di Chiara Dallavalle
L’atto migratorio è per antonomasia un movimento innanzitutto fisico all’interno di un determinato spazio, e lascia tracce profonde sui territori all’interno dei quali esso si realizza. La migrazione fa sì che determinati luoghi siano abbandonati, altri siano attraversati, ed altri ancora siano riempiti dalla presenza dei migranti, in un movimento continuo ben rappresentato dall’immagine del circuito (Rouse 1991).
Se in qualunque fase del proprio viaggio, la presenza dei migranti porta necessariamente dei riassestamenti nell’equilibrio eco-sociale del territorio che attraversano, riassestamenti che non sono necessariamente scevri da fatica e conflitto, questo è particolarmente vero nel caso del loro insediamento in quella che essi identificano come destinazione più o meno definitiva. Nel caso delle migrazioni forzate tale dinamica di incontro/scontro è connotata da una anche maggiore complessità, in quanto il processo di stanziamento dei migranti non è frutto di una scelta precisa di questi ultimi, e nemmeno distribuito nel tempo sulla base di fattori di richiamo quali la presenza di una comunità etnica di appartenenza, né da una forte richiesta di manodopera in un dato settore lavorativo. Al contrario, l’arrivo dei cosiddetti profughi è un processo eterodiretto, non controllabile né dagli autoctoni né dai migranti stessi, che non possono in alcun modo scegliere la destinazione del proprio percorso di accoglienza. Spesso, quindi, questo processo assume i caratteri della territorializzazione forzata, con il rischio di un forte esacerbarsi del conflitto sociale a livello locale.
Tuttavia, al presente nuovi modi di intendere il rapporto tra migranti forzati e territorio locale si stanno facendo strada. Mi riferisco al fatto che i profughi inizino ad essere visti come un’opportunità non solo per contrastare il lento declino demografico a cui è soggetta ormai da decenni la popolazione italiana, ma anche per iniziare un movimento di controtendenza rispetto all’inarrestabile spopolamento di zone rurali e montane. Spopolamento che negli ultimi cinquant’anni non ha avuto conseguenze solo a livello demografico, ma anche in termini di incuria del territorio e conseguente dissesto idrogeologico di parecchie zone d’Italia.
La situazione di abbandono di intere aree rurali negli Appennini e nelle Alpi è stata per buona parte il risultato degli epocali flussi migratori avvenuti nel ventennio 1950-1970, che hanno completamente ridisegnato la fisionomia della penisola. In quegli anni il modello produttivo nazionale subì un’improvvisa crescita, spostando il settore di maggior impiego della popolazione dall’agricoltura all’industria. Questo innescò l’avvio di massicce emigrazioni dalla campagna verso i poli industriali dell’epoca, ovverosia le città del triangolo industriale, ed altri centri minori del Nord Italia. L’esito di tale spostamento, unito alla parallela emigrazione verso l’estero, fu il rapido spopolamento delle zone rurali, soprattutto di quelle montane, e la conseguente drastica diminuzione della popolazione impiegata in agricoltura (Ginsborg 1989: 296). Questo processo interessò maggiormente le regioni del Sud Italia, lasciando interi paesi quasi completamente abbandonati. Il fenomeno dello spopolamento interessò, tuttavia, anche molte regioni del Nord, che ancora oggi hanno ampi settori delle proprie zone montane scarsamente abitati.
In tempi più recenti questo trend sembra finalmente aver invertito senso di marcia, e attualmente si assiste ad un movimento opposto, che vede sempre più persone lasciare i centri urbani per trasferirsi in campagna. Questa tendenza sembra essere il frutto di un processo legato a due fattori principali. Il primo ha senza dubbio a che fare con gli effetti della crisi, che ha reso sempre meno disponibili i classici lavori nell’industria e nel settore dei servizi. Al contrario, e in controtendenza rispetto al passato, l’agricoltura risulta essere uno dei pochi, se non l’unico, settori economici attualmente in crescita. Secondo la Coldiretti, questo è il risultato di una molteplicità di fattori, tra cui anche gli sforzi fatti dalle istituzioni pubbliche per la costruzione di un nuovo modello agricolo, che non fosse orientato verso la semplice produzione ma stimolasse anche ambiti quali la tutela ambientale, l’ottenimento di certificazioni alimentari di eccellenza e il risparmio energetico [1].
Le maggiori possibilità di trovare una collocazione lavorativa in agricoltura, si intrecciano con la crescente insoddisfazione che un numero sempre maggiore di persone prova nel vivere in zone altamente urbanizzate, in condizioni di vita stressanti e qualitativamente basse. Da qui spesso la scelta di un cambio di vita radicale, con un’emigrazione al contrario, verso contesti abitativi più “umani”. Un esempio di questo cambiamento culturale è testimoniato dalla nascita e diffusione dei cosiddetti ecovillaggi, gruppi di persone che scelgono di vivere insieme, secondo uno stile di vita sostenibile e fondato su relazioni di reciprocità e sostegno [2].
Al di là delle scelte personali che spingono singole persone o interi gruppi al trasferimento in zone rurali, sempre più frequente è anche il caso di enti locali che promuovono politiche istituzionali finalizzate all’incentivazione del recupero dei territori abbandonati. L’obiettivo dei legislatori locali è proprio quello di riscoprire il potenziale del proprio territorio, centrando su di esso azioni di mobilitazione sia della comunità locale sia di eventuali soggetti esterni potenzialmente interessati a rivalorizzarlo. Molti sono, ad esempio, i Comuni che cedono immobili abbandonati a singoli ed associazioni in cambio dell’impegno a ristrutturali e a farne la propria sede di residenza stabile.
Tra le politiche locali di ripopolamento, molte intendono fare leva proprio sulle potenzialità insite nei recenti flussi migratori, che vengono quindi visti finalmente come risorsa. Al presente già un numero statisticamente significativo di stranieri risulta residente in territori montani [3]. Molti di essi sono arrivati in quelle zone in modo autonomo, trovando una collocazione lavorativa in attività produttive locali. Se già il radicamento di questi nuovi arrivati ha sollecitato una riflessione importante sul ruolo dell’immigrazione per ridare nuova linfa vitale al tessuto socio-economico di queste aree, ad oggi un elemento di maggiore complessità, ma anche di innovazione, è rappresentato dalla presenza sempre più consistente anche dei migranti forzati.
Le vicende dell’ultimo decennio ci hanno infatti mostrato in modo ormai inequivocabile quanto le politiche di accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo nel nostro Paese incontrino forti limiti proprio nella fase di integrazione socio-economica. L’inserimento lavorativo di queste persone, purtroppo fortemente limitato dalle condizioni economiche sfavorevoli create dalla crisi, appare ancora più complesso all’interno dei grandi centri urbani, laddove i costi della vita e la mancanza di politiche abitative efficaci rendono molto difficoltoso il processo di radicamento. Lo SPRAR, la rete nazionale di accoglienza dei rifugiati promossa dal Ministero dell’Interno, ha da subito intuito la grande potenzialità di un inserimento diffuso sul territorio anziché concentrato nelle aree metropolitane, privilegiandolo anche attraverso il finanziamento di strutture di accoglienza di piccole e medie dimensioni diistribuite in modo capillare su tutto il suolo nazionale. In questa prospettiva, SPRAR ha infatti significativamente incentivato la creazione di sinergie e reti territoriali nei territori montani, puntando proprio sulla comunità locale come leva positiva per un’accoglienza integrata ed efficace.
L’intuizione dello SPRAR è stata fatta propria da un numero sempre maggiore di realtà locali, che iniziano a vedere i migranti forzati non più come un peso bensì come una potenziale risorsa. Ad esempio, la Regione Piemonte ha varato nel 2015 il piano regionale per l’accoglienza dei flussi non programmati per il periodo 2014-2020, attuativo del relativo piano operativo nazionale finalizzato a fronteggiare il flusso straordinario di cittadini extracomunitari. Tra i punti centrali di questo documento si trova anche il ripopolamento dei territori montani soggetti ad abbandono, che viene posto come obiettivo delle azioni integrate di Regione ed enti territoriali. Viene così riconosciuto alla montagna un ruolo propulsivo nel promuovere nuove pratiche di integrazione [4].
La presenza dei migranti in questi territori andrebbe incontro alla duplice necessità del loro collocamento lavorativo da un lato, e della rivitalizzazione di quei settori di impiego ormai quasi completamente abbandonati, e oggi invece al centro di svariati tentativi di recupero. Si pensi ad esempio all’antico mestiere legato alla manutenzione dei terrazzamenti in Liguria, un lavoro sicuramente molto duro, ma fondamentale per poter svolgere attività agricole su terreni scoscesi e difficilmente raggiungibili da mezzi meccanici. L’abbandono di queste antiche pratiche ha portato ad una progressiva incuria dei pendii, che contribuisce all’aumento del rischio idrogeologico. I rifugiati si configurano quindi come un’opportunità per riscoprire le radici contadine di molte zone d’Italia, ed al tempo stesso instaurare buone pratiche di recupero e valorizzazione del territorio locale.
L’inserimento dei migranti forzati non è tuttavia scevro da possibili criticità, che vanno assolutamente prese in conside- razione per evitare di farsi trascinare da un’ondata di ingenuo ottimismo che rischierebbe di effettuare interventi non adeguatamente calibrati. Il primo ri- guarda sicuramente il fatto che, come già precedentemente segnalato, l’arrivo dei migranti forzati nelle zone montane non è frutto di una scelta migratoria volontaria bensì è solitamente etero-determinato. Anche la popolazione locale spesso subisce passivamente trasferimenti massivi di profughi, che in zone scarsamente abitate ha il risultato di vedere piccoli centri abitati da poche centinaia di persone letteralmente invasi dai migranti. Questo ha un impatto molto forte sul tessuto sociale locale, con il rischio di aumentare il livello di tensione e conflittualità, e quindi andare nella direzione esattamente opposta a quella di un’integrazione efficace. Qualunque politica di insediamento dei migranti forzati in zone scarsamente popolate non può quindi prescindere dal coinvolgimento degli autoctoni e dal rendere questi ultimi agenti partecipi di un’accoglienza attiva, piuttosto che i semplici e passivi ricevitori di scelte istituzionali prese ad altri livelli.
Da questo punto di vista l’arrivo dei migranti forzati potrebbe invece rappresentare l’occasione per promuovere nuove forme di coesione sociale, e di welfare di comunità, dove stranieri e autoctoni insieme possano sperimentare nuove modalità di vicinanza e scambio. Questo potrebbe avere delle ripercussioni positive anche sul modo delle popolazioni locali di rappresentare il sentimento di identità e appartenenza verso il proprio territorio. In passato, lo spopolamento delle zone montane era stato accompagnato anche da una perdita delle radici culturali locali, provocando un vero e proprio declino anche di un corpus di tradizioni folkloriche fondamentali per alimentare un sentimento di appartenenza alla comunità. Attualmente si sta assistendo ad una riscoperta dei legami con l’eredità culturale del passato. È quindi da chiedersi che ruolo possano giocare gli immigrati in questa sorta di rinascita culturale.
In questo senso, il Comune di Riace offre un’interessante prospettiva. Riace si trova nella Locride, non molto lontano da grandi centri di prima accoglienza quali quello di S.Anna ad Isola di Capo Rizzuto. Quando i migranti hanno iniziato ad arrivare nella zona, gli abitanti di Riace non superavano le 400 unità. L’amministrazione comunale scelse quindi di sistemarli nelle vecchie case abbandonate del centro storico, ottenendo fondi per il loro restauro e dando così il via ad un circolo virtuoso che, nell’arco di pochi anni, ha portato ad una vera e propria rinascita del paese. L’aspetto interessante di questo processo è sicuramente il fatto che l’arrivo dei profughi ha rappresentato l’occasione non solo per promuovere lo sviluppo economico della zona attraverso l’avvio di nuove realtà artigianali in cui gli stessi migranti vengono occupati; ma anche per articolare il sentimento di identità della popolazione locale attorno al tema dell’accoglienza e della solidarietà (Zavaglia 2012). Da città dei Bronzi, Riace ha iniziato ad essere indentificata come città dell’accoglienza, cosa che ha dato il via all’arrivo ad un turismo attratto proprio da questa nuova caratterizzazione del paese. A Riace il recupero della cultura locale è stato quindi realizzato attraverso un processo che ha visto coinvolti migranti e autoctoni in ugual misura, e che ha contribuito ad una ridefinizione identitaria del territorio decisamente innovativa, tanto che anche altri Comuni si stanno interrogando sulla possibilità di replicare nelle proprio zone il modello della cittadina calabrese.
Il caso di Riace – e il fatto che sia di ispirazione anche per altri enti locali – mostra come nel nostro Paese siano all’opera diverse sperimentazioni, in cui migranti e autoctoni vengono coinvolti nel processo di recupero dei territori abbandonati. Un segnale, questo, che arricchisce l’acceso dibattito sulla controversa presenza dei profughi in Italia, offrendo una prospettiva in cui questi ultimi non siano più visti solo come un peso ma anche come una risorsa e un’occasione di crescita per i territori in cui andranno a stabilirsi.
Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
Note
[1] http://www.coldiretti.it/News/Pagine/395—6-Giugno-2016.aspx.
[2] La necessità di un maggiore coordinamento tra queste realtà ha portato alla nascita di una vera e propria rete degli ecovillaggi denominata RIVE. È possibile trovare maggiori informazioni al link http://ecovillaggi.it/
[3] Gli stranieri residenti nei Comuni appartenenti alla Convenzione delle Alpi, si attestano intorno alle 350.000 unità, secondo i dati pubblicati dalla rivista online Dislivelli. Ricerca e Comunicazione sulla Montagna n. 64/2016:8.
[4] Nello specifico il Piano regionale per l’accoglienza dei flussi non programmati 2014-2020 stabilisce che: «È obiettivo della Regione promuovere attraverso gli assessorati competenti e l’Uncem azioni volte a favorire il ripopolamento dei borghi abbandonati in terreni alpini e più in generale areesoggette a fenomeni di abbandono residenziale coinvolgendo i migranti». Infatti, secondo il Rapporto Montagne Italia, la montagna mostra una capacità diversa di accogliere e ospitare i nuovi flussi di migrazione, sino a fare degli stranieri una componenterilevante delle forze di lavoro. La montagna italiana, in moltissimi Comuni, oggi è un luogo dove si sperimentano politiche di integrazione e un nuovo welfare di comunità̀. Il trend demografico in Piemonte non è negativo perché́ ci sono decine di immigrati chevengono integrati per iniziativa delle amministrazioni e dei welfare di comunità̀ locali. Oggi nelle aree montane e rurali c’è̀ un’evidente capacità di integrazione” (D.G.R. n.3-2013 del 5.8.2015, pubblicata sul Bollettino Ufficiale n.36 del 10.9.2015, supplemento ordinario n.1.
Riferimenti bibliografici
D’Agostino, M. F., 2011, ‘Legalità e territorio. I confini mutevoli della legalità. L’esperienza dei rifugiati in Calabria tra politiche di esclusione e nuove forme di reciprocità’. Relazione al Convegno Politica, mercato e costruzione sociale della legalità, organizzato dall’Associazione Italiana di Sociologia, in collaborazione con l’Università della Calabria, Cosenza 19-20 settembre 2011.
Ginsborg, P., 1989, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino
Rouse, R., 1991, “Mexican Migration and the Social Space of Postmodernism”, in Diaspora 1(1) (Spring 1991): 8-23.
Viazzo, P. P., Zanini, R.C., 2016, “Stranieri ed Innovazione culturale nelle Terre Alte”, in Dislivelli. Ricerca e Comunicazione sulla montagna n.64/2016:8-9. Rivista online disponibile al link http://www.dislivelli.eu/blog/immagini/foto_febbraio_2016/64_WEBMAGAZINE_febbraio16.pdf
Zavaglia, P. D. , 2012, “Bronzi che vanno, migranti che vengono. Introduzione a uno studio dell’accoglienza ai rifugiaticome pratica di auto-rappresentazione identitaria. Il caso di Riace”, in HUMANITIES 1 (2): 134-147.
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Chiara Dallavalle, già Assistant lecturer presso National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia culturale, è coordinatrice di servizi di accoglienza per rifugiati nella Provincia di Varese. Si interessa degli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
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