di Marcello Sajia [*]
La Meade più famosa è sicuramente Margaret Meade. Molto prima che tuttavia questa lo diventasse, sua madre, Emily Fogg Meade era divenuta familiare alla popolazione di Hammonton, New Jersey, per aver lì condotto, nel 1907, uno studio relativo all’immigrazione italiana. Pioniera della sociologia, e militante contro le ingiustizie sociali [1], Emily Fogg Meade aveva avuto l’incarico di tale indagine dal Ministero del Lavoro degli Stati Uniti – U. S. Department of Labor – ed aveva consegnato un rapporto dal titolo: “Gli Italiani sulla Nostra Terra: uno studio sull’immigrazione”.
Ottantacinque anni dopo, la Hammonton Historical Society ha ristampato questo studio con il preciso scopo di tramandare l’esperienza degli italiani che lì si stabilirono come immigrati [2].
Nel 1907 noi siciliani avevamo già alle spalle quasi cinquanta anni di emigrazione e l’esperienza che gli americani avevano avuto di noi era molto variegata e complessa. Avevamo sostituito gli schiavi neri del Sud nelle grandi piantagioni di cotone con massicce spedizioni di contadini cefaludesi e dell’entroterra palermitano, imbarcati dalla mafia degli agrumi di stanza a New Orleans [3]. Avevamo imposto agli irlandesi (che lì erano prima di noi), il nostro modo di essere cattolici; ma soprattutto abbiamo accettato di fare il loro lavoro a salari più bassi. Avevamo subìto già significativi eventi generati dall’impetuoso vento razzista che sinistramente aveva soffiato a New Orleans nel 1892 e pochi anni dopo a Tallulah con spaventosi ed ingiustificati eccidi. Avevamo però variamente affermato nelle worktown industriali il nostro valore di lavoratori indefessi.
A partire dagli ultimi anni dell’800, però, le voci ufficiali contro di noi si erano moltiplicate fino alla cruda affermazione del vecchio generale Francis A. Walker[4] che poco prima di morire, nel 1896, aveva affermato:
«Non hanno in alcun modo quelle inclinazioni innate e quelle attitudini che hanno reso relativamente semplice avere a che fare con l’immigrazione dei periodi precedenti. Questi sono individui sconfitti, appartenenti a razze perdenti, i peggiori esempi di fallimento nella lotta per l’esistenza».
Una sentenza senza appello quella del generale che però, nonostante fosse espressa da un economista molto noto anche per le sue vittorie nella guerra civile, non trovava, almeno per il momento, unanime accoglienza. Nella società civile e nelle istituzioni non erano pochi coloro che avevano posizioni opposte ed altri aspettavano a giudicare.
In verità, ciò che metteva in evidenza Walker e che faceva maggiormente discutere il Congresso era il rapporto tra la vecchia emigrazione (quella di provenienza strettamente anglo-britannica e tedesca) e la nuova, proveniente dal Sud e dall’Est Europa. Nel decennio 1890-1900, nonostante il fatto che la prima costituisse ancora l’80,2% del flusso e la seconda appena il 19,8% si era già manifestata una tendenza alla inversione di tendenza che si sarebbe poi percepita chiaramente nel decennio successivo dove la vecchia immigrazione aveva fatto registrare un rapidissimo calo al 48,4%, mentre la nuova aveva già raggiunto il 51,6%.[5]
Ora, nella società statunitense era radicata l’idea che unità e identità americana potevano essere costruite soltanto intorno ad un centro etnico di razza anglosassone e la crescita di immigranti del Sud e dell’Est Europa rendeva tale prospettiva sempre più illusoria. Ed era diventata questa la radice più corposa dell’incipiente razzismo.
In questo clima, nel 1907 l’U. S. Department of Labor dà incarico alla sociologa Emily Fogg Meade di fare uno studio sull’Immigrazione degli italiani in America per stabilire con un’analisi sul campo la loro effettiva volontà e capacità di integrarsi e la corretta analisi costi/benefici della loro presenza.
La scelta del territorio da analizzare cade su Hammonton nella Contea di Passaic (New Yersey), una vasta area fino a metà ‘800, ricoperta di pini che in quarant’anni era stata quasi interamente disboscata dagli italiani e destinata a colture pregiate prevalentemente di frutti di bosco. Gli italiani in questione erano quasi tutti meridionali e siciliani in particolare. Proprio quelli considerati dagli americani “not quite black but…..” ,proprio quelli che – sottolinea la Meade –
«i giornali giudicano pericolosissimi mettendo in evidenza quanto sia pericoloso accoglierli. Si afferma che sono sottonutriti, venuti su male, spesso malati, privi di qualunque abilità, analfabeti, inerti, mancanti di senso di responsabilità, gravati da un acuto senso di inferiorità e dalla mancanza di capacità di elaborare situazioni nuove; che il loro tenore di vita è basso e che essi non tendono ad innalzarlo neanche se la loro situazione economica migliora; e, soprattutto, che prevedibilmente graveranno su strutture pubbliche quali ospedali, manicomi, o case di accoglienza. Non sono i forti e gli indipendenti quelli a venire – scrivono ancora i giornali –, ma i deboli e gli incompetenti, per i quali l’immigrazione è favorita dagli incentivi offerti dalle compagnie di navigazione. Questa gente si ammassa in gruppi nelle nostre grandi città, complicando i problemi delle autorità municipali. ….. Sono soltanto stranieri sporchi, bassi, che spingono con lentezza organetti ambulanti montati su ruote, spazzano le strade o lavorano nelle miniere, nei trafori di tunnel, sui binari e in altre misere occupazioni. I giornali – conclude la Meade – sono pieni di storie shoccanti di scontri a colpi di stiletto, e di colpi vigliaccamente inferti alla schiena, o di bande organizzate di italiani criminali che non potranno mai elevarsi nella scala sociale come hanno fatto immigrati di altra nazionalità».
Com’è evidente si tratta delle medesime argomentazioni espresse dal generale Walker dieci anni prima e, anche se notevolmente enfatizzate ad arte, descrivevano buona parte del malessere delle periferie urbane. Tuttavia – ed è la tesi della Meade – questi comportamenti devianti non possono costituire l’unico elemento di valutazione su uomini che, venuti in America per cercare di migliorare la propria posizione, sono probabilmente, in gran parte, gli stessi che subiscono il degrado dei grandi agglomerati urbani. La studiosa spiega perché gli italiani meridionali e i siciliani in particolare scelgono di andare nei suburbi dove trovano accoglienza da parte dei compaesani ed occasioni di lavoro generico senza necessità di dimostrare la conoscenza della lingua inglese. Essi – sostiene la Meade – vengono da una realtà con forti residui feudali e per questa ragione fuggono dai lavori agricoli retaggio per loro di un passato tristissimo. Così facendo, però, sprecano l’abilità acquisita nei mestieri della terra che rappresenta il capitale più prezioso di cultura materiale che si sono portati appresso.
Messi, però, nelle condizioni di utilizzare queste conoscenze – sono queste le conclusioni della sociologa – la loro presenza sul territorio americano è straordinariamente preziosa. Ed è l’assunto dimostrato dal caso Hammonton che, nel 1907, a quarant’anni dai primi insediamenti, vede gli italiani vivere una vita dignitosa e per alcuni anche agiata a fianco dei nativi americani di discendenza anglosassone.
Cosa era successo ad Hammonton? Era successo che dopo i primi arrivi negli anni settanta dell’800 di due contadini provenienti da Gesso, un piccolo villaggio peloritano di Messina, una catena di richiamo aveva portato in America una quantità enorme di gente del medesimo paesello. Costoro, nel tempo, avevano svuotato il luogo di origine di metà dei suoi abitanti ed erano divenuti protagonisti di una storia di grande civiltà. Avevano inizialmente lavorato per altri disboscando e coltivando frutti di bosco. Poi, avevano comprato piccole proprietà ingrandendole e accompagnandole con la costruzione di case dignitose. La favorevole vicinanza dei mercati delle grandi città aveva fatto il resto dando a tutti gli uomini di buona volontà occasioni di crescita economica e sociale.
Com’è subito evidente a chi legge il lavoro della Meade, l’autrice utilizza a piene mani gli strumenti dell’analisi storica e sociologica ma sceglie intenzionalmente di porgere la sintesi dei risultati esclusivamente sul piano economico perché si rende conto che solo facendo leva sull’utilitarismo degli americani era possibile affermare le sue opinioni.
Non sappiamo se sia l’U. S. Department of Labor a scegliere il caso da analizzare o la Meade ad individuare il campione. Quale che sia la verità al riguardo, tuttavia, riteniamo che l’analisi della sociologa americana abbia diretta influenza sui lavori della Commissione federale per lo studio dell’immigrazione che il Congresso insedia il 2 febbraio 1907 e che svolge le sue indagini in epoca coeva, presentando poi rapporto al 61 Congress il 5 dicembre 1910, vale a dire un anno dopo la consegna ufficiale del lavoro di Emily Meade.[6]
In ben 42 volumi intitolati “Brief statements of investigations of the Immigration Commission with conclusions and recommendations”, la Commissione Dillingham, delude i perbenisti, non adottando alcuna misura drastica di chiusura contro gli italiani, limitandosi, invece, a sottolineare il pericolo della crescente congestione delle città.
Sull’esempio della Meade, la Commissione suggerisce la necessità di un’equa distribuzione dei migranti sul territorio e soprattutto afferma il principio che la legislazione sull’immigrazione avrebbe dovuto poggiare su valutazioni di carattere economico e finanziario e che lo spostamento dai centri urbani alle campagne della manodopera avrebbe garantito l’espansione dell’industria sconfiggendo il pericolo di un abbassamento del livello dei salari e delle condizioni d’impiego. Tale concetto trova poi pregnante motivazione nel dato sottolineato più volte dalla Meade che i migranti meridionali portati nelle campagne, avrebbero dato all’America il vantaggio di trarre profitto dal prezioso patrimonio di conoscenze agrarie di cui erano portatori.
Leggere le pagine di Emily Meade, in definitiva, è particolarmente interessante non solo sotto il profilo della preziosa testimonianza che fornisce sul piano storico, ma anche e soprattutto per la stretta attualità del fenomeno che interessa l’intera Europa ed il nostro paese in particolare. Molti oggi si affannano a dire:
«Sì, va bene ma la nostra emigrazione era tutta un’altra cosa. Noi eravamo voluti e anzi richiesti dagli americani. Questi invece, nessuno li ha invitati. Vengono contro la nostra volontà e sono quello spettacolo che tutti i giorni vediamo per le strade».
Il giudizio è prima di tutto errato sul piano storico perché come benissimo chiarisce la Commissione Dillingham il governo americano non provoca l’immigrazione ma si limita, almeno inizialmente, a non porre ostacoli agli incentivi offerti dagli agenti di viaggio del Sud e dell’Est Europa. Costoro vendono biglietti della traversata oceanica in sodale contatto con i boss del lavoro che costituiscono il vero motore dell’emigrazione di massa[7]. Giunti in America gli emigranti, ammessi inizialmente con controlli piuttosto superficiali, a partire dal 1892, vengono vagliati e selezionati ad Ellis Island secondo criteri predefiniti e, a partire dai primi anni venti, accettati con grandi limitazioni di quote e di capacità.
E cosi, trasferendoci all’oggi, la domanda urgente e conseguente che il libro pone è: perché così non potrebbe essere per questi uomini e donne che, come gli italiani nell’America di allora, vengono adesso per cercare di migliorare le proprie condizioni di vita?
I nostri connazionali sono stati una opportunità per gli americani e hanno contribuito non poco a far crescere il loro Paese e riteniamo che, in modo similare, gli africani possono e devono rappresentare un’opportunità per noi. Dobbiamo solo vincere i pregiudizi e deciderci a considerarli una risorsa salvifica capace di rivitalizzare una società come la nostra, in netta decrescita demografica che perde ogni anno un giovane su tre a favore di altre parti del mondo. Il caso di Riace, del resto, ha mostrato all’intero mondo le virtù dell’apertura ai migranti e i dati ufficiali dell’INPS mostrano già da ora che le pensioni agli italiani sono possibili grazie ai contributi degli immigrati regolarizzati.
I detrattori insisteranno contestando che, mentre i nostri contadini avevano una cultura compatibile e interna alla civiltà occidentale che trovavano in America, gli africani presentano corpose differenze che rendono difficile l’integrazione. In buona misura questa argomentazione, sfrondata dai caratteri della propaganda polemica, ha una base reale. È difficile per noi accettare infibulazioni e donne velate. Su questo piano, però, per trovare una via d’uscita è necessario rifarci a ciò che negli esperimenti chimici chiamano “resilienza”. L’incontro di elementi diversi che determina la recessione dei caratteri incompatibili fino a raggiungere l’equilibrio in un composto che salva tutto il salvabile. Gli arabi vivendo in Sicilia nei secoli dell’Alto Medioevo nell’incontro con le culture del Paese ospitante hanno gradatamente abbandonato la sharia preferendo rapportarsi con gli altri ma anche tra di loro con le regole del diritto romano. E ben altro è infine nato dall’incontro delle culture arabe e normanne i cui magnifici prodotti artistici sono tutt’oggi visibili nelle città siciliane. E allora, per banalizzare, ma non troppo: no all’infibulazione e sì al cous-cous e ci avviamo con serenità al futuro multietnico della società in cui, vogliamo o non vogliamo, presto vivranno i nostri figli.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
[*] Il testo è una delle note introduttive al volume di Emily Fogg Mead, Gli Italiani nel nostro Paese: uno studio sull’immigrazione, che pubblicato per la prima volta nel maggio del 1907 sul Bollettino n. 70 del Dipartimento del Lavoro di Washinghton, sarà ristampato in traduzione italiana a cura di Francesca La Maestra, dalla casa editrice Pungitopo. Il volume, in libreria da ottobre, recherà in appendice un altro studio della figlia antropologa Margaret Meade. Si pubblica in anteprima per gentile concessione dell’editore.
Note
[1] In varie occasioni Emily Fogg Meade , nel corso della sua vita aveva condotto battaglie, a New York e a Philadelphia, contro Compagnie industriali della portata e del potere della Standard Oil, della Telephone Company, della Tammany Hall, e contro l’apparato politico del senatore Vare.
[2] si veda Emily Fogg Meade, Gli italiani nel nostro Paese: uno studio sull’immigrazione in “Bollettino del Dipartimento del lavoro”, n 70, Washington maggio, 1907, ristampa a cura della Hammonton historical society, Hammonton, New Jersey, maggio 1992.
[3] Si rinvia al volume oggi in corso di definizione a cura di chi scrive su La grande migrazione dei siciliani verso l’America (1868-1924)
[4] Francis Amasa Walker ( 2 luglio 1840-5 gennaio 1897) è stato un economista, giornalista, educatore e militare di alto grado nell’esercito nordista americano. Nasce in una importante famiglia di Boston dal noto economista e politico Amasa Walker. Si laurea all’Amherst College all’età di 20 anni e si arruola nel 15th Massachusetts Infantry, percorrendo tutti i gradi fino a diventare assistant adjutant general. Combatte nella Peninsula Campaign, nella battaglia di Chancellorsville e successivamente nelle azioni militari di Bristoe, Overland e Richmond-Petersburg. Viene poi catturato dalle forze confederate e tenuto prigioniero nella tetra prigione di Libby. Nel luglio 1866, quando aveva 25 anni, riceve il brevetto di brigadiere generale dei volontari dell’esercito da parte del Presidente Andrew Johnson che gli viene confermato dal Senato degli Stati Uniti. Finita la guerra fa il giornalista allo Springfield Republican e poi nel 1869 assume l’incarico di dirigere il Bureau of Statistics. Nel 1870 diventa Sovrintendente al Censo e pubblica per la prima volta in America la Statistical Atlas visualizing. A seguire nel 1872 comincia ad insegnare economia politica alla Yale University’s Sheffield Scientific School e ricopre per diversi anni incarichi dirigenziali e di prestigio alla Philadelphia Exposition (1876) alla International Monetary Conference (1878). Nel 1882 diventa Presidente dell’American Statistical Association e nel 1886, primo presidente dell’American Economic Association e vice presidente della National Academy of Sciences. Nel 1890 pubblica il censimento del 1880, un’opera in 22 volumi che lo incorona come il più noto statistico d’America. Nel 1881 diventa presidente del prestigioso Massachusetts Institute of Tecnology incarico che terrà fino alla morte che interviene nel 1897.
[5] Roy L. Garris, Immigration resstriction, The Mac Millan Company, New York 1927: 205
[6] La commissione era stata composta da tre senatori, tre deputati e la presidenza era stata affidata al senatore William Dillingham. Sui lavori dell’organismo si veda Edward P. Hutchinson, legislative history of american immigration policy 1798-1965, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1981: 142-143.
[7] Edward P. Hutchinson, legislative history of american immigration…cit:143. Sul meccanismo di reclutamento della manodopera in America correlato al sistema del prepajed ticket per il passaggio transoceanico e il ruolo dei bosses del lavoro ci permettiamo di rinviare al libro oggi in corso di pubblicazione, La grande emigrazione siciliana in America; chi scrive sta dedicando un libro oggi in corso di pubblicazione.
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Marcello Saija è titolare della cattedra di Storia delle istituzioni politiche presso l’Università degli Studi di Palermo e Direttore, presso lo stesso Ateneo, del Dipartimento di Studi Internazionali, Comunitari, Inglesi ed Angloamericani. Dirige, inoltre, la Rete dei Musei Siciliani dell’Emigrazione. Tra le sue numerose pubblicazioni, si segnalano: La Colonia Trinacria in Paraguay, 1897-1908, Trisform, Messina 2010; Gaetano Martino 1900-1967, con A. Villani, prefazione di G. Napolitano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011.
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