di Luciano Giannelli
Credo si possa ben dire che il contributo di Ugo Iannazzi, La difesa dei nostri patrimoni linguistici sopraffatti dall’inglese, si apprezza per la sua totale lucidità. Proporrei però un passo, non voglio dire avanti, ma oltre, su un piano definitorio, per l’attuale situazione dell’italiano in Italia, oltre che dei dialetti italiani e d’Italia.
Giustamente Iannazzi si riferisce anche a queste lingue minori (definizione su cui torniamo subito), di ambito regionale e più spesso sub-regionale, che tradizionalmente in Italia si definiscono dialetti.
La sopraffazione che l’inglese pare esercitare su questi è analoga – non identica, perché i dialetti non coprono certi ambiti ‘tecnici’ – a quella che investe la lingua italiana d’uso e certamente si somma al lavoro di sgretolamento di lunga lena, lento, operato dalla lingua italiana stessa su queste lingue minori. Questa definizione non si riferisce al minor numero di parlanti, ma ad una condizione di ‘minorità’ linguistica della varietà, che viene relegata a lingua del sentimento, degli affetti, dell’intimità, della letteratura ‘dialettale’, magari ‘minore’ (il che in Italia spesso non è).
Queste lingue minori sono meglio definite – come c’insegna la più consapevole elaborazione che viene dall’America Latina, che fa i conti con le sue lingue indigene – come lingue minorizzate. La definizione appalesa che per processi complessi, anche coercitivi, queste lingue sono state messe in condizione di esser di meno, di contar meno. Gli agenti di questa svalutazione sono vari, dalla scuola al governo e oggi ai mezzi di comunicazione di massa, ma paradossalmente i più pericolosi finiscono per essere i parlanti stessi. Questi sono schiacciati dall’egemonia di una lingua dominante, in via spesso pratica, ma oggi soprattutto per processi ‘subliminali’ di colonizzazione culturale e mentale, più potenti di ogni ‘azione positiva’ che si metta in campo per ‘tutelare’ una lingua minorizzata. Ne sono una prova i ragazzini navajo anni ‘90: questi subivano a scuola le lezioni di e nella loro lingua athapaska, eppure quando andavano ai più o meno scalcinati fast food delle cittadine del loro territorio autonomo parlavano solamente un perfetto inglese americano da classe bassa. Aggiungo un altro esempio, non si fosse già fatta abbastanza chiarezza: le donne mapuche, come molte donne amerindiane, parlano ai propri futuri figli quando questi sono ancora nel ventre, anche per dare – a loro modo – degli insegnamenti. Quando mia moglie, in un poblado cileno, chiese a una giovane mapuche incinta, perfettamente bilingue, in quale lingua parlasse alla bambina che aveva in grembo, la ragazza la guardò esitante, fece un sorriso un po’ amaro e un po’ impetrante perdono, e rispose “En español”.
I dialetti d’Italia sono un po’ in questa condizione (molto raramente però hanno cittadinanza a scuola). La lingua italiana, chiaramente no. La lingua italiana non è elencata tra le lingue minacciate, fino a poco fa si sarebbe detto che certamente no, l’italiano non è affatto una lingua minacciata. Nessuno ci impone l’inglese o altro, si fa cultura e comunicazione di massa in italiano (aggredito, certo), si fa scuola esclusivamente in italiano; qualche corso universitario in inglese non lo neghiamo più, ma io vedrei qui delle giustificazioni, anche se ne sono mortificato. Come richiama opportunamemnte Iannazzi, l’italiano è tra le lingue più studiate al mondo, per il suo immane peso culturale (e per la pletora di studenti latinos che – soprattuto negli Stati Uniti d’America – ‘ci prova’).
Ma oggi, scontando anche la tempesta d’inglese suscitata dalla pandemia, che Iannazzi richiama, io vedo non chiara e non semplice la risposta alla domanda se l’italiano sia o no una lingua minacciata. Sento da dietro la voce di Carlo Verdone col suo famoso e fantastico “In che senso?” …
Il navajo e il mapuche (e parliamo di entità ‘forti’) rischiano davvero di scomparire (e si fa alla svelta, tre-quattro generazioni, non è la lentissima e spesso irrisolta ‘agonia’ di molti dei nostri ‘dialetti’). L’italiano, senza dubbio alcuno, non corre questo rischio. Ma ne corre evidentemente un altro che – al netto della terminologia e delle definizioni – Iannazzi ha chiaramente presente: quello di diventare ciò che (la nemesi!) fu proprio l’inglese per qualche secolo, una lingua inadatta a esprimere concetti complessi. Queste lingue hanno, fuori d’Italia, una definizione, che tradurremo come lingua vernacolare (lengua vernácula, vernacular language): non è il vernacolo dei pisani o dei fiorentini, ma proprio la lingua del verna, del servo rallevato in casa. Lingua per usi minori, anche estetici (la poesia, come la liturgia, è uno dei rifugi delle lingue morenti), lingua comunque non impiegabile per cose complesse, importanti, tecnologiche invece che di ‘bassa’ tecnica. Anche lingua che può suscitare ilarità e disprezzo: beh, a questo punto non ci siamo e si spera che non ci saremo mai.
Ma perseguiamo pure per la strada che Iannazzi svela, e ci renderemo conto che – come già ora molti giovani di cultura non conoscono l’equivalente italiano (possibile o attuale) di certi termini inglesi – saremo afasici senza il ricorso a termini inglesi. Che sono certamente duttili, brevi, icastici, maneggevoli, d’uso multiplo (non ho detto multiuso e neanche – Dio ce ne scampi – multitasking) com’è proprio d’una lingua che ha rischiato di scomparire e che anche per questo, benché parente dell’italiano, finisce per richiamare molto il cinese. Ché anche questo – come quasi nessuno sottolinea – è uno dei punti di forza dell’inglese (la duttilità/brevità, non la somiglianza al cinese) non meno potente dell’imperialismo culturale e comportamentale.
Nella prima parte del Cinquecento, il senese Claudio Tolomei, incitando all’uso e allo sviluppo della lingua toscana, parlava di fatto di una lingua vernacolare, che ancora in molti – a dispetto della letteratura! – si chiedevano se si potesse scrivere. E Claudio Tolomei argomentava che doveva essere portata, per elaborazione, al rango di una lingua come il latino. Da allora c’è stato un lungo lavoro, talora contraddittorio, che ha portato, da molto tempo, ad un punto d’indiscutibile eccellenza, dal quale però abbiamo cominciato – ahimè – a scendere.
All’Italia non interessa tutelare la ‘sua’ lingua. L’intellettualità italiana – salvo pochi – non ama l’italiano che, paradossalmenrte, si appalesa ancora come lingua superposta in quasi tutto il territorio; basta vedere come viene immiserita qua e là, impoverita non tanto per l’uccisione del congiuntivo ma dalla progressiva – e regressiva – povertà e stereotipicità del lessico, causa e conseguenza al tempo stesso dell’immissione orgiastica di lessico inglese e anche, ampiamente, di costrutti inglesi (i bambini si fanno viaggiare sullo scuolabus, e ora c’è anche corona virus); ma riguardo all’atteggiamento del resto inguaribilmente e provincialmente (quanto selettivamente) esterofilo degli italiani, basta ricordarsi del passato tendenziale infranciosamento, settecentesco e otto-novecentesco. Solo che quelle erano società aristocratiche, al netto dei vari armuar e del purè (non purea) penetrati nei ceti più ‘popolari’.
Di fronte a questa situazione sconfortante, che ha perfettamente delineato, Ugo Iannazzi paragona l’inerzia italiana con quanto accade in altri Paesi che in effetti ostentano atteggiamenti diversi riguardo alla tutela della lingua nazionale. Per fermarci a Spagna e Francia, si riscontrano posizioni di quei governi diciamo bellicose, di fronte alla pressione anche lì fortissima dell’inglese. Noi abbiamo una Accademia della Crusca il cui ruolo effettivo, pratico, non mi è molto chiaro, e che definirei inavvertibile. Ma l’Académie e la Real Academia si sentono eccome! L’efficacia delle loro esternazioni e decisioni non è molta. Neanche se si tiene in conto l’atteggiamento ispanico, per cui si riveste di spagnolo materiale alieno (il calcolatore chiamato ordenadora in Spagna e computadora in America); non ci pare una risposta adeguata a una sudditanza intellettuale, né si vede – in questi ‘rivestimenti’ – lo sforzo di sfruttare le risorse della lingua.
Diciamo pure che la cosiddetta pianificazione linguistica ha perduto – se mai l’ha avuta fino in fondo – la sua efficacia. È vero che l’ebraico è stato resuscitato e si mostra oggi fiorente; che il neo-norvegese (nynorsk) si è imposto in Norvegia; che l’ungherese e il finnico sono riusciti, l’uno prima l’altro dopo, a porsi nello spazio e nei domini che erano stati del tedesco e dello svedese. E questo è certo frutto anche di politiche linguistico-culturali promosse dall’alto. Ci riferiamo a periodi storici diversi, non vicinissimi.
Non mi sento di nutrire grande fiducia in un legislatore, in Italia prerennemente distratto, e semmai – in un passato recente – rabbiosamente renitente alla tutela e incentivazione delle lingue di minoranza (‘dialetti’ non pervenuti). Credo anche che le esperienze di successo prima richiamate abbiano funzionato sì per una volontà politica decisa delle classi dirigenti; ma furono politiche di successo soprattutto perché l’insieme del popolo, e la gente comune, l’ha voluto. Non mi pare invece si colga in Italia – fatti salvi ovviamente alcuni intellettuali, e qualche malumore – neanche il sentore di un trasporto analogo a quello che sottese quelle esperienze, che furono dettate da una vera e propria volontà generale di riscatto, condivisa e diffusa, percolata negli strati più umili.
Questi non molti intellettuali che si spendono per contrastare il degrado della lingua hanno il mio sostegno, oltre che la mia ovvia comprensione. Mi sentirei comunque di raccomandare che si partisse anche e soprattutto con una azione dal basso, magari dalla stessa pratica d’insegnamento, cioè dalla scuola, anche dalle scuole di giornalismo, puntando ad una sensibilizzazione di chi opera in questi ambiti verso lo sviluppo di una attività culturale diffusa che sappia innovare, tornando a sfruttare le risorse dell’italiano.
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
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Luciano Giannelli, ha tenuto corsi di discipline linguistiche (inclusa Storia della Lingua Italiana) in varie Università italiane e dal 1987 al 2010 in quella di Siena (come professore ordinario L/LIN01 dal 2000). Ricercatore di campo, ha lavorato sui due settori italianistico e di linguistica e sociolinguistica di pertinenza amerindiana, con ricerche condotte in Paraguay, Argentina, Cile, Panama, Stati Uniti d’America. Per tutta la durata dell’attività, ha fatto parte del comitato direttivo del Centro Interdipartimentale di Studi sull’America Indigena dell’Università degli Studi di Siena, la cui eredità è stata poi raccolta dal Centro Interdipartimentale di Studi sull’America Pluriversale dell’Università di Cagliari. In ambito italianistico ha studiato in particolare le varietà toscane, nel comitato editoriale dell’Atlante Lessicale Toscano; ha sviluppato ricerche in vari ambiti dell’analisi linguistica e soprattutto in fonologia descrittiva e storica e in sociolinguistica. Dal 1976 al 2017 è stato membro del Comitato Editoriale della Rivista Italiana di Dialettologia.
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