«Ho vissuto molte stagioni, e ho cercato di trarre da ognuna temi che mi dessero accesso al mutato clima e stile: mi sono formato nella “storiografia dell’impegno”, e ancora oggi considero il lavoro storico un impegno civile». Nell’ego histoire che Giuseppe Giarrizzo aveva ricostruito, anni fa, del suo itinerario di studi, il “mestiere dello storico” (che aveva scelto «senza mai pentirsene») si articolava su una duplice vocazione, per la storiografia europea e per una Sicilia non avulsa dal Mezzogiorno. “Storico delle idee”, egli ha privilegiato nel processo storico «le istituzioni, formali e no, le strutture più che il cambiamento sociale». «Ho scelto di essere storico del Potere, piuttosto che storico sociale della Politica» (Autobiografia di un vecchio storico).
Un profilo così netto ci riporta ai tratti “azionisti” della sua personalità, non soltanto per l’opzione “socialista” del suo impegno politico, ma per il rigore morale del suo magistero, che dell’azionismo aveva coltivato il “senso” gobettiano della storia e, nella critica ai “populismi” della storiografia marxista, aveva rivendicato il valore di un revisionismo che recuperasse la complessità dell’intreccio tra ideologie e strutture politico-sociali, e tra presente e passato. «Meridionalista, sentivo che era il futuro a decidere della mia lettura “storica” del passato: era uno storicismo “azionista”, con forti inconsapevoli caratteri gentiliani».
Dalla realtà dell’odierno Mezzogiorno, Giarrizzo ha tratto le sue considerazioni sui limiti del “meridionalismo”, vecchio e nuovo, che è un concetto inadeguato a comprendere le interne, e variabili, tendenze al mutarsi del rapporto città/campagna. Se, negli anni ’50 e ’60 di questo secondo dopoguerra, si è avviato nel Mezzogiorno un processo d’industrializzazione, si è al contempo destrutturata la campagna, cambiando i paradigmi di rappresentazione della vita rurale, nonchè l’assetto proprietario: «Il capitale tradizionale lascia la terra, e si trasferisce nelle città, alimentando quel boom edilizio che sconvolge l’antica legislazione urbana». Alla riforma agraria del 1950 si susseguono le misure e gl’interventi “meridionalisti” dello Stato, sia pure con esiti contraddittori, mentre si vanno cancellando antichi squilibri e se ne stabiliscono di nuovi. Si trattò di crescita con o senza sviluppo? Questo “meridionalismo di Stato” costituisce un evento del tutto nuovo nella storia d’Italia, che genera la saldatura dei poteri tra il Centro politico e le periferie del Sud, recuperando le strutture nate nel ventennio fascista, quali il parastato e la nuova burocrazia (Mezzogiorno senza meridionalismo).
Dal quadro complessivo, si traevano pure le considerazioni sul ruolo del movimento contadino, e sull’esodo migratorio della popolazione rurale verso l’estero. Se ne ricordava, del resto, il fenomeno della nuova “sociabilità” che investiva la vita degli emigrati. Non solo la contrastata identità “fuori d’Italia”, ma “l’Italia con gli altri”.
Mezzogiorno e Sicilia sono oggi una realtà univoca, nonostante gli “strappi” compiuti dalle rivalse sicilianiste del “separatismo” e del “milazzismo”. Su quest’ultimo, Giarrizzo ha richiamato, e condiviso, il giudizio di Simone Gatto, un altro azionista, che aveva colto, «con eccezionale lucidità», la crisi del “blocco agrario” in Sicilia, e lo scontro tra imprenditoria autonoma e gruppi operanti «in funzione di rappresentanza dei monopoli italiani e stranieri». Secondo Giarrizzo, la vicenda “milazzista”, ambigua per le posizioni assunte dai partiti, di destra e di sinistra, insistendo sulla sua peculiarità siciliana, aveva indebolito il quadro generale della battaglia meridionalista. Né i comunisti avevano qualificato la natura, e le ragioni, di un autonomismo, che perdendo di vista il quadro nazionale si appiattiva sul «recupero difensivo di vecchi elementi del sicilianismo».
Dal presente al passato. «Come sempre, sono i problemi del presente a restituire interesse a problemi affini (o sentiti come tali) del nostro passato; e la memoria storica, cui soccorre il costante confronto, si fa allora interpretazione meglio aderente alle ragioni dell’evento, più rispettoso delle “diversità” e insieme più pronta a suggerire richiami, esempi, modelli utili alla maturazione della coscienza civile come risposta adulta alle ricorrenti crisi di identità» (Un secolo di Critica Sociale).
Soccorre, quindi, la memoria storica per interpretare meglio il presente; ma è il presente che suggerisce il confronto con la visione “utopica” del passato, e coi suoi canoni interpretativi. È da una prospettiva, e metodologia, dialettica della storia che Giarrizzo ha potuto lavorare per una profonda revisione storiografica degli eventi “nucleari” della Sicilia (dalla “conquista garibaldina” del ’60 ai Fasci dei Lavoratori), nonché del “meridionalismo”, il quale aveva «rigorosamente negato» che ci fossero la borghesia e la città, e di conseguenza non aveva colto i tratti della modernizzazione.
Il volume su Catania (1986) è uno dei “modelli” di storia urbana, in cui Giarrizzo ha ricostruito quei fattori di enucleazione politica del Potere locale e di “modernizzazione” che avevano formato il volto della “Milano del Sud”. L’auspicio che fossero rimossi «antichi steccati disciplinari», per un confronto ravvicinato tra urbanisti e storici sociali, tra storici della città e storici del territorio, non ha però avuto, finora, esito concreto. Da un tale confronto, con l’aggiornamento conseguente degli statuti scientifici, sarebbe venuto, soprattutto per il Mezzogiorno, la consapevolezza «di esser terra di città, dopo la sbornia gramsciana e meridionalistica del secondo dopoguerra».
Un agguerrito, e lucido, Giarrizzo l’ho conosciuto nel ’61, quando seguivo, per il quotidiano L’Ora, i convegni e le manifestazioni celebrative del Centenario dell’Unità d’Italia. In forte dissenso con l’interpretazione marxista, “non articolata”, svolta dal relatore Paolo Alatri al Convegno di Palermo, Giarrizzo osservò che i decreti garibaldini del 1860 furono «un tentativo politico per mascherare una situazione reale, cioè il rifiuto da parte dei contadini di arruolarsi»; mentre la quotizzazione dei demani non poteva risolvere il problema della “fame di terra”, sia perché non esisteva in Sicilia una imprenditoria capitalistica, e sia perché dai contadini assegnatari i fondi rurali furono presto rivenduti ai civili speculatori. Una trama “revisionistica” della politica “garibaldina” (che era poi la politica di Crispi), ripresa, e organicamente strutturata, nel volume su Biancavilla (1963), riuscendo “a dar movimento” ad una storia immobile e tragica.
Nella Relazione svolta al Convegno di Roma (2011) su Mezzogiorno e Unità d’Italia, Giarrizzo avrebbe affrontato il tema del “volontariato”, giudicando, peraltro.“politico”, più che “sociale”, il carattere del brigantaggio meridionale, che offrì un appoggio logistico essenziale all’impresa garibaldina, e alimentò il volontariato popolare: «Politico, perché prodotto da contese più o meno incardinate su ceppi familiari o su clan attorno al potere municipale, che dopo gli anni ’20 e attraverso lo sconvolgimento del ’48 è emerso come il terreno vero della lotta politica in Sicilia e nel Sud. Ché per esso, si tratti della questione fiscale o di quella demaniale, si son divise le parti nel Mezzogiorno tra democrazia e non». Le “squadre” siciliane, i “briganti rivoluzionari” del Sud, non sono perciò banditi sociali, «bensì un singolare composto di criminalità urbana (o a direzione urbana) e di banditismo politico». Non certo quello, vagheggiato da Garibaldi, del “brigante onesto” e generoso.
Gl’incontri e le conversazioni con lo storico catanese (durante un’estate ericina, e nelle ricorrenti occasioni dei Convegni organizzati dall’Istituto “G. Salvemini” di Messina, e di quelli sui Fasci dei Lavoratori) mi spinsero a considerarlo sempre più come un “maestro d’elezione”. E, come tale, egli non mancò di spronarmi a concludere «quel che da tempo attendiamo come precipitato di tante singole ricerche e contributi per una biografia di Nasi». E di rimproverarmi l’esito di lavori, iniziati magari con buone idee, ma inceppatisi su giudizi «in buona parte consumati»: «Non mi convince il ricorso ad un’esasperata polarità città/campagna per la Sicilia politica del tardo Ottocento: allo stato escluderei la periodizzazione su cui lei insiste, e che sovrappone una eruzione dei Fasci rurali su una contrazione/declino dei Fasci urbani. Se mal non ricordo, i suoi vecchi saggi su Cammareri Scurti e su Montalto ricostruivano progetti per la campagna pensati e diretti dalla città. Per le stesse ragioni, e per altre più generali (che attengono al costante pregiudizio sull’Italietta del secondo Ottocento), non mi convince il suo giudizio sulla transizione dalla poesia dei Fasci alla prosa del riformismo: il giudizio su Giolitti, sul “popolarismo”, sulla modernizzazione del sistema politico sono ancora condizionati dalle premesse storiografiche e ideologiche che lei critica con buoni argomenti».
In poche righe della lettera (13 agosto’96) c’era il dissenso, non solo, dai “residui gramsciani” della mia ricerca sulla Sicilia dei Fasci, ma c’era pure la sua idea di un revisionismo storiografico che mantenesse integro il legame dei fattori compenetrantisi nel rapporto tra città e campagna, senza dimenticare la “continuità” del processo storico, dai Fasci al riformismo socialista e cattolico (sturziano), che aveva maturato la coscienza civile dell’Isola.
Il dibattito, ricorrente, sulla breve e tumultuaria vicenda dei Fasci non è riuscito, secondo Giarrizzo, a inalvearsi nella storia nazionale: «La ragione di ciò va cercata nei limiti ancora vistosi del lavoro storiografico sulla società politica italiana di fine secolo, nel concitato formulario che pretende di assumervi “il colpo di Stato della borghesia”, nel ritardo ad analizzare il radicale processo di modernizzazione del Paese nei decenni della Sinistra storica (causa insieme ed effetto del giudizio storico sul “giolittismo”, cui politici e storiografi hanno in varia misura concorso)». Da qui «l’urgenza di una storia d’Italia finalmente riletta dal Sud senza più i cascami del sicilianismo e del meridionalismo piagnone».
Nella Sicilia, curata con Maurice Aymard per la “Storia delle Regioni” dall’Unità a oggi (Einaudi, 1987), Giarrizzo ha voluto “smontare” il modello della Sicilia “mitica” attraverso i “pezzi” della sua storia “difficile”. «La costante pretesa di essere un’esperienza storica “speciale”, diversa: e che, anche quando si rassegna a definire la Sicilia “meno di una nazione, ma più di una regione”, ne rivendica il ruolo di laboratorio privilegiato per formule politiche o per analisi socio-economiche o addirittura ripropone il mito della Sicilia-mondo, microcosmo che accoglie in forme miniaturizzate ma nette tutti i beni e tutti i mali». La cultura si compiace di quella diversità «e preferisce opporre mito a mito, modello a modello». Lo storico non può che legittimarne la presenza e il ruolo, «senza farne però l’anima di un modello». E, quindi, «con i pezzi smontati», svelare l’intreccio dei caratteri veri: «la polietnia, la condizione di isola come vantaggio, la dimensione urbana dominante, il policentrismo come carattere della sua storia politica».
All’immagine dell’Isola (prossimità dell’Oriente, “centro del mondo”) hanno concorso la storiografia erudita della feudalità e del potere; ma anche la letteratura del “verismo” e la demopsicologia, impegnate a rivelare la Sicilia contadina, festosa o dolente di Pitrè e di Verga. «Qui il conservatorismo non esita a vestirsi di panni regionisti», giudica Giarrizzo, senza tuttavia non riconoscere la forte caratura etica di quella cultura.
Dentro un tale schema, la “Sicilia sequestrata” del Tramonto della cultura siciliana era concepita da Gentile come l’antitesi della cultura italiana, quella che aveva prodotto il «liberalismo più fattivo» del Risorgimento, il romanticismo e l’idealismo, o spiritualismo. Ma, pensava Giarrizzo, c’era nel saggio di Gentile come il “precipitato” della sua formazione di “siciliano”; e da lì bisognava partire per comprendere la sua vicenda intellettuale. «Da tempo – mi aveva scritto (19 febbraio ’96) – porto avanti una ricognizione analitica del percorso umano, intellettuale, politico degli ultimi storici italiani che ho frequentato o conosciuto, specie per quel che riguarda gli anni Trenta del secolo in cui si è consumata – a mio avviso, il suicidio dell’Europa – una “crisi di civiltà”. Era inevitabile che mi incontrassi ad ogni piè sospinto con Giovanni Gentile, e perciò ho deciso di affrontare a tutto tondo il caso Gentile con effetti sconvolgenti sull’idea che mi era fatta della vicenda intellettuale, culturale in genere, dell’Italia fra le due guerre. La mia tesi è che i nodi sono costituiti dal rapporto con la Sicilia, e col ruolo (storico) di riformatore religioso. Il tema più difficile (e non solo perchè Gentile lo ha intenzionalmente deformato) resta però quello siciliano».
Accolse, perciò, il mio libro su Gli anni giovanili di Giovanni Gentile come un contributo a quella sua “ricognizione analitica” del percorso umano e intellettuale del filosofo di Castelvetrano, premettendovi una generosa e acuta nota critica: «Gli anni critici di Gentile, che – non lo si dimentichi – sono quelli di una intelligenza straordinariamente precoce, sono anche gli anni in cui la generazione dei padri ha preso congedo dal Risorgimento ‘eroico’, vede minacciata l’Italia (e la Sicilia ‘eroica’) dal “modernismo” dei murriani e dei fascianti, e accetta la sfida di un ‘liberalismo” che dovrà salvare l’Italia vertebrata dalle riforme crispine, e per il nuovo Stato-Nazione preparare un ceto politico nuovo».
Restava, però, ancora pressoché ignota o marginale, la storia della Sicilia “mediterranea”, nonostante il richiamo di Braudel: «Quando si parla della Sicilia, è regola guardare sempre verso il Nord, verso Napoli; di dire che queste due storie sono rigorosamente opposte, alla grandezza di Napoli corrispondendo la decadenza di Palermo, e viceversa. Sarebbe ancora più importante, a nostro parere, mettere in evidenza il nesso Sicilia/Africa, ossia il valore di questo mondo marittimo che le nostre imperfette conoscenze o le nostre disattenzioni lasciano senza un suo nome».
Nella Presentazione della mia Storia di una città mediterranea, Giarrizzo ne aveva tuttavia individuato la dimensione, i caratteri e l’identità: «Importante, allo stato presente della storiografia siciliana, incerta e velleitaria, il modo in cui viene posta la questione della storia “mediterranea” di Trapani: essa consente per un verso di aggiungere, quando verranno, le voci delle altre sponde, ma soprattutto suggerisce l’urgenza di intendere le diverse “mediterraneità” dei centri maggiori e minori della lunga costa isolana. Solo dopo queste storie municipali, potremo riprendere fruttuosamente il discorso sulla Sicilia continente, che è importante non solo per la lettura del passato isolano, ma anche per l’utopia che volesse disegnarne il futuro».
Logorata nel metodo e nel merito la storiografia marxista, l’alternativa era quella di rivedere “a tutto tondo” la storia del Mezzogiorno e della Sicilia, rimuovendo vecchi topoi e privilegiando, nella costruzione di strumenti analitici del potere e della “politica”, l’identità culturale della comunità. Giarrizzo s’immerse nel dibattito storiografico con la passione del “militante” (la storia come pedagogia civile) e del promotore di un “revisionismo” attento ai “fatti”, più che ai “modelli”.
Quando gli mandai il mio Astuccio siculo. Un percorso intellettuale fra politica e storia, non pensavo che egli stesse già preparando la sua Autobiografia di un vecchio storico; e l’idea che il mio libro potesse iscriversi nel novero delle testimonianze di una generazione “creativa” di cultura fu la migliore gratificazione che l’eminente storico mi avesse potuto fare: «Le sono grato di aver pensato a me come ad un lettore interessato a (ri)conoscere tracce e direzione di un percorso parallelo al mio, per cogliere affinità e differenze, distanze e prossimità. Tra l’altro, esso mi ha confortato dell’opportunità – di cui dubitavo, per l’assenza del genere tra gli storici italiani, – di praticare ed incoraggiare queste ego-histoires. Sono persuaso che siffatte imprese molto gioverebbero ad una lettura “interna” della stagione più creativa della nostra cultura – quella del secondo Dopoguerra, cui abbiamo avuto fausta sorte di appartenere: e soprattutto a mostrare il molto che ne rimane come patrimonio alle generazioni dei nostri allievi».
Dialoghi Mediterranei, n.17, gennaio 2016
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Salvatore Costanza, già docente di storia e di ecostoria negli istituti superiori e universitari, ha svolto attività di ricerca presso l’Istituto “G.G. Feltrinelli” di Milano, collaborando con la rivista “Movimento Operaio”. Ha dedicato alla Sicilia moderna e contemporanea il suo maggiore impegno di studioso con i libri sulla marginalità sociale (La Patria armata, 1989), sul Risorgimento (La libertà e la roba, 1998), sui Fasci siciliani e il movimento contadino (L’utopia militante, 1996). Ha ricostruito la storia urbanistica, sociale e culturale di Trapani in Tra Sicilia e Africa. Storia di una città mediterranea (2005). Nel 2000 ha ricevuto il Premio per la Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Di recente ha pubblicato un profilo attento e inedito di Giovanni Gentile negli anni giovanili.
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