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Rileggere Yizhar

testo-recensitodi Sabina Leoncini 

Maggio 1949. Khirbet Khizeh è un immaginario villaggio palestinese. Ad un gruppo di soldati del neonato Stato di Israele (14 maggio 1948) viene dato l’ordine di liberare il villaggio dagli abitanti arabi/palestinesi. A narrare l’esecuzione dell’ordine operativo è S. Yizhar, pseudonimo di Yizhar Smilansky. Insieme a lui prendono pian piano forma gli altri personaggi della storia, Shmulik, Gabi, Moyshe, Ariè, Shaul, Yehuda e il radiotelegrafista (unico personaggio al quale non ci si riferisce mai per nome) con i quali Yizhar inizialmente ride e scherza, condivide pasti e pensieri ma poi si troverà a discutere non appena assumerà coscienza di ciò che sta realmente succedendo.

La storia inizia con un flashback del narratore che confessa al lettore che nonostante sia passato molto tempo il ricordo degli eventi di quel periodo è ancora nitido. «Ho cercato di smorzarlo nel fluire delle cose; sono riuscito talvolta, con una lucida alzata di spalle, a concludere che quella faccenda non era stata, in fin dei conti, così tremenda, compiacendomi della mia indulgenza che, come si sa, è il vero sale della saggezza»[1].

A distanza di sessant’anni anche Ari Folman fa iniziare il suo pluripremiato film “Valzer con Bashir” [2] con un flashback che parte da un incubo ricorrente che sveglia in piena notte Boaz Rein-Buskila, un suo ex-commilitone. Nel sogno 26 cani lo vogliono uccidere [3], ciò lo porta a cercare tra altri ex soldati i ricordi che gli permettono di ripercorrere la narrazione della guerra in Libano del 1982 in cui era stato arruolato nella fanteria dell’IDF (Israeli Defence Forces) ed era stato testimone oculare del massacro di Sabra e Chatila. Khirbet Khizeh viene descritto come un villaggio di poche abitazioni dove vivono donne, bambini, anziani, alcuni dei quali con disabilità. Nell’ordine ricevuto dal plotone di cui fa parte Yizhar viene precisato dall’autore che «si dovevano radunare gli abitanti a partire dal tale punto fino al punto tal altro, caricarli sui camion e trasferirli oltre le nostre linee, far esplodere le case di pietra e bruciare le capanne di argilla, arrestare i giovani e i sospetti, ripulire il territorio da forze ostili»; inoltre che «si dovesse eseguire l’incarico con fermezza e precisione” e che “non dovevano essere tollerati disordini o comportamenti brutali» [4].

Attraverso le parole del narratore si riesce ad immaginare la bellezza di un terreno descritto come verde e rigoglioso, che era stato ben tenuto dai fellahin [5] locali, ricco di orti con verdure da raccogliere e animali da allevamento; da ciò emerge la passione di Yizhar per la geologia e la geomorfologia. La narrazione prosegue con la descrizione delle operazioni tecniche dell’evacuazione civile, dello scoppio di piccoli ordigni e degli spari delle mitragliatrici per intimare la popolazione ad allontanarsi. Questo stesso terreno descritto inizialmente come un insieme di campi verdeggianti, di frutteti fitti di ombre, di siepi che ritagliavano il terreno in sagome tranquille e distanti, di colline multiformi che nascondevano e rivelavano orizzonti lontani, azzurrini [6], diventano sul finale un’oasi di pace violata, sul finire di un conflitto dilaniante, in cui tutti gli sforzi dei contadini sarebbero andati perduti.

Soldati israeliani, 1948

Soldati israeliani, 1948

La tristezza di Yizhar è quella di colui che osserva aridità, rovi e un “urlo di steppa”. Come se fosse la terra stessa a reclamare l’abbandono di chi se ne prendeva cura fino a quel momento, in balia di un nuovo padrone, in cui i campi saranno di nuovo arati e mietuti e saranno «compiute grandi opere». Nessuno penserà mai che prima c’era una Khirbet Khizeh la cui popolazione era stata cacciata e di cui «noi ci eravamo impadroniti?»[7]

 In un saggio di appena ottanta pagine emergono temi fortissimi ancora oggi molto attuali [8], come quello dell’esilio che l’autore arriva a definire tale solo verso il finale del libro. «Come in un lampo mi fu chiaro. Tutto improvvisamente mi sembrò diverso, più preciso. L’esilio, ecco, questo è l’esilio. È così che accade. Non potevo restare fermo. La terra mi bruciava sotto i piedi» [9].

Yizhar, scomparso nel 2006, poco conosciuto nel nostro Paese è stato molto popolare, benché discusso, in Israele come uno dei protagonisti della letteratura ebraica moderna. Nonostante il suo piccolo capolavoro La rabbia del vento fosse incluso nei programmi didattici nazionali sin dal 1964, la sua popolarità è stata offuscata dalla fama dei nuovi storici (Benny Morris, Ilan Pappe e molti altri) che si sono dichiarati come i primi storici che hanno rivelato le verità sulla prima guerra arabo-israeliana [10].

9788861922785_0_536_0_75Accademico all’HUJI (Hebrew University of Jerusalem); membro della Knesset (il parlamento israeliano) in vari momenti dal 1949 al 1969; autore di molti romanzi, purtroppo non tradotti in italiano tranne Convoglio di mezzanotte del 2013, Yizhar è nato da immigrati russi nel 1916 a Rehovot, in quella che all’epoca era la Palestina ottomana. Lo zio, oltre al padre, scrittore anche lui, Moshe Smilansky, era un pioniere dell’agricoltura. Yizhar era quindi parte della nuova generazione, non contaminata dall’esilio, che portava sulle spalle l’attesa della nuova nazione che era in procinto di nascere. È un peso che Yizhar spesso rifiuta e fatica a sopportare, tanto da sentirsi un estraneo e letteralmente fuori posto. Ma chi di noi non si sente così anche nel proprio Paese quando i politici al governo prendono decisioni che non condividiamo?

Intanto la propaganda nazionalista e sionista dell’epoca, prima del 1948, affermava la convinzione che gli ebrei di tutta Europa stessero migrando verso Israele convinti che quella fosse la loro vera e autentica “casa.” [11]. Scrive infatti Yizhar:

«Non sono mai stato in esilio, non l’ho mai conosciuto….però me ne hanno parlato, mi hanno raccontato, l’ho studiato a scuola, me l’hanno ripetuto a ogni angolo, nei libri e nei giornali, ovunque: l’esilio. […] Era dentro di me probabilmente, l’avevo succhiato col latte di mia madre. E cosa stavamo facendo qui noi oggi?»[12].
Profughi palestinesi, 1948

Profughi palestinesi, 1948

Se da un lato la narrazione scorre lenta, dedicando descrizioni precise ed esaustive dei volti, dei movimenti e dei luoghi abitati dagli uomini, dalle donne, dai bambini e dagli anziani di Khirbet Khizeh, il pensiero riflessivo del protagonista si muove in un crescendo in cui il dubbio sulla legittimità etica di ciò che stanno facendo si insinua e toglie pian piano spazio alla banale quotidianità della vita dei soldati che eseguono un ordine di evacuazione a fine guerra. Agli arabi ci si riferisce come ad animali: «Sono come bestie!»[13], «Fermo lì, cane!» dice Gabi, e ancora «Questo qui mi dà l’idea di essere una carogna! Premette il grilletto ed esplose un colpo singolo che passò crudelmente a un filo dalla testa dell’uomo» [14]. In questa parte del racconto un uomo anziano, che non aveva capito di dover scappare di fronte all’arrivo dei soldati, viene preso dal panico degli spari del soldato Gabi, che, sospettandolo di terrorismo o infiltrazione, per impaurirlo mira a qualche centimetro dalla testa. L’anziano viene poi gettato dentro una jeep dell’esercito, ma l’uomo, per lo spavento vomita. «L’arabo era raggomitolato su se stesso, cercava di nascondere il dolore dei crampi con un pallido sorriso di scuse, inutile, e si ripuliva con la manica del vestito, gemendo, continuando a sorridere, soffocando singhiozzi violenti e conati» [15]. A questo punto interviene Arié: «Non hanno proprio sangue nelle vene questi arabi, abbandonare un villaggio come questo! Che roba! Se io fossi stato al loro posto mi avreste trovato con un fucile in mano. Eccome! Ve lo assicuro….» [16]. Infine riferendosi a loro non solo come ad animali ma anche come a oggetti uno dei soldati chiede: «Quanti pezzi avete raccolto? Chiese uno di loro, dicendo la parola pezzi in modo spocchioso, compiacendosi del suo atteggiamento da brigante spietato»[17].

71vgwxq1i6l-_ac_uf10001000_ql80_Se Edward Said [18] avesse assistito a questa scena probabilmente avrebbe detto che conosciamo l’altro attraverso uno sguardo fortemente condizionato da pregiudizi, ideologie, ipotesi spesso errate. Dovremmo decostruire tale sguardo per liberarci da ciò che invece Bourdieu [19] definirebbe habitus o da quella che gli antropologi definiscono cultura. Di fatto il confronto con l’alterità rende l’essere umano disarmato, nudo di fronte alle proprie debolezze, in nome delle quali cerca di sopraffare, colonizzare, sottomettere i più deboli. Così è successo a Khirbet Khizeh e al suo arabo anziano che rimasto da solo nel suo villaggio evacuato in preda al panico inizia a vomitare di fronte agli spari dei soldati. Ancor più straziante è il racconto che segue:

«Poi si avvicinò un’altra donna con in braccio una bambina macilenta, ciondolante come un oggetto privo di vita. Una neonata dal colorito cinereo, magra, malaticcia, sottopeso. La madre la agitò in aria con i suoi panni, ce la dondolò di fronte e disse, con un tono che non era né di scherno, né di odio, né di pianto isterico, bensì forse, tutto questo insieme: la volete? Prendetela, prendetela! Quando il nostro viso si contrasse per l’orrore, lei a quanto pare, lo considerò una vittoria, e continuando a dondolare il povero corpicino avvolto nei panni luridi, si batté una mano sul cuore: Ecco prendetela!» [20].

In alcuni passaggi, viene descritta un’arrendevolezza e una tale passività simile proprio a quella degli ebrei che lasciavano le loro case diretti, non essendone a conoscenza, verso i campi di sterminio tedeschi, con poche cose in mano, pensando di poter far ritorno nelle proprie case e nei propri villaggi e terreni dopo la fine della guerra.

«Non so se mentre stavano uscendo dal villaggio qualcuno avesse spiegato ai prigionieri che cosa li aspettava, o dove sarebbero stati condotti. In ogni caso, il loro aspetto e il loro modo di camminare erano quelli di un gregge spaventato, silenzioso e sospirante, incapace di fare domande. Eppure, qua e là, c’era chi sembrava attendersi il peggio e forse trasmetteva agli altri, senza parlare, il sospetto che aveva nel cuore, il timore profondo che sentiva: che quella non era altro che una condanna a morte. […] La cosa incredibile era che nessuno di loro protestava o si opponeva. […] Come mai non si portano dietro qualcosa? Della roba, delle coperte, che ne so…Chiese l’autista. Non hanno roba, non hanno niente, portali via di qui e che se ne vadano al diavolo! Gli rispose qualcuno. E di nuovo ci fu la sensazione di qualcosa di sbagliato e di ingiusto, ma nessuno si intromise» [21].

Senza cadere in considerazioni banali e superficiali vorrei concludere questa breve riflessione soffermandomi sul momento in cui Yizhar riferisce a Yehuda le sue perplessità sull’intera operazione ma Yehuda si limita a dirgli che questi sono gli ordini: «Ma è proprio necessario mandarli via? Che male possono fare? I giovani sono scappati….che bisogno c’è?» e Yehuda risponde: «È scritto negli ordini di questa operazione»[22]. Nel 1961 quando Eichmann fu processato a Gerusalemme e Hannah Arendt seguì il processo come inviata del The New Yorker, egli ribadì più e più volte di «aver fatto il suo dovere, di avere obbedito non soltanto agli ordini, ma anche alla legge» [23].

9788807892974_quarta-jpg-800x800_q75Nessun criminale nazista ha mai avuto il dubbio che obbedire a degli ordini che avrebbero avuto come conseguenza la morte di centinaia di migliaia di persone, fosse sbagliato. Ma questo, anche se i processi iniziarono alcuni anni dopo la scrittura di La rabbia del vento, Yizhar lo sapeva bene. Sapeva anche che la storiografia israeliana per anni avrebbe cercato di “insabbiare” la questione dei profughi, sostenendo che «Già durante la prima fase della guerra gli abitanti arabi iniziarono ad abbandonare i loro villaggi in Israele» [24] e mostrando ambiguità nei confronti di eventi come il massacro di Deir Yassin, il villaggio vicino a Gerusalemme in cui furono assassinati 250 civili arabi da parte di alcune fazioni dell’esercito. La Arendt tra l’altro il 4 dicembre 1948, insieme a molti altri intellettuali ebrei statunitensi prese le distanze da questo tipo di efferata brutalità, scrivendo una lettera pubblica al New York Times. Tra i firmatari anche Albert Einstein al quale venne proposto di divenire primo Presidente della Repubblica israeliano da David Ben Gurion; ovviamente Einstein condannando tali episodi rifiutò [25].

Le scienze umane, insieme alla storia, da sempre indagano il tema della memoria. I suoi meccanismi appaiono ai nostri occhi così affascinanti e intriganti, tra inconscio e oblio, tra dimenticanze, traumi, lapsus, veri e propri errori e manipolazioni. A titolo esemplificativo: la guerra di indipendenza per una fazione è la Nakba per l’altra. L’abbandono volontario dei profughi è la loro cacciata. Il racconto di Yizhar rende ancora più attuale un conflitto che non avrà, a mio parere, fine. Almeno non dopo l’ennesima guerra nella guerra tra Hamas e Israele scoppiata il 7 ottobre 2023 che porta ad oggi a 120 ostaggi israeliani ancora a Gaza, 1200 civili israeliani morti [26], 33 mila morti e 75 mila feriti palestinesi secondo l’UNRWA [27].

Yizhar

Yizhar

Negli anni in cui ho vissuto in Israele e in Palestina ho imparato a pensare, riflettere, combattere una guerra dentro me stessa, oserei definirla una vera jihad, provando rabbia e tristezza per questi due popoli dilaniati da un conflitto irreversibile. Per non essere giudicata, per non rischiare la vita, per scelta, ho sempre ripudiato una pubblica presa di posizione politica vista la complessità della questione e l’impossibilità di una soluzione geo-politicamente attuabile (la cosiddetta soluzione “due popoli due Stati”) a fronte di una frammentazione territoriale evidente e il mio coinvolgimento familiare. Da questo punto di vista mi sono immedesimata, credo come molti altri lettori, nelle parole e nella sofferenza latente e frustrante di Yizhar. Quello stesso vento rabbioso che gridava e soffiava nel 1949, dopo 75 anni ancora «si lanciò sul cielo tranquillo, oscurando il giorno e promettendo nuove piogge per l’indomani, o per il giorno seguente» [28].

«Dopotutto è una guerra! È una guerra oppure no? E se siamo in guerra tutto è lecito (seconda voce: Guerra? Contro chi, questi qua?) Sicuramente tra di loro non ci sono degli stinchi di santo (E tra chi ci sono?) E anche se le nostre intenzioni sono buone e oneste e sincere, quando si entra in acqua non si può evitare di bagnarsi. […] Una cosa è capire e accettare quello che va fatto, un’altra è mostrarsi duri e fare determinate cose. […] Forse i villaggi che abbiamo preso durante la guerra erano diversi? O la gente che scappava da sola terrorizzata dalle ombre? C’è ancora qualcosa di poco chiaro. Una brutta sensazione. Come se ti avessero messo a forza in un incubo e non ti permettessero di svegliarti prima della fine. Forse dovresti alzarti in piedi e protestare? Oppure, al contrario, metterti a guardare e star male fino a sanguinare, in modo che….[…]Sei un debole. Resta a guardare e sentiti scoppiare dentro» [29]. 

Quel vento di rabbia oggi attraversa la Georgetown University, il MIT, Harvard, la Columbia University, l’Università di Princeton, l’Università del Minnesota, Università europee come Oxford, Berlino, Vienna, Ghent, Amsterdam, l’Università La Sapienza di Roma, Padova, Bologna, le piazze di Parigi e altre città europee. Attraversa anche le proteste nei confronti delle decisioni politiche di Benjamin Netanyahu, ricordo che ci sono traduttori come Dalia Padoa che si sono rifiutate di tradurre i suoi discorsi durante la visita in Italia, il boicottaggio nei confronti di aziende e Università israeliane, la solidarietà nei confronti di vittime innocenti come l’accademico Sufian Tayeh o come la piccola Hind Rajab. Questo vento però non può riempirci gli occhi di odio, senza farci ricordare anche le vittime del 7 ottobre 2023 e tutte le vittime di tutte le guerre di tutto il mondo, perché non ci sono guerre giuste. Anche io sostengo, ammesso che ciò sia minimamente rilevante, ciò che sosteneva il grande Mahatma Gandhi «Mi auguro tuttavia con tutto il cuore che in un modo o nell’altro la persecuzione degli ebrei in Germania finisca e che la questione palestinese possa essere risolta con piena soddisfazione di tutte le parti interessate». 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
 [1] Yizhar,S., 2005, La rabbia del vento, Torino: Einaudi. Edizione originale Khirbet Khiza, 1949: 3.
[2] Valzer con Bashir, regia di Ari Folman, Israele, Germania, Francia, 2008.
[3] Nel film in un momento successivo chi racconta si rende conto che i cani che lo inseguono durante il sogno sono stati uccisi da lui stesso durante le incursioni nei campi profughi in Libano.
[4] Ibidem: 4.
[5] Cfr. Kamel, L., Palestinesi, arabi ed ebrei, Dialoghi Mediterranei, 2024, n. 66, marzo 2025. reperibile online:  https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/palestinesi-arabi-ed-ebrei/
[6] Yizhar, cit.: 66.
[7]Ibidem: 81.
[8] Cfr.  Di Francesco, T., The long gaze of the exiled children, Il Manifesto Global, 2023 reperibile online:   https://global.ilmanifesto.it/the-long-gaze-of-the-exiled-children/.
[9] Yizhar, S., cit.: 78.
[10] Shapira, A., Hirbet Hizah, Between Remembering and Forgetting, Jewish Social Studies History Culture and Society 7(1):1-62, 2000.
[11] Rose, J. Rereading: Khirbet Khizeh by S Yizhar, The Guardian, 2011 reperibile online: https://www.theguardian.com/books/2011/mar/12/rereading-jacqueline-rose-khirbet-khizeh.
[12] Yizhar, S., cit: 79.
[13] Ibidem: 74.
[14] Ibidem:41.
[15]  Ibidem:44.
[16] Ibidem.
[17]Ibidem:.47.
[18] Said, E., 1994, Orientalism, New York: Vintage books. Edizione originale Orientalism, 1978.
[19] Bourdieu, P., 1999, Il dominio maschile, Milano: Feltrinelli. Edizione originale, La domination masculine, 1998.
[20] Yizhar, S.,cit.: 74.
[21] Ibidem:72.
[22] Ibidem: 62.
[23] Arendt, H.,2020, La banalità del male, Milano: Feltrinelli. Edizione originale Eichmann in Jerusalem, 1963.
[24] PRIME,2003, La storia dell’altro, Forlì: Una città.
[25] Cfr. https://paw.princeton.edu/inbox/why-did-einstein-refuse-presidency-israel.
[26] Cfr. Haaretz.com.
[27] https://www.unrwa.org/resources/reports/unrwa-situation-report-99-situation-gaza-strip-and-west-bank-including-east-Jerusalem.
[28] Yizhar, cit.: 83.
[29]   Ibidem 

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Sabina Leoncini, antropologa, è Dottore di Ricerca in Scienze della Formazione. I sui principali ambiti di interesse sono la rieducazione in carcere, la parità di genere e l’inclusione sociale. Si è occupata dell’educazione mista in Israele/Palestina e del significato socio-culturale del muro che separa Israele e Cisgiordania. Ha collaborato con alcune Università straniere tra le quali l’università Ebraica di Gerusalemme (HUJI), l’Istituto Universitario Europeo (EUI) di Fiesole, l’Università Ludwig Maximilian (LMU) di Monaco. Ha usufruito di varie borse di studio (MAE, DAAD) e partecipato a progetti ministeriali tra cui PON. Attualmente insegna Filosofia e Scienze umane nei Licei e si occupa di progetti europei, in particolare all’interno del programma Erasmus Plus e Horizon. Dal 2023 è socia dell’Associazione Pantagruel per i diritti dei detenuti.

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