CIP
di Emanuele Bernardi
Cosa ci potrebbe insegnare la storia italiana sulle recenti vicende di trattori e di proteste contadine? Le contestazioni contadine contro governi, rappresentanze sindacali (in particolare la Coldiretti) e istituzioni europee affondano le loro radici almeno a partire dalla fine degli anni Sessanta del Novecento, quando si aprì una crisi economica destinata a incidere pesantemente sull’Italia repubblicana. È in quel decennio che si generò un forte passivo nella bilancia agro-alimentare e si manifestarono già molti dei problemi odierni (costo del lavoro, inquinamento, predominio della grande distribuzione). Fu allora che si svilupparono forme, anche eversive, di protesta, come i Comitati di azione agraria, ricordati addirittura nel memoriale della prigionia di Aldo Moro. Alla Fiera di Verona, nel marzo del 1968, gruppi di agricoltori della Valle Padana e del Veneto manifestarono in modo violento il proprio malcontento. Era un movimento disarticolato, che usava già allora metodi poco ortodossi (come il lancio delle uova, il rovesciamento del latte nelle strade, l’immagine della bara a significare la morte dell’agricoltura) nel quale convivevano figure nobiliari (come il principe Ruspoli) e semplici agricoltori, accomunati dalla volontà di mettere in discussione non solo le regole europee ma l’intero sistema della rappresentanza.
Il nodo della rappresentanza del mondo delle campagne torna a essere una rilevante questione politica. Ci siamo illusi che la “questione agraria” fosse risolta; che il modello dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione e la crescita della produttività agricola (che ha eliminato la fame, va ricordato) fossero scelte destinate inevitabilmente a sciogliere il problema del governo delle relazioni tra città e campagne, tra l’agricoltura e gli altri settori. E invece, per fortuna, la mattina ancora ci nutriamo di latte, biscotti…e non di pneumatici.
A parte le battute, il governo dell’agricoltura e dell’alimentazione è alla base della stabilità degli Stati moderni. La questione della rappresentanza di ceti sociali spesso non facilmente distinguibili (si pensi alla “figura mista” a lungo prevalente nel Mezzogiorno) è un tema centrale nella storia della democrazia. Dall’Ottocento a oggi l’ampliamento o il restringimento degli spazi di quella rappresentanza sono coincisi con le fasi di crescita o di chiusura delle democrazie nel mondo. Per restare all’Italia, dalla nascita della Federterra nel 1901, e poi della Confederazione dei coltivatori diretti nel ’44 in competizione con la Cgil ma soprattutto con la Confagricoltura, fino ad arrivare all’Alleanza dei contadini (oggi CIA), il mondo della rappresentanza agricola ha svolto un’importante funzione di ampliamento di quella sfera pubblica che ha coinciso con l’affermazione della democrazia dopo il fascismo. Certo è stato un mondo attraversato dalle contrapposizioni, durante il fascismo (che ha, come noto, una base agraria rilevante nell’Italia centrale) e dopo, con la Guerra fredda. Contrapposizioni ideologiche che, soprattutto dopo la profonda trasformazione che interessa l’Italia alla fine degli anni cinquanta, sembrano indebolire la capacità del nostro Paese di governare quelle velocissime trasformazioni, spesso alimentando una “guerra di posizione” poco utile a contrastare i conseguenti squilibri. Insomma, una divisione che poi si paga su altri tavoli, dalla relazione con l’industria a quella con l’Europa (come l’affermazione della Pac agli inizi degli anni Sessanta).
In effetti, ci si può chiedere come questa contrapposizione arrivi fino a noi, dopo il 1989, e come la protesta dei trattori possa essere inserita nell’attuale contesto delle relazioni intraeuropee e internazionali. Con la fine della guerra fredda, entra in crisi anche quel sistema della rappresentanza, con alterne vicende, che alla fine vedono come vero, quasi unico, vincitore la Coldiretti. Sul piano politico, per esempio, è noto che gli allevatori costituiscano una base politica importante per la Lega Nord e che dopo l’89 pezzi interi della ex-Dc del Veneto (dove molto forte era la Coldiretti) abbiano virato su posizioni leghiste. Il movimento dei trattori sembra mettere in discussione questa “unipolarità”, ma la capacità egemonica, che caratterizza la Coldiretti, di parlare da sinistra a destra, le sta già consentendo di rispondere in termini di sostanza e di immagine, “traslando” la questione dei trattori dalla sfera delle responsabilità governative a quelle dell’Europa, con la manifestazione di protesta da lei stessa organizzata a Bruxelles il 26 febbraio. La protesta nelle città, come detto sopra, non è una novità. Per restare ai tempi più recenti, il movimento dei “forconi” potrebbe essere considerato una specie di “antesignano”. Ma questi movimenti sembrano molto eterogenei, con richieste molto diverse da Paese a Paese. Sembrano avere però, nella loro frammentarietà, una dimensione “globale” e coordinata, certamente favorita dalle tecnologie comunicative della rete. Se si ascoltano i singoli agricoltori, mi pare vi sia un dato, semplice e inequivocabile che li accomuna: la critica, fino al rifiuto, della rappresentanza, e quindi andrebbero studiati forse prima su questo piano ancora prima che su quello strettamente economico.
E sul piano politico? Cosa sta succedendo negli altri Paesi europei? A ben guardare, la situazione è in movimento. Si moltiplicano i partiti contadini (come in Polonia), e partiti conservatori come quello della Le Pen affondano il loro consenso nelle campagne francesi, mentre in America il mondo rurale svolta pesantemente verso i Repubblicani. Sono tendenze mi pare ormai manifeste, che dovrebbero interrogarci sulla dimensione politica di questi fenomeni.
Ricordo la figura di Giovanni Marcora, ministro dell’Agricoltura italiana in anni particolari, dal 1974 al 1980, noto per essersi battuto per promuovere agricoltura e allevamento nazionali in Europa nell’ambito della Pac, la Politica agricola comune. Allora Marcora dovette affrontare nodi molto complicati da sciogliere, che erano oggetto peraltro di intense mediazioni tra i Paesi della Comunità europea e di critiche nel Parlamento nazionale. Far convergere agricolture diverse fra di loro era un compito difficile; ma a questa difficoltà oggettiva si aggiungevano rapporti di forza intraeuropei sfavorevoli ai prodotti mediterranei, osteggiati anche dalla concorrenza americana. I fondi della Pac coprivano allora quasi il 70% del bilancio europeo. E venivano usati soprattutto per difendere i prodotti cerealicoli e zootecnici. L’allargamento a Paesi mediterranei ex-totalitari, come Spagna, Portogallo e Grecia, complicava ulteriormente la situazione delle esportazioni italiane, soprattutto di quelle del suo Mezzogiorno. Marcora s’impegnò costantemente in numerose riunioni dei Consigli agricoli a Bruxelles per richiamare i suoi colleghi alla solidarietà e alla cooperazione, nella convinzione che ad agricoltori e cittadini dovesse essere data una risposta costruttiva e concreta, per difendere la stessa Europa dai venti insidiosi del terrorismo e dei movimenti – peraltro ancora minoritari – che contestavano il sistema della rappresentanza politica, a Roma come a Bruxelles. Il suo era un compito difensivo degli interessi nazionali che riteneva funzionale alla costruzione dell’Europa, al rafforzamento della sua legittimità.
La situazione italiana era ed è specchio dell’Europa. La marcia dei trattori simboleggia un po’ il ritorno di antiche questioni, che in verità non interessano soltanto gli agricoltori di un Paese ma tutti i cittadini europei. Quel che sta accadendo non è un evento eccezionale, quanto piuttosto sembra avere dei caratteri “ciclici” e ha a che vedere col modo in cui è stata costruita, proprio a partire dall’agricoltura, la Comunità europea. Certo, attualmente ci si trova di fronte a una sfida non semplice: garantire redditi adeguati e spingere sulla transizione ecologica alla luce di direttive europee spesso iperburocratizzate. Ma mi pare che questi movimenti – a differenza di quelli degli anni Settanta – non siano diretti contro la Pac, anzi, essi si aspettano risposte proprio dall’Europa. L’agricoltura è stata infatti il primo settore in cui la politica comune è risultata vincolante e si è pienamente realizzata. La Pac, ancora più della Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), è stata fondamentale nell’architettura europea, come dimostra anche il recente lavoro di Giuliana Laschi, L’Europa agricola. Dalla fame agli sprechi (il Mulino). Si potrebbe sostenere che, nonostante contraddizioni e limiti, senza una politica agricola comune oggi non ci sarebbe l’Unione europea.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
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Emanuele Bernardi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Storia, Antropologia, Religioni, Arte e Spettacolo, Università “Sapienza” di Roma. Si occupa in particolare della storia dell’Italia repubblicana tra politica, economia e società. Tra i suoi ultimi lavori, Il mais “miracoloso”. Storia di un’innovazione tra politica, economia e religione, Carocci, 2014; La Coldiretti e la storia d’Italia. Rappresentanza e partecipazione dal dopoguerra agli anni ottanta, Donzelli, 2020; (con F. Nunnari), Costruire l’Europa. Giovanni Marcora ministro dell’agricoltura a Bruxelles (1974-1980), il Mulino, 2023.
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