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Ricordare Claudine rivedendo il suo primo film

da La charpaigne di Claudine de France

da La charpaigne ou naissance d’une vannerie, di Claudine de France

CIP

di Riccardo Putti 

La notizia della scomparsa di Claudine de France mi è arrivata con una manciata di bit come ormai è diventato usuale da molto tempo; in un tempo che appare remoto quando le notizie arrivavano veloci, era una voce umana dall’altro capo di un filo telefonico ad annunciare l’evento luttuoso. Forse accade ancora che una voce si sottragga al soliloquio macchinico e ti riporti al corpo nella sua inarrestabile decadenza, ma anche un po’ di bit possono servire allo scopo di annunciare una morte.

Avevo conosciuto Claudine de France a Siena invitata da Pietro Clemente in collaborazione con Silvia Paggi che già allora frequentava o comunque era in contatto con il centro Formation de recherches cinématographiques (F.R.C.) Université de Nanterre – Paris X e che diventerà in seguito una allieva di Claudine. Era la fine degli anni ottanta, non ricordo bene l’anno esatto. Mi ricordo invece che era accompagnata da Jane Guéronnet sua collaboratrice e maître de conference a Nanterre (oggi forse si dovrebbe scrivere maîtresse). Ricordo invece precisamente che Jane morì improvvisamente nel 1989 perché ero al suo funerale conclusosi sotto una acqua fitta e parigina nel Jardin du Souvenir al Père-Lachais. Di Jane avevo apprezzato molto il testo Le geste cinematographique, in cui sosteneva il ruolo centrale del corpo dell’antropologo/a visivo/a.

9782307140535_1_75Altri suppongo parleranno a lungo di Claudine, del suo lavoro teorico, della sua Antropologia filmica, io invece vorrei renderle un piccolo omaggio attraverso la rilettura del suo film di fondazione anche perché ricordare una antropologa visiva rileggendo i suoi lavori visivi a me sembra il modo più pertinente per renderle omaggio.

Dunque proprio per ricordare a chi rischia di non conoscere neppure uno dei suoi lavori, appena ho saputo della sua scomparsa ho proiettato alla classe del mio corso di Antropologia Visiva della Magistrale senese, il primo film di Claudine de France Charpaigne ou naissance d’une vannerie (1968, 31 minutes, Noir & Blanc). Dopo la proiezione ho chiesto il permesso alle studentesse di registrare gli interventi con le loro reazioni; in realtà non avevo preventivamente presentato criticamente il film, cosa che ho fatto in seguito; mi ero limitato a parlare dell’autrice e sommariamente del quadro di riferimenti in relazione alla storia dell’antropologia visiva francese. Questo perché volevo capire le loro reazioni a prescindere da una lettura già orientata. Gli interventi delle studentesse trascritti saranno presentati alla fine di questo breve intervento.

Vorrei passare ora alla analisi del film iniziando da alcuni semplici riferimenti a cominciare da come viene presentato nella scheda di accompagnamento della pagina del CNRS audivisual dove è possibile vedere il film (https://images.cnrs.fr/video/503). 

Description détaillée de la technique traditionnelle de fabrication d’une corbeille en vannerie dans le Châtillonnais. Quittant le village, un vannier part couper des tiges d’osier dans un bosquet. De retour dans son atelier, il écorce une tige, en fait un cerceau. Il ajuste à celui-ci, perpendiculairement, d’abord deux puis plusieurs tiges d’osier qu’il attache solidement au cerceau avec des lanières souples, obtenant ainsi une armature en forme de panier rond peu profond. Deux poignées sont ménagées dans l’ouvrage. Il tresse enfin la corbeille avec des lanières. Un chat observe son travail solitaire. 
(Descrizione dettagliata della tecnica tradizionale di realizzazione di un cesto di vimini nel Châtillonnais. Un cestaio parte per tagliare degli steli di vimini in un boschetto e, tornato nel suo laboratorio, sbuccia uno stelo e ne ricava un cerchio. Vi adatta perpendicolarmente prima due e poi diverse aste di vimini che fissa saldamente al cerchio con cinghie flessibili, ottenendo così una cornice a forma di cestino rotondo poco profondo. Nell’opera sono previste due maniglie. Infine intreccia il cestino con delle strisce. Un gatto osserva il suo lavoro solitario). 

Un ulteriore riferimento è ad Annie Comolli che colloca il film Charpaigne nella categoria del montaggio cronologico scrivendone in un articolo sulla tipologia del montaggio in film antropologici 

«La construction d’ensemble du film forme, avec le(s) fil(s) conducteur(s) de la description, l’un des principaux éléments sur lesquels s’appuie le cinéaste pour structurer ses images. En 2008-2009, nous avons tenté de dégager les constructions d’ensemble utilisées en cinéma anthropologique et documentaire. Trois constructions d’ensemble apparaissent à l’examen des films. La première suit la chronologie de l’observé. Le cinéaste présente des processus matériels, corporels ou rituels dans l’ordre de leur déroulement. La biographie d’un agent, la modification brusque ou progressive d’un espace, le développement d’une activité matérielle ou d’un rituel en sont des exemples. La deuxième construction d’ensemble peut être qualifiée d’achronologique1. Le cinéaste propose un panorama, qu’il organise sans référence explicite à une quelconque chronologie. La troisième construction, qualifiée de «double», emprunte aux deux précédentes, le cinéaste passant brutalement de l’une à l’autre au risque d’introduire une forte rupture dans le film» (Annie Comolli Cinématographie de l’apprentissage des rites religieux:391-395Annuaire de l’EPHE, section des Sciences religieuses (2008-2009) 117|2010».

A proposito della costruzione cronologica Annie Comolli aggiunge: «La construction fondée sur la chronologie s’applique à des films décrivant aussi bien activité(s), qu’agent(s) ou lieu(x)». 

il-cinema-o-luomo-immaginario-2370In questo articolo adopera tre esempi di film antropologici che sistematizza in base al montaggio come cronologici: uno di J. Rouch Initiation à la danse des possédés (1948), uno di Claudine de France appunto La Charpaigne (1969) e uno di Silvia Paggi Fils de jambe tordue, (1994). Infine vorrei aggiungere un riferimento puramente di fantasia perché non so se Diego Carpitella abbia scritto qualcosa su Claudine de France, ma credo che La Charpaigne potrebbe rientrare a pieno titolo in quelli che Carpitella definiva film monotematici e uniconcettuali. Quasi inutile dire che la stessa Claudine de France ci dona una interpretazione del suo film in Cinemà et Anthropologie, anche con l’aiuto di disegni che ricalcano la silhouette delle forme di alcuni fotogrammi, nel capitolo “Techniques matérielles e in quello Technique corporelles”. 

Tutti approcci molto coerenti con l’idea di documentario nel senso stretto e con il sovrapporsi al film dell’idea di cultura materiale intesa alla Leroi Gourhan di cui Claudine De France fu allieva; tuttavia qui vorrei proporre una linea di lettura divergente, o a mio avviso solo apparentemente divergente perché ad esempio in Leroi Gourhan vi era un chiaro intreccio tra cultura materiale e simbolica, per cercare di saltare il fosso della dicotomia tra documentario e film di narrazione o fiction. Per farlo impiegherò una particolare luce incidente ovvero lo leggerò con riferimento ad un lavoro forse poco frequentato, anche se David Mac Dougall lo cita ampiamente nel suo testo The Corporeal Image: si tratta di un testo di Edgard Morin Il cinema o l’uomo immaginario, la cui prima edizione francese è del 1956 e che non molti anni fa è stato ristampato nella traduzione italiana da Raffaello Cortina Editore (2016).

lo-schermo-empatico-1676Vari sono i motivi che mi spingono a questa particolare lettura. Posso comunque fissarne fondamentalmente tre: la collaborazione di Morin e Rouch nella realizzazione congiunta del film Cronique d’un été (1960), l’impiego della nozione di immaginario, il riferimento a questo testo da parte di un libro scritto da Gallese e Guerra dal titolo Lo schermo empatico (Raffaello Cortina Editore, 2015). 

Alcune premesse generali: il film è in bianco nero e senza alcun commento, il sonoro è costituito dalla registrazione sincrona dei rumori d’ambiente; il film è stato pensato (come tutti il film prima del digitale) per essere proiettato su uno schermo cinematografico in una sala tendenzialmente oscura. Questo naturalmente gioca un ruolo essenziale per la sua fruizione completa: posso a questo proposito notare come una studentessa abbia affermato che se lo avesse guardato su un piccolo scherma da portatile o ancor peggio sullo schermo di uno smartphone probabilmente avrebbe avuto difficoltà a seguirlo completamente mentre la visione proiettata su schermo di un paio di metri (ovviamente piccolo ma sempre meglio che niente) l’aveva coinvolta.

La scelta del bianco e nero può aver avuto varie motivazioni, forse anche quella dei costi, il risultato però prescinde da questo. Il risultato direi è veramente degno di nota. Ricordando che il bianco e nero non fotografa i vestiti ma scolpisce l’anima dei corpi, la mia memoria mi riporta in mente le parti in BN del film di Wenders Il cielo sopra Berlino, vincitore a Cannes nel 1987, ma non saprei dire perché.

locandinapg3Quello che apparentemente potrebbe sembrare un filmato documentario-realistico in effetti trascende da questo stile in maniera così forte da diventare un film a tutti gli effetti, sbarazzandosi della imbarazzante etichetta di documentario. Dunque ci aiuta a capire meglio di tanti scritti cosa è stata l’antropologia filmica di Claudine de France. Ovvero cinema e non solo cinematografo come forse si potrebbe pensare e anche lei stessa aver creduto. Ma procediamo con ordine iniziando dal titolo.

La prima domanda che dobbiamo porci è perché Claudine de France usa Naissance invece di un più usuale création. Il termine création rimanda ad un alone semantico in cui la tecnica ha un maggior rilievo rispetto al termine naissance che rinvia piuttosto a un carattere generativo dell’azione. Creazione è la messa in opera di qualcosa prima non esistente attraverso un’azione tecnica ma a volte anche divina pur impiegando generalmente qualcosa di già esistente ad esempio l’argilla. Nascita invece allude al dar vita, appunto al generare. Potremmo ritenere strana questa scelta per una autrice che filma processi tecnici, come lei stessa sostiene nei suoi testi, se non leggendo questo segnale come una sorta di lapsus in cui si manifesta una necessità inconscia, ovvero che lei stessa cercava di rendere qualcosa di più della semplice tecnica e che il gesto del cestaio rappresentava un mondo e non solo una tecnica di coordinamento senso-motorio.

Voleva forse spostare l’attenzione in direzione di una lettura immaginifica del suo film? Voleva forse suggerirci che le immagini non finivano nella loro evidenza di forme ma alludevano ad un qualcosa di meno esplicito, voleva forse suggerirci implicitamente che le forme cine-fotografiche trascendono dal loro apparire per rendere visibile l’aria, l’esprit (in francese non per vezzo, ma perché il vocabolo francese ha un significato parzialmente diverso dal temine italiano ‘spirito’ che spesso lo traduce) non tanto di quel luogo, ma di quella azione complessa? 

charp01Mentre scorrono i titoli di testa compare una donna, adopera un corbello, un cesto per portare il pasto alle bestie vaccine nella stalla. Il film si apre dunque con una premessa irrelata ovvero ci mostra come il cesto, di cui seguiremo la naissance, è utilizzato ovvero è già nato; se si trattasse di un film giallo potremmo dire che svela in anticipo il colpevole, una strategia narrativa a volte impiegata in questa tipologia di narrazioni; insomma potremmo dire che sovverte l’asse cronologico premettendo la scena finale dell’utilizzo del cesto prima della sua nascita. Potemmo dunque intendere tutto il film come una sorta di analessi o flashback per dirla con il lessico del cinema?

Terminata la sequenza dei titoli si passa alla collocazione spazio-temporale, il luogo e la stagione: Lignerolles, l’automne s’achève. Al tempo del “girato” il villaggio contava poco più di 400 abitanti (oggi più di 600) e le prime brume autunnali ovattano l’orizzonte delle scene iniziali. I primi cinque minuti, circa 1/6 del tempo totale, sono impiegati da Claudine De France per mostrare il cestaio che dalla casa di abitazione giunge al bosco e al luogo di raccolta dei vimini di nocciolo per poi far ritorno all’abitazione. La sequenza è una camminata in cui il mastro dei cesti è inquadrato in una serie di piani, alternati tra primi piani e totali e campi medi, che ci fa passare dall’abitato allo spazio selvatico dove vengono raccolti i materiali per la costruzione del cesto.

claudineIn questa sequenza l’immagine che si impone è quella della roncola su cui tra l’altro Claudine de France tornerà esplicitamente nel suo testo Cinema et anthropologie. Appena uscito di casa il cestaio infila la roncola in un particolare fodero auto costruito. La roncola ripresa anche in primo piano ingombra una buona porzione dello schermo e ritorna anche durante la prima parte della camminata per poi denotare la centralità dell’utensile nella raccolta dei vimini. Un utensile che vediamo svolgere varie funzioni in relazione alla tipologia del gesto che lo anima.

Dalla raccolta dei flessuosi vimini di nocciolo si rientra in paese con la camera che segue o a volte anticipa con una panoramica il cestaio, come nella scena finale di questa sequenza quando il cestaio fa rientro alla maison. Anche qui la cronologia registra un sovvertimento perché lo sguardo di chi osserva precede l’azione; il cestaio entra in scena dalla sinistra del fuoricampo appena terminata una panoramica che si è arrestata sull’uscio di casa. Questo è ovvio per una resa filmica dell’azione, non si può riprendere una persona solo di spalle, altrettanto inquadrarla davanti e accompagnarla filmando e camminando indietro comporta molti problemi.

Dalla porta di casa si passa con un taglio netto al locale dell’artigiano, al suo laboratorio, qui il film entra in azione potentemente. Sembra un luogo deterritorializzato, non abbiamo più chiari riferimenti, le scene si susseguono tra primi piani del volto e delle mani e campi medi in cui lentamente prende forma misteriosa l’intreccio. Lo schermo si riempie con l’immagine del corpo del cestaio o del farsi della forma del cesto; il cestaio senza nome diviene una entità sconosciuta e familiare al tempo stesso.

Ci troviamo spaesati e al contempo concentrati sul fare, un fare senza luogo o meglio all’interno di uno spazio ermetico, affascinante e straniante. Il fascino della fotogenia trascende in immaginario. Al di là della volontà esplicita dell’autrice, in una sorta di autonomia del cinema, si avvera l’illusione immaginifica dell’interno del laboratorio dove materiali e gesto producono la forma.

Il luogo, il laboratorio del cestaio, diviene così una sorta di spazio ermetico. Dobbiamo dunque chiederci come avvenga questo passaggio da luogo di esercizio di una tecnica a luogo ermetico? Forse attraverso due elementi: la fotogenia e l’immaginario come evoca Morin in Cinema o l’uomo immaginario? 

«Il cine-occhio di Vertov e tutte le grandi correnti documentari da Flaherty a Grierson e Joris Ivens, ci mostrano che le strutture del cinema non sono necessariamente legate alla finzione. Anzi, è forse proprio nei documentari che il cinema utilizza al massimo i suoi doni e manifesta le sue più profonde virtù “magiche”» (Morin, 1960: 81). 

Con questo passaggio Morin travalica la stessa sua distinzione tra cinematografo e cinema e ci autorizza a comprendere anche il film di Claudine de France nel mondo tout court del cinema. La fotogenia fotografica si travasa nel cinema ampliandosi con l’introduzione del movimento. Attraverso la fotogenia la fotografia imponeva il suo fascino all’immagine banale del quotidiano ci spiega Morin. Con il cinema, con le immagini in movimento compare anche un effetto realtà, legato proprio al movimento, ma si tratta di una realtà immaginaria ed empatica che incorporando l’apparenza delle forme della immagine fotografica simula anche l’azione fornendo un sovrappiù alla adesione empatica.

Empatia dello schermo dove le forme in movimento ci proiettano in una identificazione neuronale ed immaginifica con ciò che accade nella visione; questa empatia si basa sulla simulazione incarnata e al contempo liberata dalle pastoie del contatto con il reale prosaico del quotidiano, come ci suggerisce Gallese. 

«Quando siamo al cinema la nostra relativa immobilità e disconnessione dal mondo reale sono frutto della nostra volontà e non la conseguenza di un’immaturità del nostro sviluppo sensori-motori. Tuttavia, l’immobilità, cioè un maggior grado di inibizione motoria, verosimilmente permette di allocare maggiori risorse neurali, intensificando questo tipo di rappresentazioni non linguistiche, facendoci aderire in modo più intenso a ciò che stiamo simulando. Come ha scritto Edgar Morin “per lo spettatore, affondato nel suo alveolo, monade chiusa a tutto fuorché allo schermo, avviluppato nella doppia placenta di una comunità anonima e dell’oscurità, quando i canali dell’azione sono bloccati si aprono allora le chiuse del mito del sogno della magia”. Seduti in sala, la nostra interazione col mondo è esclusivamente mediata da una percezione simulativa di eventi, azioni ed emozioni rappresentati dal film» (Gallese Guerra, 2016: 77). 

61lvgi-kcml-_ac_uf10001000_ql80_Ora non ci resta che parlare del gatto o della gatta che appare in alcune scene del film di Caudine de France ad intervallare i momenti dell’intreccio all’interno del laboratorio. Il gatto o la gatta aprono ulteriormente il contesto di sapore ermetico al rapporto inter specie. Il mondo degli animali non umani irrompe nella scena non solo come intervallo ma costringendoci di fatto a fare i conti con la presenza di elementi di coevoluzione che forse in maniera quasi invisibile proiettano un piano trasversale, al semplice gesto umano dell’intreccio si aggiungono gli intrecci che intessiamo con l’altro in questo caso animale nel nostro farci società, ricordando quanto siamo debitori all’alterità interspecie. La anodina presenza del gatto diventa mirabile fascinazione che rinvia ad altre riflessioni a cui qui posso solo accennare. Solo un ulteriore punto necessita almeno di una breve sottolineatura che chiude il cerchio.

L’oggetto di tutto il film dunque è l’intreccio e questo non ci può che riportare alla mente tutto quello che Tim Ingold ha scritto su questo. L’intreccio che genera una nuova superficie da piegare all’utilizzo da parte degli umani, questo soggetto espande la magia dell’immagine verso i territori della capacità generativa. Forgiare, piallare, limare, scheggiare anche impastare l’argilla significa agire su una superficie già data, intrecciare invece significa generare la superfice attraverso il controllo delle tensioni contrapposte di un campo di forze. 

«Non nego che una costruttrice di cesti possa cominciare a lavorare con un’idea abbastanza chiara di ciò che desidera creare. La forma concreta ed effettiva del cesto tuttavia, non sgorga dall’idea. Piuttosto, essa viene in essere attraverso il dispiegamento graduale di quel campo di forze che viene stabilito attraverso il coinvolgimento attivo e sensoriale del costruttore con il suo materiale. Questo campo non è interno al materiale né interno al costruttore (e perciò esterno al materiale); piuttosto esso attraversa la superficie emergente tra di essi. Di fatto, la forma del cesto emerge attraverso una serie di movimenti abili, ed è la ripetizione ritmica di quei movimenti che dà luogo alla regolarità della forma» (Tim Ingold, Ecologia della cultura, Meltemi 2001: 198). 

Mi sembra che concludere con questa citazione di Tim Ingold renda ben conto di ciò che avviene nel film di Caludine: la nascita di una forma, e spiega almeno in seconda battuta la scelta del termine naissance.

Seguono ora le trascrizioni delle impressiono delle studentesse del mio corso di antropologia Visiva ad Unisi realizzate nel dicembre 2023. 

da La charpaigne ou naissance d'une vannerie, di Claudine de France

da La charpaigne ou naissance d’une vannerie, di Claudine de France

Interventi delle studentesse del corso

1. Io mi chiamo Davide (unico studente maschio del corso). Le mie prime impressioni rimandano al fatto di aver sicuramente percepito qualcosa di diverso da ciò che abbiamo visto fino ad ora, dove le immagini erano accompagnate o da un commento o da un sottofondo musicale, sia aggiunto a posteriori che realizzato durante le riprese. Qui, invece, ho visto più una volontà di mettere l’accento sul gesto, sull’opera della persona che si cimentava nella costruzione di questo artefatto.

2. Le iniziali puntate vanno bene, P.S.

Parto dal commento che ha fatto lei a fine proiezione, chiedendo se ci fossimo addormentati. Credo che ciò si possa legare ai tempi estremamente lenti che rappresentano la dedizione, il tempo impiegato per la produzione del cesto, che però è una cosa che a noi non appartiene, anche nelle circostanze in cui impieghiamo molto tempo a realizzare qualcosa. La rappresentazione visiva è poi giocata su montaggi molto veloci, nel senso che c’è un cambio frequente di inquadrature, il che, almeno in parte, riesce nell’intento di intrattenere lo spettatore. Secondo me, è stato anche molto bello il fatto che si vedessero tanto non solo il viso o la figura intera dell’uomo, ma anche delle parti, spesso le mani, che sono i suoi strumenti di lavoro, oltre ai quali non utilizza praticamente nient’altro eccetto un coltello. Ma anche i piedi, talvolta quasi come se con essi intrattenesse un dialogo danzato con il cesto, danno conto di una sorta di inglobamento dell’artigiano nell’oggetto che sta lavorando. Quell’oggetto a cui viene dedicata tanta attenzione da parte di una persona che sa, che ha l’arte, e questo lo rende un oggetto desiderabile, se consideriamo che, al giorno d’oggi, esistono davvero poche cose che sono realizzate con la stessa sapienza con cui viene creato quel cesto che può sembrarci comunque banale, tanto che alla fine viene appeso come uno dei tanti. Però, appunto, non avendo questo, essendo in un contesto totalmente distante, diventa quasi prezioso per me assistere alla cura con cui l’artigiano procede alla scelta del pezzo di legno e alla sua lavorazione, con la quale gli viene data una forma.
Direi che è stato toccante, nel senso che ha toccato dei punti che nella mia quotidianità non vengono normalmente sollecitati.

claudine023. Anche per me vanno bene le iniziali, F.M.

Io inizialmente stavo cercando di capire se fosse una rappresentazione esclusivamente della produzione del cesto o se ci sarebbe stato poi a un certo punto un colpo di scena o qualcosa del genere; ecco, questo è il commento più sensato che mi viene da fare, siccome non è una rappresentazione alla quale sono abituata ad essere esposta, perché non avevo mai assistito alla produzione di un cesto. Magari adesso che siamo nel periodo di Natale di cesti ne vediamo veramente tanti, però non mi ero mai soffermata a riflettere sul processo con cui vengono creati, quindi mi ha fatto piacere assistere alla realizzazione di uno di essi. Rifacendomi a Morin, invece, mi viene da riflettere sullo statuto del cinema, cioè se esso debba essere fedele ed esplicita rappresentazione della realtà, oppure se semplicemente cerchi di riprodurla dando luogo a delle alterazioni. Mi è piaciuto anche il fatto che non si vedesse solamente l’uomo, quindi l’artigiano, ma anche il gatto che si muoveva o lo spazio della stanza.

4. Anche per me vanno bene le iniziali, E.B.

Allora, io vorrei fare una riflessione più che altro sui suoni che provengono da questo film, in particolar modo su come le parole siano quasi del tutto assenti, se non completamente assenti, e su come, dall’altra parte, predominino i rumori degli oggetti che vengono utilizzati: in questo caso il legno, oggetto principale usato per costruire il cesto. La sensazione che mi ha lasciato è stata di essere quasi accanto alla persona intenta nella lavorazione del cesto. Un’altra riflessione che vorrei proporre riguarda il fatto che attraverso questo film si promuove molto il gesto, l’attività manuale che oggi, da una parte, è quasi scomparsa, essendo stata sostituita dalla grande produzione industriale. Al contrario, l’attività manuale dà, a parer mio, molto più valore all’oggetto, che si ha modo di percepire anche come più personale, come qualcosa che ci appartiene veramente.

5. Io sono Rebecca.

La prima cosa a cui ho pensato guardando questo film è stata, rifacendomi a Morin, che effettivamente l’immagine porta con sé un potere maggiorativo del reale, nel senso che rende più profondo e intenso quanto nella quotidianità ci può sembrare banale, a cui non prestiamo così tanta attenzione, come in questo caso può essere la costruzione di un cesto. Invece, osservandola nel film, ho esperito una sorta di rapimento onirico o qualcosa del genere (sebbene non penso sarei riuscita a soffermarmici ancora per molto tempo). Credo sia stato qualcosa di intenso, un calarsi in questa realtà riprodotta attraverso l’immagine che dà qualcosa di più, che trasmette qualcosa di più, e questo dischiude un campo di riflessione molto vasto sulle potenzialità dell’immagine.

La charpaigne ou naissance d'une vannerie

da La charpaigne ou naissance d’une vannerie, di Claudine de France

6. Vanno bene le iniziali, B.T

La prima cosa che mi è venuta in mente guardando il film è stata la semplicità con la quale è stato narrato qualcosa di estremamente complesso; concordo anche con le colleghe. Il fatto di rendere qualcosa che per noi non è quotidiano, così familiare, perché appunto c’è proprio lo spirito del tramandamento di una tradizione che diventa quotidianità. Attraverso le riprese dei movimenti sia delle mani che dei piedi, ma anche quelle del gatto, Claudine ci mostra la quotidianità, la familiarità di questi gesti. Mi fa riflettere sul fatto che qualcosa di estremamente complesso, in realtà, possa essere così semplice per qualcuno, così naturale. La lentezza del film ci aiuta in questo, paradossalmente.

7. Anche nel mio caso si possono usare le iniziali, E.N.

Come hanno sottolineato le colleghe, anche io ho notato che è stata data molta importanza all’immagine; infatti, non sono state usate didascalie o altri tipi di introduzione a ciò che si vedeva.  Di conseguenza, abbiamo potuto concentrarci di più sulla gestualità e sull’ambiente circostante, anziché sulla parola, cosa che è stata facilitata dalla lentezza della temporalità inscritta nel film, la quale ha peraltro reso quest’ultimo molto più realistico. 

clauidine018. Io sono Roberta

In realtà, ascoltando tutti, mi vengono in mente altri spunti. La prima impressione è stata quella di cui hanno parlato anche i colleghi, cioè il fatto che non c’è una voce. Di conseguenza, questa ripresa tutta incentrata sull’artigiano a me ha ridato tanto il senso del tempo, della dilatazione del tempo, come se appunto evitare di fare domande abbia fatto sì che si evitasse di scandire il tempo, di frammentarlo in qualche modo, e quindi ci ha restituito il tempo della lavorazione e della creazione, il qui ed ora dell’artigiano e del prodotto che produce, che è un po’ il tempo del gatto. Almeno, io ho osservato questo parallelismo: il gatto che sta là, dorme, osserva, sperimentando un tempo che io, per esempio, non ho, anche solo perché mi sono accorta che durante la visione mi distraevo e il mio pensiero faticava a mantenersi nel qui ed ora. Il nostro è un pensiero abituato ad una frammentazione che deriva, secondo me, dall’abitudine a guardare simultaneamente più immagini e più cose diverse. Invece il tempo del film rimanda al tempo della casa del focolare, del qui ed ora. Una cosa poi che ho notato è che l’artigiano ha il cappotto: sta quindi in un luogo freddo, calato nel tempo della dimora, che appunto è il tempo lontano, antico, freddo, duro della lavorazione. Con essa viene prodotto un oggetto di consumo abbastanza abituale e in questo mi ricollegherei a quello che diceva la collega, nel senso che non sono esattamente d’accordo; secondo me l’artigianato non si è perso: la pratica artigianale non è scomparsa, anzi, credo siamo pieni di artisti e artigiani che producono cose veramente elaborate. Forse quello che è cambiato è che quando si produce un oggetto magari è un oggetto più estetico che funzionale, quindi cambia sia la tipologia di oggetto che il tipo di acquirente, che magari non è più il popolo bensì una persona che ne fa un uso pratico. Si tratta di una destinazione più elitaria di un oggetto che diventa puramente estetico, ma al di là di questo non credo si sia persa la dimensione del lavoro in un laboratorio in cui si vive il tempo del qui ed ora.

La charpaigne ou naissance d'une vannerie, di Claudine de France

La charpaigne ou naissance d’une vannerie, di Claudine de France

9. Io mi chiamo Silva.

Il film mi ha stimolata a fare una riflessione più generale, perché io obiettivamente vengo da un paesino molto piccolo di campagna, in cui siamo circa 800 persone. Negli ultimi anni, dopo il Covid, abbiamo ripreso a organizzare delle serate in cui ci si incontra, nella nostra comunità. Vedendo questo video, ho pensato che per me è una cosa scontata il fatto che ci siano questi incontri, che ci si ritrovi e si facciano cose apparentemente banali e che ci siano persone più grandi. In considerazione di questa nostra abitudine ho pensato: potrebbe essere che tra vent’anni si faranno ancora queste serate, che per me sono scontate? Magari ci sarà bisogno di riattualizzarle, perché tra vent’anni potrebbero non farsi più, oppure non ci saranno giovani disposti a partecipare. Mi ha fatto molto riflettere sul fatto che veramente le cose possono avere un valore diverso: se non facessi parte di una comunità che organizza queste serate, mi sentirei meno parte di quel mondo lì. E sapere che questa pratica potrebbe perdersi, nel tempo, indipendentemente dalla nostra volontà, è un po’ triste; quindi, vedendo l’artigiano, ho percepito un grande valore nell’oggetto che stava costruendo, come c’è un grande valore nella convivialità, nello stare insieme producendo qualcosa che ci accomuna. Si tratta quindi di un discorso umano, più che altro. 

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
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Riccardo Putti, già professore aggregato oggi in quiescenza, attualmente continua ad insegnare Antropologia visiva (Unisi) e Umanistica digitale SSBDEA- Unipg. Ha contribuito a fondare il Laboratorio di Antropologia e Fotografia della SSBDEA-Unipg che oggi coordina. Nel recente passato prossimo si è interessato del rapporto umano/macchina; ha curato insieme a Alberto Mazzoni (Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa) la mostra: “Nexus L’incontro tra macchina e umano nell’immaginario, nella tecnica e nella scienza contemporanei”, Palazzo Medici Riccardi Firenze (2016). Nel 2019 è stato Professor Visitante Internacional al Departamento de Antropologia da Faculdadede Filosofia, Letras e Ciências Humanas da Universidade de São Paulo con un Ciclo de Palestras “O sexo dos robos no cinema. Autore di vari filmati di antropologia visiva, oggi lavora preferibilmente con la fotografia analogica di grande formato in BN.

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