di Paolo Carera
Introduzione
L’intento del seguente articolo è quello di esaminare la messa in scena della cultura materiale, degli oggetti e dei manufatti legati al processo di “invenzione” culturale delle Alpi esposti all’interno di un rifugio alpino delle Alpi Orobie bergamasche. Si cercherà di spiegare come questi rappresentino i primari elementi atti a materializzare una ambientazione alpina tradizionale e pittoresca, condizione prodotta da pratiche culturali rigorosamente definite ed impresse negli attori sociali frequentatori della montagna. Tali componenti materiali si evidenziano come elementi diffusi, nonché alle volte stereotipati, originati da un insieme di significati che operano all’interno di un più vasto patrimonio di rappresentazioni culturali prodotte nel corso del tempo.
Si tenterà inoltre di fare emergere come la fruizione della collezione del rifugio Montebello appaia stratificata e in che modo al suo interno si co-originino le dinamiche favorevoli ad una rapida immersione nella vita culturale alpina e una parallela spettacolarizzazione nostalgica degli artefatti valligiani, esposti secondo principi di museografia spontanea. Difatti, la questione che sottende l’elaborazione del presente articolo è se il rifugio Montebello, la cui esposizione di manufatti è stata progettata ed allestita con maestria degna d’artista, possa essere considerato un luogo di tipo museale. Per verificare questa ipotesi saranno indagati i processi di musealizzazione in atto all’interno della struttura. In particolare, analizzare le esposizioni oggettuali, nonché i relativi risvolti sul piano sociale, ha permesso di accedere a quelle forme di «espressione e trasmissione di arti nascoste nelle pieghe dell’ordinario e del quotidiano di vite comuni, scoperte in quei mondi di cui spesso l’etnografo è il solo a interessarsi» [1].
Questo articolo, costituito da riflessioni dedicate alle modalità espositive, agli oggetti e alle relazioni che questi instaurano con i frequentatori della struttura, è stato scritto ispirandosi a queste parole, associando delle analisi generali sulle espressioni culturali alpine ad un’immersione etnografica nell’universo degli artefatti che connotano il quotidiano.
1. Classificazione degli oggetti e analisi della cultura materiale. Il caso di studio: il rifugio Montebello
Il rifugio Montebello, struttura costruita e gestita dalla famiglia Berera dal 1997, sorge nel territorio di Foppolo (BG), comune delle Alpi Orobie bergamasche principalmente conosciuto per ospitare uno dei comprensori sciistici più grandi della provincia. L’edificio infatti è stato costruito appositamente per offrire ristoro e riposo agli sciatori durante la stagione invernale e agli escursionisti frequentanti la zona nel periodo estivo. La struttura si articola su due piani, ognuno dei quali presenta una terrazza; quella posta al piano inferiore, precedentemente conosciuta come Terrazza Salomon, è molto frequentata sia durante la stagione invernale sia in quella estiva per l’ampia panoramica che offre sulle vette circostanti. L’interno del rifugio Montebello è noto per essere curato finemente nei dettagli; si tratta di un edificio seducente, dotato di una personalità carismatica: la gentilezza dei rifugisti, lo splendore del paesaggio montano e la cura dedicata agli interni fa sì che l’edificio si imprima nel ricordo dei frequentatori o che, quantomeno, non li lasci indifferenti al loro ingresso.
La sala del piano superiore del rifugio è piccola e intima; il soffitto caratterizzato da travi a vista, è vertiginosamente spiovente, così da permettere alla neve – durante la stagione invernale – di scivolare lungo l’inclinatura. Al centro della sala è posizionato un lungo bancone, impiegato principalmente per la consumazione di bevande in piedi. Lungo i muri nord e sud sono adagiati più tavoli con i rispettivi divanetti e sedie, le cui tovaglie e stoffe presentano motivi in ricamo stilizzati di fauna e flora alpina. Posizionate sulla parete accanto ai tavoli, sono collocate delle fotografie in bianco e nero, raffiguranti immagini storiche della costruzione del rifugio, di vette bergamasche e panorami valligiani. I due estremi della sala presentano l’uno la zona bar e ristoro, adibita per il self-service; l’altro esibisce un ampio camino in pietra con inserti in legno scolpito e decorato, sul quale sono esposti dei trofei di camoscio e animali selvatici, diverse ghirlande di fiori e delle corna di stambecco. L’elemento più distintivo della sala è senza dubbio il soppalco in legno che, tramite la sua imponente struttura a mansarda, si impone sulla sala creando un secondo soffitto, più basso rispetto a quello spiovente del tetto, al quale sono appese delle lampade per rischiarare l’ambiente.
La sala principale del rifugio Montebello, posta al piano terra e direttamente accessibile dalla Terrazza Salomon, presenta una stretta e lunga anticamera interamente costruita in vetro, la quale permette ai visitatori di sostare e godere del panorama rimanendo isolati dal freddo invernale. Particolarmente originali sono due seggiolini della vecchia seggiovia riutilizzati come sedie, posti di fronte a un tavolino e messi a disposizione ai visitatori. La sala del rifugio vera e propria è invece talmente ampia, spaziosa e ricca di esposizioni che, per agevolare la descrizione della cultura materiale e degli oggetti, è stato scelto di dividerla idealmente in quattro aree: area centrale, area est, area ovest e saletta nord.
Nell’area centrale del rifugio, l’ingresso principale un portone in legno massello – decorato con dipinti raffiguranti animali alpini – permette allo sguardo di essere catturato da un enorme aquila lignea, la quale, posta su di un muretto in pietra, accoglie i visitatori ad ali spalancate. Dietro il muretto è posta una tavola rotonda cinta da un secondo muro semicircolare in pietra sul quale sono adagiate diverse sculture in legno, affiancate da ghirlande e grandi palchi di cervo esposti a trofeo sulle colonne. La struttura circolare del tavolo e dei muri caratterizza l’area centrale del rifugio, attorno alla quale ruota il resto dell’arredamento immediatamente circostante. Al di sopra dell’area è esposta una grande fotografia dello skyline delle vette visibili dal rifugio, difronte alla quale è stato posizionato un modellino di funivia/cabinovia che riproduce il luogo di visita.
Accanto alla fotografia dello skyline, al di sopra di un mobile, giace una slitta dalle grandi dimensioni, costruita in legno, dipinta e dotata di un paio ricurvi pattini in ferro. Le finestre dell’intero piano terra sono molto ampie e consentono l’illuminazione naturale anche durante i mesi più bui, al di sopra delle quali, inciso nel legno, è segnato il nome della montagna direttamente visibile dall’apertura in vetro, come se il rifugio desiderasse non solo offrire riparo dall’ostilità dell’ambiente esterno, ma dischiudersi al paesaggio circostante. Le finestre, in questo modo, non si presentano come semplici orifizi imposti per la circolazione dell’aria ma permettono agli spazi del rifugio di superare la cesura classica degli ambienti chiusi. Così, le ampie vetrate delle finestre offrono possibilità di comunicazione diretta tra l’interno e l’esterno e lo scenario alpino traspare nell’intimità dell’edificio giocandovi liberamente. La sala comunica con l’esterno come se fosse un edificio aperto e il paesaggio circostante si trasforma, di conseguenza, in ulteriore elemento di arredo e di esposizione.
L’area est del rifugio presenta al centro un alto bancone in legno, accanto al quale sono posizionati tre tavolini con le rispettive sedie intagliate a forma di cuore. Il compito di rischiarare l’ambiente è affidato ad un ligneo alpinista appeso al soffitto che, reggendo una lanterna con la mano, è intagliato nell’atto di calarsi in corda doppia secondo il metodo Dülfer/Piaz. Le pareti dell’intera sala del rifugio sono in legno – sia grezzo, sia intagliato secondo fantasie floreali – in cemento bianco e pietra. Ai lati della sala, sono posti diversi lunghi tavoli in legno, volti a favorire la convivialità degli ospiti, i cui divanetti presentano stoffe finemente intricate secondo motivi alpini [2]. Lungo le pareti, numerosi oggetti sono esposti alla vista degli osservatori; a catturare lo sguardo sono una serie di grandi fotografie incorniciate: immagini scattate da famosi alpinisti e donate ai rifugisti [3]. Accanto alle fotografie sono appesi degli sci in legno, orientati in parallelo e affiancati alle relative racchette per l’equilibrio; vi sono inoltre numerose ghirlande di rami d’abete intrecciate a figure lignee e campanelli, gerle di fiori, figure sagomate nel legno e all’angolo della sala, su di una mensola, sono posti un orologio – dipinto a raffigurare un camoscio – e un escursionista intagliato nel legno. Il protagonista dell’area è però la struttura del bar, costruita a mo’ di chalet svizzero in miniatura: è stata infatti ricreata la forma di un piccolo edificio interamente costruito in legno – sulla quale è esposta una gran quantità di oggetti [4] – dotato di pareti e finestrelle dipinte, nonché sormontato da un tetto completo di tegole. Nelle finestrelle del piccolo chalet sono presenti dei quadretti, abilmente decorati, che illustrano animali alpini e scorci di paesaggi montani.
La sala ovest presenta uno schema di arredamento simile a quello della sala est: tavoli e sedie di legno al centro, divanetti e tavolini lungo le pareti. Esposti ai muri vi sono oggetti analoghi a quelli precedentemente elencati: illustrazioni della fauna locale dipinti su legno, ghirlande di fiori, lanterne, palchi di cervo e trofei vari. Particolarmente appariscente è un appendiabiti che impiega degli zoccoli imbalsamati di camoscio come porta oggetti, posti al di sopra di un pannello in legno dipinto. All’angolo della parete si erge un grande camino in pietra con inserti di legno, sul quale spicca in primo piano un grande trofeo di camoscio, coronato da corna e pelli dello stesso esemplare, palchi di cervi e fotografie di caccia.
La saletta nord rappresenta lo spazio più esemplare dell’intero piano terra. L’ingresso è caratterizzato da un finto tetto spiovente in tegole, così da dare l’impressione di entrare non in una stanza bensì in un piccolo e raffinato chalet svizzero. L’ambiente è costruito interamente in legno intagliato e decorato: sulle pareti, scalfite ad effigiare delle colonne, sono esposti diversi dipinti di fauna alpestre, palchi di cervo impiegati come lampadari, zoccoli di camoscio utilizzati come appendiabito, una pelle del medesimo esemplare e due orologi, l’uno dipinto con uno stambecco e l’altro con un cervo. In un angolo è stata scavata una nicchia contenente delle mensole, sopra le quali sono adagiati un orologio a cucù, una statuina e due porta candele. Ad attirare l’attenzione è però il soffitto, più basso rispetto allo spazio esterno e maestosamente intagliato secondo motivi geometrici e floreali.
2. Allocronismo e semiofori: per un’interpretazione semantica degli oggetti
A seguito di quanto descritto, di particolare utilità per lo sviluppo delle argomentazioni sono le riflessioni di Krzysztof Pomian (1999) attorno agli oggetti semiofori, descritti come manufatti in grado di veicolare informazioni, valori e significati. Nella teoria del filosofo polacco, lo statuto dei semiofori è il risultato di uno spostamento spaziale – declinato nelle operazioni di decontestualizzazione e ricontestualizzazione – che permette loro una visibilità sociale e la facoltà di esprimere determinati principi legati alla volontà che li ha realizzati. Attraverso tale processo di singolarizzazione e densificazione, gli oggetti semiofori non diverrebbero semplicemente segni o simboli statici, ma oggetti dotati di un significato profondo, che possono essere interpretati in relazione al contesto culturale e sociale in cui sono esposti.
Secondo tali elaborazioni, gli oggetti individuabili come semiofori messi in mostra all’interno del rifugio sono articolati in tre categorie con l’aggiunta di un’ulteriore sezione per i prodotti d’uso. La prima categoria riguarda quella dei manufatti. Ogni attività umana produce i propri significati e le più varie pratiche alpinistiche, così come i richiami alla vita tradizionale sulle alture, non si sottraggono a questa dinamica [5]. Gli sci in legno, lunghi oltre misura, sono l’oggetto d’epoca più ridondante all’interno del rifugio; gli altri oggetti antichi posti in mostra sono numerosi seghetti da legna – affiancati da altri strumenti – esposti in collocazione ravvicinata sulle pareti, simboli dell’impegnativo lavoro manuale di un periodo passato. Questi oggetti sono sottratti definitivamente alla destinazione data loro al momento della produzione, nonché allontanati dalla funzione originale assegnata e dal ciclo dell’uso. Quindi, non essendo più utilizzabili – poiché manufatti antichi – diventano oggetti d’epoca e, non rispondendo più ad esigenze funzionali, assumono un diverso incarico: di testimonianza e di nostalgia, ragion per cui in essi si è tentati di vedere la sopravvivenza di un particolare assetto tradizionale e simbolico (Baudrillard 2003).
La delocalizzazione di tali oggetti rievoca la loro funzione originale nel contesto d’appartenenza primordiale: gli sci, ad esempio, prima di essere adoperati come strumenti di svago delle domeniche invernali, erano impiegati per facilitare lo spostamento in condizioni disagevoli. L’altrove a cui rimandano questi oggetti è quindi posto non tanto nella montagna in sé ma nell’approccio emotivo e nostalgico proiettato verso di essa; essi difatti non rinviano alla funzione pratica ma esistono nel loro riferimento al passato. Eppure, anche gli oggetti d’epoca prendono corpo nella modernità e in essi si disputa un gioco temporale: sono infatti i segni culturali del tempo a vetrificarsi negli oggetti d’epoca, i quali non permettono loro di irrompere nel sistema in cui sono introdotti, di integrarsi nell’ordine presente e di rendersi compatibili con esso. Negli oggetti elencati l’allocronismo [6] è generato grazie ad una serie di metodi di temporalizzazione che permettono a questi oggetti di presentarsi come cornice del conflitto in atto tra panorami culturali e temporali differenti. L’effetto di distanziamento temporale è qui ottenuto tramite le modalità con le quali gli oggetti vengono inscenati, esibiti come se fossero risorse autentiche e immutabili ma prossime a dissiparsi (Ibidem: 96-98).
La seconda categoria rispecchia la simbologia faunistica, poiché gran parte dell’esposizione del rifugio è dedicata a quegli animali alpini che, nel processo di invenzione culturale delle Alpi (Camanni 2002; Salsa 2006; Salsa 2007; De Rossi 2014; De Rossi 2017; Salsa 2019), si imposero come specifiche icone della montagna (Brevini 2017). In particolare, la rappresentazione esotica del camoscio [7] è fortemente testimoniata all’interno dell’edificio, dati i significati sottesi all’animale all’interno del panorama simbolico-culturale alpino (Brevini 2017); così come l’esposizione dei trofei, dipinti e sculture di stambecco e di cervo – entrambi circondati da alone di significati magico-taumaturgici [8] – anch’essi atti a certificare la loro presenza geografica nello spazio di esposizione.
La terza categoria rispecchia la simbologia botanica. Le rappresentazioni delle più svariate tipologie di fiori di montagna, quali il rododendro e la genziana, mettono in luce l’esoticità floreale dell’ambiente geografico; eppure, questi non appaiono costanti nelle esposizioni quanto le più note stelle alpine. Le stelle alpine, o Edelweiss [9], principalmente raffigurate in dipinti e tessuti, rispecchiano uno dei più diffusi elementi stabilitisi nel ventaglio della stereotipia alpina derivata da propensioni borghesi. In quanto emblema per eccellenza delle terre alte, celebra le qualità che i ceti sociali cittadini ottocenteschi attribuirono alle più varie rappresentazioni delle Alpi, dei valligiani e dell’alpinismo sino a divenire, nella sua delineazione più patetica, icona dell’amore puro (Brevini 2017). La stella alpina diventa quindi un trofeo di montagna con valore di testimonianza – in quanto conserva la quintessenza di un altrove idealizzato – in cui si condensa il legame tra il luogo e l’esperienza soggettiva dello stesso (Canestrini 2001).
L’ultima categoria riguarda le parti strutturali e i prodotti d’uso. Gli oggetti come i tavoli in legno, le panche e le parti strutturali del rifugio – come le travi a vista del tetto, gli interni in legno, le sedie intagliate a forma di cuore, nonché le tappezzerie e tovaglie intricate secondo motivi alpini – seppur non siano puri semiofori, secondo la definizione di Pomian, hanno comunque potere linguistico e intervengono nell’ambiente nel quale sono collocati esprimendo valori determinanti e simbologie tipicamente tradizionali. Impiegate per la creazione di una scenografia rustica, le sedie in legno mostrano al centro dello schienale curvo un traforo a forma di cuore, sagomato con le linee tradizionali degli arredi montani. Le parti più peculiari del rifugio, invece, sono probabilmente la struttura bar e la saletta nord, costruite entrambe sul modello dello chalet: entrambe emergono come un agglomerato di parti strumentali e oggetti scelti con cura e dedizione, in cui nulla è posto alla rinfusa o secondo modalità casuali. Si tratta, nuovamente, di manufatti a cui vengono attribuiti chiari significati tramite strategie spaziali ed espositive: la scelta del legno come materiale, ad esempio, non è casuale, ma rispecchia dei canoni stabiliti socialmente e naturalizzati nel diffuso immaginario culturale montano.
2.1. L’ambiente è di casa: un’esposizione nostalgica che narra la montagna
Come già sottolineato, l’edificio esaminato parla senza esprimersi esclusivamente rispetto ai gusti dei suoi costruttori materiali, ma si pronuncia riguardo al processo di invenzione delle Alpi e dei suoi esiti nelle forme della cultura materiale locale. Non presenta inoltre elementi isolati dal contesto ma mette in scena unicamente oggetti che creano legami con la dimensione culturale che li ha generati. L’arredamento d’insieme del rifugio non presenta, salvo qualche voluminoso manufatto, degli oggetti dotati di assoluto protagonismo. Vi sono degli oggetti catalizzatori dello sguardo, ma questi – salvo qualche singolare caso – non emergono con spiccato risalto rispetto all’arredamento circostante: l’impressione che si ha muovendosi negli spazi è quella di una fluida continuità tra le varie esposizioni. La quasi totale assenza di forti contrasti cromatici gioca in questa continuità un ruolo fondamentale: gli oggetti più eccentrici, come gli sci e le racchette, sono tutti in legno e non creano contrasti di colore poiché sono appesi su di una parete del medesimo materiale; i manufatti più imponenti, come la zona bar e il camino nell’angolo, sono posti in sintesi con gli spazi circostanti e per questo non hanno forte risalto. Anche i trofei di animali, pur essendo innumerevoli e corpulenti, si pongono in continuità con il resto della struttura. A persistere è l’armonia dei manufatti, dei materiali e degli ambienti interni, costantemente posti in relazione al paesaggio esterno.
All’interno del rifugio, la costruzione del caratteristico e del tradizionale è affidata all’impiego di resti in decomposizione del mondo alpini: oggetti quotidiani, frammenti di tecniche scultoree, di paesaggi e modi di vivere. Gli oggetti sopra descritti sono tra loro eterogenei, ma assumono omogeneità in quanto segni culturali che si istituiscono a sistema coerente. L’arredamento emerge quindi come un ambiente finemente ragionato e dietro l’organizzazione degli spazi del rifugio si rivela un’intenzionalità ben precisa. È infatti una volontà rigorosa a scegliere le forme esterne, gli interni, l’arredamento e gli oggetti: nonostante molto stia cambiando sul fronte dell’innovazione architettonica delle strutture di accoglienza alpinistica (Gibello 2011; Dini, Gibello, Girodo 2018; Dini, Gibello, Girodo 2020), l’immagine tradizionale e culturalmente diffusa che si ha pensando a un rifugio di montagna non è quella di un grattacielo o di un palazzo in alta quota. Gli edifici di montagna vengono infatti culturalmente pensati sul modello dello chalet e della baita d’alpeggio, dotati di componenti materiali legati all’ambiente locale (De Rossi 2014; Brevini 2017).
L’estetica dei rifugi alpini, a partire dagli inizi dell’Ottocento, si legò al modello architettonico vernacolare – nonché all’idea pittoresca – di chalet svizzero e della baita alpina; accostamento, peraltro, che fu facilitato da movimenti politici, come nel caso del Heimatschutz in Germania. La validità della struttura venne attribuita a criteri che non risiedono tanto nelle scienze architettoniche quanto nella celebrazione della montagna in quanto territorio geografico abitato da presunti popoli arcaici, posti in costante e decisiva contrapposizione alle civiltà cittadine. Lo chalet, in realtà, risulta come l’esito di una proiezione dei nuovi sentimenti nei confronti delle Alpi, dei vagheggiamenti romantici e morali che vennero a contrapporre gli insediamenti montani alle città: un modello e delle linee archetipiche che testimonierebbero la costituzione esemplare e primigenia delle popolazioni alpine [10]. In questo modo tutte le componenti simbolico-materiali precedentemente indicate, poste all’interno dell’edificio come parte integrante della struttura, non solo sottintendono al territorio al quale sono affiliati, ma perseguono il compito di mettere in scena ed esaltare l’ambiente circostante secondo gli orizzonti identitari, vernacolari e artistici definiti dalle correnti del pittoresco alpino. Il rifugio s’impone, in questo modo, come un prodotto definito da un’inculturazione profonda ed esperienza abitativa consolidata.
La cultura materiale esposta non appartiene più alla sfera del commercio, ma diviene un modello dotato di incidenza sociale che, fornendo una particolare rappresentazione delle Alpi, si pone dinnanzi ad un ambito che interessa la società tutta. Evocando una selezione di tratti culturali dal mondo di significati dal quale affiora, la collezione ha qui il potere di valicare i propri limiti formali per assumere una valenza sociale. Difatti, l’autorappresentazione dei rifugisti nel dar vita al rifugio – declinata nell’accuratezza dell’organizzazione espositiva – da un lato, deriva da riferimenti culturali dettati dall’immaginario artistico e letterario sviluppatosi dalla fine del Settecento [11]; dall’altro, tale rappresentazione riverbera esiti sul piano sociale che possono essere recepiti pre- riflessivamente, in quanto rimandano a significati non diretti ma acquisiti inconsapevolmente dall’escursionista o sciatore che, all’interno del rifugio, diviene inevitabilmente spettatore.
A questo proposito, risultano esplicative le riflessioni di Daniel Miller (2017), secondo cui gli oggetti presentano particolare importanza non tanto nel momento in cui si evidenziano e si rendono fisicamente visibili, ma nel momento contrario: meno si è consapevoli della loro presenza, più efficacemente determineranno le aspettative degli spettatori. Secondo invece le osservazioni di Antonio De Rossi, l’appartenenza al paesaggio di cui si caratterizzano gli edifici strutturati esteticamente sul modello dello chalet svizzero sarebbe dovuta ad un’inclinazione empatica per l’inserimento paesaggistico, che permetterebbe a questi edifici di essere percepiti come una sorta di espressione della montagna stessa, poiché in grado di incrementare la sensazione di armonia e continuità con il paesaggio (De Rossi 2014, 104).
Muovendosi sull’indirizzo di queste riflessioni, nel rifugio Montebello, la capacità di evocare luoghi e ambienti alpini sarebbe possibile poiché esso si presenta come una sorta di ʽsineddoche’ nostalgica della montagna: le forme del rifugio perdono la caratteristica di dato strutturale per divenire elemento che partecipa alla rappresentazione culturale e pittoresca del paesaggio alpino, ponendosi come fautore di atmosfere ed evocazioni stimolanti omogeneità, nonché costituendo il profilo stesso del paesaggio montano [12] .
La narrazione proposta all’interno del rifugio Montebello per mezzo della cultura materiale, si sviluppa e si definisce in rapporto non solo a chi vi si muove nel suo interno ma innanzitutto alla percezione sociale dell’ambiente in cui è immerso. L’arredo e i manufatti esposti generano un legame costitutivo con il paesaggio circostante, plasmando uno spazio che, pur essendo limitato da mura domestiche, è intrecciato costitutivamente con l’esterno: rifugio alpino e paesaggio alpinistico si co-originano. La struttura si articola come edificio dinamico che nasce e si costituisce grazie alla costante comunicazione tra l’esterno e l’interno: non solo uno spazio in cui il mondo culturalmente prodotto della montagna si condensa e trova contenimento, ma un luogo in cui la cultura materiale subisce una mediazione imposta dalla definizione contestuale dell’edificio, contribuendo in maniera costitutiva a determinare la struttura stessa. All’interno del rifugio, gli elementi paesaggistici sembrano filtrare attraverso le pareti per divenire parte integrante dell’edificio: la montagna “entra” nel rifugio e si costituisce assieme ad esso come un tutt’uno inestricabile, al punto che il rifugio appare come una sorta di emanazione ʽnaturaleʼ del paesaggio ʽculturaleʼ alpino. Incorporando elementi esterni e l’ambiente ingloba l’edificio come se fosse un prodotto del luogo stesso, divenendo in tal modo una struttura densa di significati.
Il rifugio Montebello, perciò, si differenzierebbe da un comune spazio abitativo innanzitutto per i legami che esso genera – tramite le esposizioni materiali – con il territorio circostante, emergendo come rappresentazione della società nella quale esso stesso si colloca. In ultima analisi, sarebbero proprio gli oggetti e i manufatti ad essere gli agenti generativi di quelle sensazioni esperibili in alta quota, a loro volta prodotte da pratiche culturali ben definite che si imprimono per ostensione negli attori sociali frequentatori della montagna. Ciò che rende denso di significato il rifugio Montebello e che dà sostanza all’atto di fruizione esperibile in esso sarebbe quindi questa articolata struttura di senso in cui gli oggetti e i manufatti espongono, agli osservatori, i contorni di una configurazione simbolica esotica denominata di volta in volta ‘montagna’, ‘chalet’, ‘Alpi’ o ʽrifugioʼ.
3. Il rifugio Montebello come esposizione museale: una prospettiva possibile?
In questa ultima sezione si cercherà di esaminare se il rifugio Montebello possa essere analizzato attraverso una prospettiva museale alla pari delle cosiddette case-museo, vagliando sia i punti a favore, sia quelli contro. Parlare di museo in riferimento al rifugio in questione può risultare difficoltoso a causa di diversi fattori: quella analizzata è una collezione che non possiede standard di documentazione atti a risolvere questioni di carattere informativo rispetto alle esposizioni; non sono previste attività di ricerca e di studio legate ai manufatti e una difficoltà ulteriore consiste nell’impossibilità di poter confrontare l’opera costruita dalla famiglia Berera con altri edifici della zona territoriale. Il rifugio, semplicemente, non è sorto per divenire un museo; eppure, involontariamente realizza le finalità e il linguaggio di un’istituzione museale senza averne la forma, ponendosi come «un luogo in cui i beni acquistano un valore culturalmente soggettivo, evidenziato da percorsi narrativi fatti di complessi e problematici ordini ideologici di rappresentazioni»[13].
L’edificio appare come contesto di installazioni narrative, in cui viene percepita come preminente la contestualizzazione degli oggetti, la loro comunicazione e dialogo tra esposizioni oggettuali, le quali esaltano valori e significati collettivamente condivisi: all’interno del percorso narrativo tutte le esposizioni sono affiliate al tema dell’invenzione culturale delle Alpi. Quel che allora diviene opportuno domandarsi è se sia possibile considerare il rifugio come una sorta di museo etnografico, se siano state attuate delle pratiche di musealizzazione spontanea o se, quantomeno, osservare il rifugio all’interno di una prospettiva museale possa avere riscontri fruttuosi e di interesse etnografico.
3.1 Selezionare, esporre, conservare: verso una museografia spontanea
Le residenze private non si rivelano del tutto estranee al linguaggio museale, anche in esse è possibile intravedere l’immagine di un museo-raccoglitore che, per ottenere lo stupore e l’ammirazione degli ospiti, espongono le proprie ricchezze come espressione simbolica di chi vi abita [14]. In realtà, qualsiasi tipologia di abitazione riflette non solo il gusto e il desiderio di chi vi abita ma trasmette, indirettamente, i lasciti di incisive e profonde inculturazioni. Solitamente, nessuna sistemazione abitativa sopravvive al passare del tempo, poiché nuovi modelli e riferimenti culturali – oltre che a quelli personali – modificano i precedenti schemi espressivi relativi al gusto e all’estetica. Vi sono però delle eccezioni: alcune strutture abitative si privano del significato di dimora riservata per divenire ambienti in grado di evocare valori e significati collettivamente diffusi (Fiorio 2018: 217-231). Queste dinamiche si registrano prevalentemente nelle case di artisti e collezionisti, ma il concetto potrebbe estendersi anche al rifugio alpino oggetto di questo articolo.
La selezione degli oggetti – organizzata per essere sottoposta allo sguardo dei visitatori e per favorire l’incontro personale con la cultura materiale – è qui programmata per costituire un ambiente che afferisce all’immaginario collettivo dello chalet alpino tradizionale, mostrandosi all’interno di un percorso narrativo comprensibile agli osservatori, soprattutto a coloro che per la prima volta si approcciano al mondo della montagna. Ciò che viene messo in mostra, come è stato evidenziato, sono i più diffusi elementi della cultura materiale alpina, condensati nell’esposizione di quei particolari simboli della montagna – prima eletti a contrassegno del pittoresco alpino e successivamente stereotipati in icone esotiche – che rendono l’entità folkloristica e nostalgica percepibile ai visitatori.
L’invenzione culturale delle Alpi diviene funzione narratrice ed elemento unificante dell’esposizione interna al rifugio Montebello: cultura materiale, oggetti e manufatti legati da una esposizione dai tratti museali, acquisiscono un carattere simbolico a cui viene attribuito un insieme di valori da trasmettere nel tempo. Per tale motivo, il desiderio della struttura di essere riconosciuta in quanto edificio tradizionale alpino si affianca al bisogno di rappresentarsi nella cultura materiale, nella selezione e nella custodia degli oggetti di cui essa stessa si circonda, che di conseguenza diventa materializzazione delle aspettative sociali proiettate verso il mondo tradizionale alpino.
Le pratiche di narrazione emergono dall’arredamento e dagli oggetti – nonché dalle loro relazioni – che trovano nel rifugio uno spazio di realizzazione della loro natura memorabile, cioè quella peculiarità che si traduce nella metamorfosi dell’oggetto in testimonianza della cronaca esistenziale dell’essere umano sulle Alpi. La cultura materiale esposta opera in modo partecipativo, mettendo in comune le proprie competenze per un progetto condiviso: nella collezione, il nucleo della polifonia narrativa giace nella fusione delle esposizioni e delle loro voci, nel racconto del narratore e nel rapporto instaurato con un ambiente assunto quale fondale armonico dell’intera composizione. Inseriti in questa rete espositiva, i manufatti della collezione evidenziano la propria possibilità di rappresentazione culturale: non più soltanto oggetti di artigianato, diventano ora tracce del processo di invenzione delle tradizioni valligiane in cui le esposizioni danno forma ad una particolare rappresentazione delle Alpi – formulazione di una tra le più possibilità di presentazione scenografica.
Inoltre, la posizione degli oggetti rispetto ai percorsi di avvicinamento rivolti al pubblico, nonché la loro distinzione di primo o secondo piano, può influenzare la loro espressività dettata dall’iniziativa di un arrangiamento museografico, il quale è rivolto alla produzione di aree scenografiche raffiguranti immagini del pittoresco alpino. A questa dinamica si somma la componente di spettacolarizzazione delle esposizioni in chiave nostalgica: il rifugio, infatti, non si limita a esporre oggetti e manufatti, ma li impiega per comporre un discorso di natura etnografica, artistica, nostalgica e, per l’appunto, spettacolare. Tale aspetto si esemplifica nel momento in cui l’oggetto esposto si dota di meraviglia e ottiene il potere di arrestare l’osservatore sui propri passi, esprimendogli un senso di esclusività che suscita in lui un’attrazione profonda (Marini Clarelli 2017). Il nucleo della spettacolarizzazione risiede qui nella singolarità, nell’autorevolezza e nell’impatto visivo delle esposizioni, presentate in modo tale da esaltare il carisma e rendere manifesta la celebrazione della tradizione stessa. Si tratta di una messa in scena in cui l’osservatore, sia esso escursionista o sciatore, possiede un ruolo attivo nel decidere modalità e tempi della visita ma passivo nel recepimento delle informazioni. Difatti, l’apprendimento dello spettatore avviene per esposizione pratica in un contesto dalle caratteristiche museali ma in modo non prettamente riflessivo e attraverso modalità silenti ed apparentemente impercettibili.
Seguendo le riflessioni di Faletti e Maggi (2012), si potrebbe affermare che le esposizioni del rifugio rappresentano un efficace assortimento di prodotti culturali strutturati e orchestrati all’interno di un percorso narrativo atto a comunicare un messaggio esplicativo dal valore museale. Perciò, se i dispositivi spaziali di messa in scena di un’esposizione rispecchiano la verbalizzazione dei suoi intenti, allora la comprensione del messaggio varia a seconda dall’efficacia del dialogo che il rifugio istituisce con i suoi visitatori. Un’esposizione museale sarebbe perciò più efficace se offrisse diversi percorsi di visita, da un livello più generale a uno più approfondito e specializzato (Faletti, Maggi 2012: 79-93).
Nelle presenti circostanze etnografiche, i livelli dei percorsi di visita nel caso di studio del rifugio Montebello sarebbero due. Il primo, che corrisponde all’analisi sopra effettuata, è maggiormente superficiale e viene acquisito senza mediazione di un ragionamento cosciente: è in grado di ricondurre inequivocabilmente le fattezze materiali dell’edificio alla simbologia tradizionale e di evocare i sentimenti romantici derivati dalle correnti artistiche del pittoresco, le quali possono essere colte anche dai visitatori estranei al complesso culturale alpestre. Qui, l’esposizione dei manufatti è capace di ispirare una creatività immaginifica per la quale, indipendentemente dal sapere o dalla formazione personale, il coinvolgimento di chi osserva diventa parte attiva delle esposizioni. Il secondo livello afferisce invece al messaggio prettamente espositivo e museale del rifugio, comprensibile da un minor numero di persone ma in grado di narrare, con decisione, significati maggiormente articolati e relativi all’invenzione culturale delle Alpi. Qui, la collezione fa riferimento alla storia, alla nostalgia e alla lontananza, ma richiamando anche sentimenti condivisi di meraviglia e fascinazione: sottraendo gli oggetti alla dispersione, attraverso il linguaggio dei manufatti e la loro esposizione, il percorso espositivo rende voce al non visibile narrando i processi storici e gli esiti sociali della costruzione culturale delle Alpi.
Sottoponendo la collezione ad un’indagine anatomica diviene possibile esaminare la selezione in quanto terreno di esposizione storicamente determinato, così da individuare gli orientamenti teorici che hanno operato nella raccolta degli oggetti. La collezione del rifugio, strutturata a partire da precise coordinate culturali, emerge come prodotto di un modello culturale così incisivo e poliedrico che ad apparire come autentico ideatore e costruttore dell’edificio non sarebbero i rifugisti (i gestori della struttura) – i quali avrebbero operato unicamente a livello materiale – ma gli stessi processi di inculturazione. Detto in altri termini, i gestori dell’edificio avrebbero affermativamente proiettato le loro personalità, gusti e voleri nell’allestimento del complesso, eppure allo stesso tempo le loro intenzioni sarebbero state profondamente plasmate dai modelli culturali alpini di riferimento. La meraviglia visiva che aleggia attorno ai manufatti esposti permette di disperdere l’attenzione lungo un anfiteatro di oggetti che – declinati a concettualizzare la metamorfosi dello spazio montano nell’immagine del pittoresco alpino – restituiscono l’impressione dello straordinario esito creativo della cultura materiale alpina del tardo Settecento: la densità degli oggetti di cui si parla è legata costitutivamente alle traiettorie storiche, sociali e culturali coinvolte nell’invenzione delle Alpi.
Il rifugio racconta, con una pluralità di voci, la scoperta scientifica delle Alpi, la loro costruzione e la loro trasformazione: i manufatti, impiegati per la ricostruzione di una scenografia tipicamente alpina, parlano con voce remota e settecentesca per raccontarsi a chi è in grado di osservarli. Se quindi si affermasse che il definitivo artefice e creatore del rifugio sia lo stesso processo di invenzione culturale delle Alpi – dal momento in cui le esposizioni rinviano alle circostanze storiche che le hanno prodotte e di cui sono ora l’impronta, e poiché la collezione trasmette i messaggi del suo creatore – allora gli spazi di allestimento potrebbero essere assunti come opera di scrittura e narrazione della memoria.
In questo contesto, risultano calzanti le riflessioni di Alfred Gell nel delineare il processo di attribuzione di agency a quelli che egli qualifica come oggetti artistici: secondo l’autore, le intenzioni elaborate dall’artista nel processo di produzione dei manufatti verrebbero introiettate dagli oggetti stessi e in seguito proiettate sugli spettatori osservanti l’opera, i quali scorgerebbero l’agency contenuto in essi (Gell 1998). Secondo tale prospettiva, la struttura stessa dell’esposizione avrebbe il compito di coordinare e dirigere le proprie modalità di messa in scena, così da fornire dei vettori comunicativi rivolti al pubblico in visita. Gli oggetti diventano quindi dei beni espressivi che, tramite metodi di esposizione, hanno facoltà di esibirsi ai visitatori per essere illustrati e compresi; in tal modo, la collezione esposta ha facoltà di presentarsi come un luogo didattico e di produzione culturale. Nell’inscenare materialmente il pittoresco alpino, il rifugio Montebello avvia, inconsapevolmente, un percorso esplicativo che lo porta a distanziarsi dal profilo di deposito casuale, articolandosi invece come espressione di un’intenzionalità definita. Questo linguaggio espressivo fa dell’operazione espositiva una concreta occasione di pratica narrativa, attraverso la quale diviene possibile ricercare e reperire le trame di un allestimento oggettuale che potrebbe farsi museo nella scrittura e messa in scena dell’esposizione stessa.
Qui, le esposizioni delineano sviluppi storici, offerti come testimonianze di un evento consumato e che manifesta ora le tracce emotive, intellettuali e artistiche di un’epoca già ultimata. Grazie ai segni dell’avvenuto il rifugio ha facoltà di proporre riflessioni sul contemporaneo e sul futuro: il patrimonio oggettuale nonostante raffiguri il passato parla nel presente: «patrimonializzare, mettere in valore, esprime una tendenza sociale a trasformare la memoria in coscienza collettiva, in identità civile; indica un movimenti di appropriazione del passato, una tensione al recupero di storie e tradizioni per esercitare un controllo sociale sul tempo e, soprattutto, sulle sue contemporanee accelerazioni» [15]. Quindi, la collezione si caratterizza per centrare l’attenzione sulle finzioni culturali espresse tramite i reperti sopravvissuti del pittoresco alpino, riattualizzandoli nel contemporaneo secondo finalità di affermazione identitaria. In tal senso, è la stessa espressione espositiva in atto all’interno del rifugio che permette al passato di dialogare con il presente, sottolineando quella apertura al mondo odierno in cui la testimonianza museale produce riflessione e ripensamento rispetto alle certezze e ai canoni sociali assunti. La collezione del rifugio può essere quindi pensata come spazio d’incontro di piani espressivi che, cooperando allo stesso progetto espositivo, trovano l’occasione per organizzare una scenografia etnografica del mondo materiale alpino.
3.2. Visitare il rifugio per vestire i panni del montanaro
Facendo riferimento agli studi raccolti da Luca Ciabarri (2018, 7-35), diviene interessante rilevare come il potere di azione degli oggetti si riverberi sugli esseri umani determinando i loro comportamenti, in quanto l’atto di esposizione muta il patrimonio oggettuale in un bene comune in grado di alimentare negli attori sociali un sentimento partecipato di condivisione e relazione con gli stessi beni materiali. Difatti, il rifugio sembra insistere sulla narrazione sia come mezzo utile al coinvolgimento sociale ed emotivo della memoria delle Alpi, sia come strumento di inclusione e di accesso al patrimonio valligiano in una prospettiva di assimilazione per immersione. La scenografia oggettuale è qui capace di mettere in relazione le esposizioni con altre pratiche di rappresentazione operanti nel contesto sociale del rifugio ed è in grado di favorire – per attori sociali frequentatori del rifugio Montebello – la mutazione di uno stile di vita tipicamente urbano con l’adozione di un temporaneo habitus montagnarde (De Rossi 2014), che nelle riflessioni di Pierre Bourdieu rappresenta l’esperienza incorporata nel corpo socialmente informato da un particolare contesto, un insieme di disposizioni sedimentate che agiscono come principio generatore delle pratiche attraverso cui apprendere e produrre i significati (Bourdieu 1994).
Questo particolare tipo di habitus, realizzandosi per immersione pratica ed esperienziale, produrrebbe azioni e comportamenti coerenti al contesto socioculturale permettendo di esprimere un posizionamento in relazione al complesso di relazioni che costituiscono la realtà sociale dell’ambiente espositivo – qui organizzato secondo specifici codici materiali, pratiche espositive, modalità di insediamento abitativo e un processo di inculturazione profondo. All’interno del rifugio, attraverso l’esperienza che gli individui hanno del contesto, tale processo – condizionato da strutture materiali e manifatturali – plasmerebbe e produrrebbe la percezione che gli stessi hanno dell’ambiente. Tale habitus montagnarde si presenta quindi come elemento nodale per la riproduzione delle pratiche e delle aspettative, in quanto generatore di comportamenti normati e disciplinari che modellano l’esperienza degli attori sociali in rapporto al contesto di permanenza.
Si tratta di una disposizione persuasiva tesa a ispirare azioni di conformità e riconoscimento nei confronti degli attori sociali coinvolti nell’esibizione della cultura materiale. Secondo questa prospettiva, il rifugio ideato sull’estetica esotica del pittoresco alpino, l’arredamento e la scenografia di manufatti favorirebbero la calata nei panni romantici dell’escursionista o dello sciatore [16] e l’atto stesso di entrare nel rifugio diverrebbe una performance, un momento di scambio, comunicazione e condivisione di vita degli oggetti, nonché un atto di integrazione sociale in un particolare campo culturale montanaro. Alla pari di un abito che viene indossato in particolari occasioni o momenti di celebrazione, le esposizioni della collezione si calano sui frequentatori che vengono ammantati dalla loro influenza: si tratta di componenti peculiari del rifugio che rendono densa l’esperienza di visita e rapida l’immersione nella vita alpestre, nonché fruibili quei tratti culturali alpini ampiamente diffusi e alle volte banalizzati.
Fattore non meno importante da evidenziare è che, all’interno del rifugio, l’incontro con il materiale e l’immateriale diviene un’esperienza pratica dei manufatti poiché essi, non essendo rinchiusi in teche ma sperimentati nelle loro dimensioni fisiche e narrative, vengono percepiti a diretto contatto con i frequentatori. Per il visitatore, la rappresentazione esposta risulta in tal modo un percorso non solo fisico ma anche partecipativo e di immersione: il rifugio non parla ‘degli’ oggetti ma lo fa per mezzo di essi, i quali sono veri e propri veicoli di trasmissione narrativa e patrimoniale. Per questa ragione, il patrimonio oggettuale transita da uno stato di raccolta e assortimento ad uno di restituzione attiva di un particolare racconto biografico delle Alpi, il quale prende corpo e diventa strumento di assimilazione che coinvolge in modo partecipativo la collettività. Ne deriva un rifugio-collezione che non è unicamente ambiente di passiva fruizione culturale, ma terreno attivo e dinamico animato da incontri e aggregazioni. Il rifugio, in definitiva, si presenta come una vera e propria fabbrica culturale nel momento in cui – oltre che ad essere luogo di esposizione – si propone come spazio non neutrale in cui gli oggetti definiscono le coordinate identitarie della comunità sociale per la quale si esibiscono.
4. Conclusioni e prospettive per l’integrazione della ricerca
Il rifugio Montebello si evidenzia pertanto come luogo di esposizione e fruizione della memoria culturale dove saperi e tradizioni si intrecciano nella contemporaneità pervasa dalla patrimonializzazione dell’universo culturale alpino (Salsa 2019). In conclusione, la domanda che è necessario porsi è se abbia effettivamente senso proseguire a nominare questo rifugio come ‘museo’ [17]. La struttura esaminata mette in mostra i propri manufatti incentivando l’immersione sociale, favorendo un’esperienza esteticamente ricca ma limitandone una dalle proprietà prettamente informative. Come già sottolineato, la struttura non presenta strumentazioni atte all’esemplificazione e alla comprensione delle opere e le stesse attività di ricerca e di studio connesse ai manufatti non sono previste. In sintesi, il rifugio si mostra come una collezione senza possedere criteri di documentazione volti a risolvere prerogative di stampo informativo affinché un visitatore inesperto possa rapidamente adeguarsi alle regole del gioco museografico.
Il discrimine tra una collezione e un museo riposa precisamente su questo aspetto, cioè nel riconoscimento degli oggetti come esposizioni: un bene museale esiste come tale solo per chi possiede i mezzi per riconoscerlo e decifrarlo (Branchesi 2016: 204). L’assenza di strumenti di decifrazione non facilita quindi la comprensione del significato delle esposizioni ad un pubblico non pratico, il quale tende invece a rimanere unicamente assuefatto dal coinvolgimento emotivo suscitato dalla cultura materiale. Nel rifugio i concetti prettamente esplicativi sono sostituiti da criteri estetizzanti della messa in scena, la quale predilige la spettacolarizzazione delle esposizioni rispetto al possibile apprendimento fornito da esse – assimilabile unicamente da quegli individui che hanno competenze nel medesimo ambito.
Eppure, se l’esigenza di ricezione e decifrazione delle esposizioni suggerirebbe l’inserimento di elementi esplicativi esterni all’atmosfera della struttura, la custodia delle esposizioni obbligherebbe a una loro messa in sicurezza attraverso vari espedienti, spesso ingombranti ed esteticamente discutibili: tali elementi interferirebbero fortemente con la narrazione della struttura, intaccandone il delicato equilibrio espositivo. Qui, può essere utile richiamare il dibattito sulla convenienza dell’impiego di didascalie e supporti di informazione (Fiorio 2018: 217-231), se infatti queste permettono di restituire la corretta interpretazione delle esposizioni, è altrettanto vero che un’ambientazione colma di iscrizioni danneggerebbe la dimensione intima e domestica che caratterizza il rifugio. L’edificio si presenta quindi come maggiormente propenso ad essere categorizzato all’interno dell’ordine delle collezioni etnografiche; eppure, rivela un’intelaiatura narrativa che involontariamente realizza – in termini qualitativi – il linguaggio e le finalità di un’istituzione museale senza averne la forma. La stessa riflessione antropologica su questi prototipi di museologia spontanea può divenire, analizzando le strategie di autenticazione identitaria e culturale messe in atto, una fertile risorsa per interpretare le comunità locali, offrendosi come luogo cardine per l’osservazione dei mutamenti socio-culturali del contemporaneo [18].
Dalle riflessioni proposte, il rifugio Montebello si è presentato come una collezione dinamica, attiva e pulsante, all’interno della quale una forma involontaria di museografia ha preso corpo nell’esposizione della cultura materiale, degli oggetti e dei manufatti. L’edificio, secondo tale prospettiva d’analisi, affiora come un ambiente che unisce in sé la dinamicità sociale propria di un rifugio alpino con la solennità di un museo etnografico. A questo proposito, le definizioni – per quanto elaborate – lasciano sempre margini di incertezza e nessuna tassonomia è in grado di porre ordine in modo risolutivo, quando considerevolmente nei casi incerti dovremmo dar merito alla missione delle strutture piuttosto che sul loro aspetto formale (Faletti, Maggi 2012: 18). Le riflessioni proposte non desiderano risolvere tali tensioni ma evidenziare come tale collezione irrorata da venature di museografia spontanea, anche se non ufficialmente riconosciuta, s’imponga indubbiamente come un patrimonio degno di tutela e meritevole di visita e che analizzare il rifugio secondo una prospettiva museale possa divenire un efficace strumento per il rilevamento delle odierne trasformazioni identitarie e sociali valligiane.
In conclusione, l’articolo desidera inserirsi nel dibattito sui processi di patrimonializzazione in corso nella contemporaneità, proponendo uno studio su di un terreno – di alta quota – ancora poco esplorato dalla ricerca scientifica e accademica italiana. Pur offrendo una parziale panoramica dei percorsi sociali in corso nei rifugi alpini, si sottolinea un’importante tematica, relativa alle dinamiche di mercificazione e di consumo culturale dei processi di patrimonializzazione della cultura materiale alpina, che qui non è stata debitamente affrontata. Il rifugio oggetto di analisi offre numerose opportunità di riflessione su aspetti di ‘nostalgia strutturale’ per il mondo rurale (Meloni 2023), così come sulle dinamiche – tutte moderne e contemporanee – di celebrazione della tradizione e di estetizzazione dell’ordinario; tuttavia, per evitare di appesantire il presente contributo, una trattazione più approfondita sarà rimandata a un futuro lavoro. Le ricerche successive si concentreranno quindi su tali dinamiche, dedicandosi in particolare al processo di costruzione di immaginari e stereotipi delle Alpi globali, aprendo la strada a ulteriori approfondimenti sul contemporaneo in questo ambito di studio.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
[1] Cit. Giuffrè M., Lapiccirella Zingari V., 2010, Oltre il testo, oltre l’intervista. Sguardi etnografici, in M. Pistacchi (a cura di), Vive voci. L’intervista come fonte di documentazione, Roma, Donzelli: 153.
[2] Il motivo della stoffa è caratterizzato dalla rappresentazione di montagne innevate, sciatori, chalet, animali selvatici e fiori intervallati da alberi di abete e cuori stilizzati posti in serie.
[3] La fotografia più grande ritrae Simone Moro, Denis Urubko e Cory Richards in vetta al Gasherbrum II durante la storica prima salita invernale alla vetta del Karakorum. Vi sono altre due fotografie ritraenti Simone Moro sul massiccio del Nanga Parbat, in Kashmir. Vi è una fotografia più piccola, scattata dal campo base del Cho Oyu, e una delle medesime dimensioni che raffigura il gruppo Everest – Lhotse – Nuptse. L’ultima immagine ritrae Tamara Lunger in campo base.
[4] Gli oggetti esposti sono delle fotografie di montagne, gerle in miniatura ricolme di fiori, un orologio a cucù a forma di chalet, ghirlande di rami d’abete intrecciate a cuore, pettorine di gare di corsa in montagna donate da vari atleti e cartelli in legno indicanti la funzione dedicata alla singola area del bar-chalet.
[5] La pratica dell’alpinismo ha prodotto una variegata letteratura atta ad indagare i significati e i valori dell’alpinismo stesso, attività assimilabile al genere del turismo esplorativo ma restia a tassonomie rigide e conclusive: ricerca scientifica, esplorazione, turismo e sport sono contenitori entro cui si tenta, di volta in volta, di incorniciare il fenomeno di corsa alle vette. Secondo una prospettiva antropologica, l’alpinismo non rappresenta esclusivamente solo un fatto sportivo, geografico o di performance corporea ma è prima di tutto una pratica culturale. Non vi è difatti alcuna utilità o logica nel rischiare la vita per arrivare in vetta a una montagna, questo ha luogo perché la pratica alpinistica richiama valori e significati squisitamente culturali e socialmente condivisi: la propensione a scalare le montagne difatti prende corpo in una narrazione che richiama l’agire di tutta la comunità alpinistica. Cfr. Camanni E., 1985, La letteratura dell’alpinismo, Bologna, Zanichelli.
[6] Cfr.: Fabian J., 1999, Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia (1983), Napoli, L’ancora del Mediterraneo.
[7] Il camoscio è stato l’essere che, per via del fascino della pericolosità della caccia, ha maggiormente attenzionato i primi esploratori. Prima della scoperta scientifica delle Alpi, la caccia al camoscio era la causa primaria che spingeva gli uomini ad approcciarsi alle alte quote: per le popolazioni alpine rappresentava una risorsa economica che, tuttavia, imponeva di avventurarsi nel mondo dell’alta montagna, contrassegnata da secoli di tabù (Brevini 2017)
[8] Lo stambecco, i cui attributi fisici additavano lineamenti ritenuti demoniaci, offriva pregiati ingredienti farmaceutici: le imponenti corna alimentarono la credenza che, se tritate, le punte avrebbero dato una cura all’impotenza; il sangue invece era considerato utile contro polmoniti, bronchiti e calcoli vescicali. La credenza che però si rivelò letale per l’animale, fomentando la caccia agli esemplari, fu il presunto potere taumaturgico attribuito a un osso cruciforme posto vicino all’aorta (Brevini 2017).
[9] Letteralmente, dal tedesco, “bianco nobile”.
[10] Per una maggiore trattazione, si veda: Gibello L., 2011, Cantieri d’alta quota. Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi, Biella, Lineadaria.
[11] Le Alpi, così come sono attualmente rappresentate, si rivelano essere frutto di un processo di invenzione culturale. Difatti, esse sono state edificate attraverso un processo binario che vede, da un lato, l’alterazione del territorio alpino attraverso l’azione antropica e, dall’altro, la conoscenza scientifica e artistica che ha consentito la produzione di un immaginario e di una messa in scena delle montagne (De Rossi 2014). Prima della metà del Settecento, a tali alture erano attribuite immagini terrificanti: per secoli si credette che le vette fossero dimora di spiriti demoniaci e l’ambiente alpino, secondo le popolazioni autoctone, era distinto in uno ‘spazio addomesticato’, all’interno del quale erano svolte tutte le attività antropiche, e in uno ‘spazio selvaggio’, considerato regno di potenze oltremondane (Salsa 2007).
[12] A questo proposito, risultano interessanti le riflessioni che guardano ai rifugi alpini – posti all’interno di un fondale paesaggistico alpestre – come un fattore in grado di costituire rilevanza e intensità all’ambiente. Cfr., De Rossi A., 2014, De Rossi A., 2014, La costruzione delle Alpi (1773-1914), Roma, Donzelli; Gibello L., 2017, Cantieri d’alta quota. Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi. Ediz. ampliata, Biella, Segnidartos Edizioni; Dini R., Gibello L., Girodo S., 2018, Rifugi e bivacchi. Gli imperdibili delle Alpi. Architettura, storia, paesaggio, Milano, Hoepli; Dini R., Gibello L., Girodo S.,2020, Andare per rifugi, Bologna, il Mulino.
[13] Lattanzi V., 2021, Musei e antropologia. Storia, esperienze, prospettive, Roma, Carocci: 40.
[14] Cfr.: Di Monte M. G., Carci G., Ludovici E. (a cura di), 2021 Case museo. Tra consonanze e differenze. Ediz. illustrata, Roma, De Luca Editori d’Arte.
[15] Lattanzi V., 2021, Musei e antropologia. Storia, esperienze, prospettive, Roma, Carocci: 53.
[16] Per un approfondimento di contributi scientifici dedicati al tema, si veda: Brusson J.-P., L’invention du chalet. Henry-Jacques le Même, architecte à Megève, in Revue de géographie alpine, tome 84, n°3, 1996: 41-50; Le Même H.-J., Ski Sports d’hiver, «Chalets de skieurs», Nº 40, luglio 1936: 226-229.
[17] Affinché questa collezione si costituisca giuridicamente come museo occorrono diversi parametri essenziali: un’amministrazione di tutela delle raccolte; uno statuto che dichiari lo status giuridico del museo e il progetto emergente da esso, l’assetto organizzativo, le finalità sociali e culturali, gli spazi devono essere adeguati al funzionamento generale del museo; un riconoscimento formale del compito sociale ed educativo della struttura. Cfr. Tomea Gavazzoli M. L., 2011, Manuale di museologia, Milano, Rizzoli: 211-213.
[18] Per una analoga trattazione di alcune linee di valorizzazione museale per collezioni nate spontaneamente in cui gli ideatori attenzionarono più l’esposizione pratica rispetto alla riflessione teorica, si veda: Re A., Alimentare la memoria. Il Museo dell’Arte Cucinaria dell’Alto Livenza (Polcenigo, PN), in Parbuono D., Sbardella F. (a cura di), Costruzione di patrimoni. Le parole degli oggetti e delle convenzioni, Bologna, Pàtron, 2017: 299-330.
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Paolo Carera, laureato magistrale in Antropologia culturale ed etnologia, specializzato nell’ambito dell’antropologia alpina. Membro fondatore del Festival dell’Antropologia – Bologna, ha partecipato a progetti di ricerca Spin-Off in Emilia-Romagna in strutture di riabilitazione. Attualmente è cultore della materia e membro delle commissioni d’esame per il per il settore scientifico disciplinare M-DEA/01 presso l’Università degli studi di Bergamo.
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