere straordinarie polifonie di esperienza umana e associativa e forti conflitti che la rendono quasi emblematica dell’antropocene, giacché la produzione del marmo attraversa tutto il mondo occidentale lungo due millenni. Dalla difesa che impegna un volontariato di alto profilo per difendere le specie botaniche endemiche nell’ambito di un orto botanico alpestre di straordinaria qualità e storia, alle imprese private che ormai saccheggiano le cave e distruggono i luoghi, dall’Accademia di belle arti e la sua tradizione che difende la ‘bellezza’ e l’arte del marmo, all’associazione che da anni cerca di bloccare ogni attività estrattiva, si coglie l’assenza totale della politica sul territorio. Politica che non progetta ma galleggia, che critica chi è radicale ma non ha risposte, e che preferisce infine che tutto resti come è, per poi partecipare alla cerimonia funebre della catastrofe con un vestito ricordabile dai ‘social’.
Anche noi che operiamo in questo ambito pensiamo, scriviamo, leggiamo ben saldamente nascosti alla vista, in attesa che qualche navicella spaziale scopra il lato oscuro della luna. Nei contributi che sono presenti in questo n. 63 di Dialoghi Mediterranei, si trova un’ampia gamma di momenti significativi del Riabitare l’Italia. Vanno dalle esperienze istituzionali più avanzate (SNAI) ma mai diventate centrali (Fresta che recensisce Tantillo), a valutazioni e progetti su territori marginali (De Marzo, Tomeo) o bilanci di lunghe esperienze (Seddaiu) e di dibattiti sugli stili nostrani (Grato).
Ma le politiche dell’ecoterritorialismo ci mettono di fronte alla realtà delle comunità locali, dove è facile trovare sindaci e giunte del tutto estranei ai temi che discutiamo. Sappiamo bene che l’ANCI opera anche per formare e coordinare sindaci e giunte, e che esistono associazioni specifiche di comuni di alto profilo, e per la Montagna l’UNCEM è un nodo prezioso di scambi, progetti, rivendicazioni, ma è anche evidente che i sindaci a volte sono dei politici con ambizioni personali, talora poco informati e scarsamente rappresentativi delle comunità. Nel mondo gelatinoso delle liste civiche si nascondono aspetti spesso assai negativi. Bisognerebbe avere la pazienza di denunciarli uno ad uno e di stilare elenchi delle cattive pratiche. Anche per rendere più ampia la consapevolezza delle differenze tra quelle cattive e quelle buone.
La resistenza di Ornella
Il sindaco di Tricase sta conducendo una guerra personale per espropriare il paese di un’originale associazione, centro culturale e piccolo museo, che arricchisce la comunità con incontri culturali, con rappresentazioni pubbliche, accoglienza di eventi e con pubblicazioni sulla storia e gli usi territoriali. Si tratta di Liquilab [6], una associazione nata da una legge della Regione Puglia formulata da Nichi Vendola, tesa alla promozione di centri culturali giovanili, legge quest’ultima assai apprezzata a livello nazionale. Questa associazione disponeva per la sua attività di locali concessi in comodato d’uso dai sindaci precedenti. Con l’insediamento della nuova Giunta, l’associazione si è vista via via revocare il comodato, intimare lo sfratto, staccare la corrente elettrica, e infine apporre una catena all’ingresso.
Ci si domanda trasecolando: possibile che un centro culturale, un luogo attivo, con un archivio di cultura popolare di tradizione orale e un museo di strumenti di lavoro, che d’estate riempie la piazza antistante di gente per presentazioni di libri ed esecuzione di concerti possa essere oggetto di una simile persecuzione? Il sindaco persecutore non ha mai spiegato la ragione dello sfratto e dell’uso che ne avrebbe fatto. Ornella Ricchiuto, che è la ricercatrice territoriale intorno alla quale è cresciuta l’esperienza di Liquilab, ha chiesto e ottenuto il sostegno e la solidarietà della comunità scientifica, dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale e delle Soprintendenze, ma anche questo non è servito a ridurre a ragionevolezza il sindaco. La politica si è fatta sentire per il suo assordante silenzio, lasciando il vuoto intorno e costringendo Ornella a una battaglia giuridica perché accordi amichevoli erano esclusi e l’evidenza dei diritti culturali veniva totalmente negata.
Ornella ha fatto una esperienza che non esito a chiamare di ‘resistenza’ contro l’ingiustizia e la persecuzione istituzionale. Molti colleghi, molti collaboratori de ‘Il centro in periferia’ e la redazione di questa rivista hanno espresso solidarietà a Liquilab, ma il sindaco non ha voluto nemmeno vedere la rete nazionale di sostegno all’associazione che veniva crescendo. Ad un primo livello di giudizio il giudice del Tribunale di Lecce ha dato ragione a Liquilab, ha riconosciuto il valore di un comodato d’uso a fini culturali ed ha imposto di togliere il chiavistello e di restituire agibilità ai locali. Ma il sindaco non ha riattivato l’erogazione della corrente elettrica e intende continuare a opporsi alla riapertura di questo centro di vita pubblica. L’unica cosa che ha capito è che doveva togliere la catena che chiudeva l’ingresso ma non che doveva ripristinare l’agibilità culturale di Liquilab. Una prima vittoria per una battaglia che continua. Ornella Ricchiuto ci dà in queste pagine (vedi oltre) il racconto della sua resistenza, e notizia di una prima battaglia vinta.
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Note
[1] L. Giacchè, Il lato oscuro della Luna in Terra, visto dalla Valnerina, San Donato Milanese, Ed. dell’Asino, 2023: 63.
[2] citato
[3] Stefano De Martin, a cura di, Cartoline dai monti di luna. Racconti di marmo, utopie cammini apuani, Società editrice apuana, Carrara, 2022
[4] Cit.: 89
[5] Vedi il libro citato Cartoline dai monti di Luna
[6] Per esteso: Associazione ORS Osservatorio ricerca sociale centro studi politiche e ricerche sociali APS.
________________________________________________________
Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche del nuovo millennio (a cura di Emanuela Rossi, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); I Musei della Dea, Patron edizioni Bologna 2023). Nel 2018 ha ricevuto il Premio Cocchiara e nel 2022 il Premio Nigra alla carriera.
______________________________________________________________