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Ripensando Giuliana Saladino e la civile nobiltà del suo romanzo

9788838915581di Giuseppe Traina  

Santo Piazzese, scrittore sopraffino e gentiluomo impareggiabile, mi onora da molti anni della sua amicizia. Nelle nostre conversazioni uno degli argomenti per me più gratificanti è ascoltare il racconto [1] dei suoi rapporti con Elvira Sellerio e con la casa editrice che ha pubblicato tutti i suoi libri. Una volta gli chiesi quale fosse il suo libro preferito tra quelli pubblicati nella collana “La Memoria”: non ci pensò due volte e rispose che era Romanzo civile di Giuliana Saladino, che io, mea culpa, avevo appena sentito nominare. Naturalmente, lo acquistai e lo lessi subito. E me ne innamorai: e così è stato per le altre persone a cui ho avuto modo di consigliarlo.

Ho scoperto, col passare degli anni, che Romanzo civile è un libro, come si suol dire, “di culto” per tante altre persone, a Palermo e dintorni, tra le quali un altro caro amico, lo scrittore e giornalista Franco Nicastro che di Saladino fu giovane collega, e dunque per molti versi “allievo”, nella redazione de «L’Ora» [2], e che – tra l’altro – ha avuto la bontà di parlare ai miei studenti universitari di Ragusa di Giuliana Saladino e di quella ormai lontana stagione di militanza giornalistica.

Perché un libro come Romanzo civile ha avuto questo destino? E perché, ciò malgrado, il nome di Saladino rimane ampiamente ignorato al di fuori dei confini isolani – o, meglio, al di fuori della memoria di una generosa sinistra palermitana? Non è facile dare una risposta a queste due domande, soprattutto alla seconda. Provo a rispondere almeno alla prima, ricordando che il romanzo ha avuto cinque ristampe [3], tra il 2000 e il 2006 nella collana «La Memoria» e una nuova edizione, accompagnata da uno scritto di Dacia Maraini [4], nella nuova collana «Promemoria» nel 2021 (è stato scelto, anzi, tra i primi titoli della nuova collana).

31Credo che la fortuna di questo libro derivi, innanzitutto, dalla riluttanza dell’autrice a trasformare il dattiloscritto in libro, il che ne determinò, almeno nella cerchia di amici palermitani, la fervente attesa d’una pubblicazione a stampa: il testo, infatti, è il risultato sia di una necessità di scrittura ostinatamente “privata” sia di un preciso understatement rispetto alla dimensione pubblica. Fu scritto nel 1983, nel tentativo di esorcizzare il lutto per la morte di Calogero Roxas detto Lillo, prima compagno di militanza comunista e poi amico carissimo nel comune disincanto ideologico e nel tentativo di continuare con altri mezzi (il giornalismo per Saladino e per il marito Marcello Cimino, l’editoria per Roxas) un impegno conoscitivo e, appunto, “civile”.

Una volta completato, il testo circolò privatamente tra gli amici più intimi, in poche copie dattiloscritte, e l’autrice, dopo varie ipotesi, si rifiutò di pubblicarlo; un anno dopo la sua morte, le due figlie, Marta e Giuditta Cimino, informano il lettore che la pubblicazione è avvenuta «grazie alla pervicace convinzione di chi non ha mai smesso di credere che questa testimonianza di vita e di valori dovesse essere salvata e conosciuta in più ampia cerchia» [5].

Rispetto alla morte di Roxas – un “suicidio assistito”, causato da un tumore incurabile e realizzato in totale solitudine e clandestinità – il libro ebbe dunque il significato di un’autoterapia, tanto personale che “di gruppo” perché oltre all’analisi, anche impietosa, delle esperienze che unirono il terzetto formato da Saladino, Cimino e Roxas, l’autrice riuscì a esprimere «una sorta di vita collettiva in cui il carattere e i contorni di ciascuno sfumano nei confini dell’altro» [6].

51zyxhdb-vl-_ac_uf10001000_ql80_Talché il fascino e la forza del libro derivano proprio dalla capacità di unire almeno tre fattori: la commozione per una morte che assume una valenza simbolica complessiva di portata anche politica con la denuncia, non gridata ma squadernata nella sua tragica evidenza, sull’inciviltà della mancanza di una legislazione che civilmente affrontasse e regolasse i problemi legati a quello che oggi si suole chiamare, con espressione fin troppo algida, il “fine vita”; il giudizio ironico e auto-ironico su una generazione di comunisti siciliani che, dal dopoguerra fino al fatale 1956, s’era illusa di guidare processi socio-economici di trasformazione dell’esistente e che si ritrovò, invece, travolta da altri prepotenti processi che erano sfuggiti al suo sguardo, non abbastanza disincantato e deideologizzato; la lettura attenta e realistica della trasformazione socio-urbanistica di Palermo, anch’essa in buona parte avvenuta senza che la sinistra cittadina riuscisse a interpretarla correttamente.

Se il tema dell’eutanasia o del suicidio assistito risulta purtroppo ancora drammaticamente attuale e suggerirebbe di riusare questo libro per una battaglia giuridica e civile tuttora indispensabile, gli altri due fattori prima elencati attengono soprattutto al valore storico-testimoniale, nonché – per così dire – generazionale, del testo. Ma c’è un altro elemento che ha contribuito, ne sono certo, a fare di questo libro una piccola pietra miliare: mi riferisco alla specificità della scrittura, in cui le interrogative si susseguono, così come le elencazioni, interrotte improvvisamente da inserti di discorso riportato senza risparmio di screziature dialettali; una scrittura, ancora, infarcita di frasi refrain con effetto di eco, marcata da una sintassi che narrativamente si dispone “in crescendo” ma che spesso si ferma in un “largo” riflessivo e sempre antiretorico che prelude a capovolgimenti marcati dal più nitido relativismo conoscitivo. O da un tagliente sarcasmo.

31bmfs4bscl-_ac_uf10001000_ql80_Si tratta, insomma, di uno stile inconfondibile, che poco ha di giornalistico e molto di peculiarmente letterario: lo si evince, in parte, dalla rilettura degli articoli di Saladino [7] e dei suoi due primi libri-inchiesta [8], ma con sovrana evidenza in Romanzo civile, il libro grazie al quale questa scrittrice dovrebbe avere, a mio avviso, un posto tutt’altro che secondario nel canone della letteratura italiana di secondo Novecento [9].

Vorrei proporre qualche corposo prelievo testuale. Il primo esemplifica la posizione autocritica relativa alla militanza comunista di lei e del marito, giovanissimo segretario, per qualche anno, della federazione del PCI nella provincia di Agrigento: 

Degli anni trascorsi ad Agrigento conservo un garbuglio di ricordi sparsi: per quanto frughi non riesco a riesumare un qualcosa di cui menare vanto. Un modo certo viscerale di fare politica, se i meccanismi della rimozione sono scattati così severi e se su tutto il periodo, scandito da lotte non vane, si stende come una nebbiolina da cui emergono, sì, volti, piazze, strade e fatterelli, ma quanto al senso generale permane uno stato
confusionale che confina con il turbamento, come se qualcosa di sconveniente si fosse compiuto.
Non per quel che avevo fatto, ma per il modo inadeguato, acritico, rozzo, passando bendata attraverso gli avvenimenti. Non per le cose dette, scritte, le centinaia di comizi sulle piazze dei paesi, i volantini stilati in fretta e furia (tutta roba da arrossire, ma nel vivo delle lotte il meglio è nemico del bene) piuttosto per il modo arrogante e sbrigativo con cui affrontavamo realtà complesse, per il modo come piombavamo (un po’ tutti, non è una personale autoflagellazione: molti compagni di allora, sol che accettassero di diradare il polverone dell’epopea vivrebbero i miei stessi turbamenti) come piombavamo sui paesi, un modo spacca tutto, calpestando e inserendoci da rinoceronti nel gioco cauto sotterraneo calibrato degli equilibri, tremendi se immobili e tremendi se in movimento, delle gerarchie segrete, delle faide secolari, dei tabù sociali, dei clan e dell’ethnos proprio di ogni paese, specie se contadino, specie se dell’interno.
Che non fosse questa, in definitiva, la forza dirompente del nostro intervento di comunisti?
Solo ora mi pare di sapere che cosa è un paese, e intuisco meglio cosa era allora, quando proponendo rottura o coagulo di alleanze e interessi rifiutavamo i piedi di piombo i sondaggi il bilancino d’alchimista e la circospezione, tutti quegli strumenti indispensabili che oggi però non ci mettono in grado di spezzare uno solo dei tentacoli che rendono cianotica la vita pubblica.
Solo ora mi pare di sapere che cosa è un contadino, e intuisco meglio cosa era allora, che grumo di paura e di aggressività repressa, di prudenza e di diffidenza, in balìa del padrone della natura e della storia, e che vogliono adesso questi venuti dalla città? Risento quel vuoto di rumore che era fiato sospeso di settanta-ottanta contadini riuniti in sezione, assemblee dal tanfo inconfondibile, risento il silenzio carico di panico che subentrava alla fine di una relazione in cui si proponeva e disponeva, baldanzosi e autoritari, come e dove e a che percentuale spartire o ammassare il grano, lacrime e sangue, e risento obiezioni dalle perifrasi indecifrabili, un avanzare del discorso per apodittiche proposizioni o proverbi sentenziosi che celavano resistenze tenaci e interrogativi enormi, legati alla vita e alla morte: come camperò? come affronterò il campiere?
Solo ora mi pare di sapere che cosa è una donna, specie se contadina, e so con quanta reciproca diffidenza guatiamo la nostra differenza e come il nostro sia un dialogo, se tentato, che non abbassa la guardia. Come fu che non capimmo mai – e con Giuseppina, Anna, Simona ce lo siamo chiesto poi tante volte – per quale maledetta sfortuna la migliore compagna comunista del paese, la più attiva e battagliera – ecco un quadro medio da allevare! gongolavamo – dopo un poco la perdevamo (ma dov’è Pina? Ma che ce n’è di Nina?) e solo attraverso un’indagine che otteneva in risposta silenzi, mezze frasi, cenni, reticenze, finalmente arrivavamo a comprendere che non l’avremmo più rivista, che era diventata una puttana, perché separata dal marito, quindi fuggita dal paese, quindi messa al bando dalla sezione comunista. Dovevano passare gli anni a decine prima di capire che una parola nuova detta a una donna viva veniva intesa soprattutto come spinta irrefrenabile alla liberazione personale, sessuale, dal dispotismo di mariti padri e fratelli, e che giovani donne contadine compivano spesso una rovinosa rivoluzione individuale che le portava dritto filato a battere il marciapiede nel capoluogo più vicino [10]. 

Il secondo riguarda l’approccio disincantato e, nei limiti del possibile, umoristico di Roxas con la malattia e l’inevitabile destino di morte: 

voleva sorvegliare e spiare il suo organismo senza interferenza di agenti esterni che imbrogliassero le carte. Me lo spiegò un giorno in cui aveva dormito male e io insistevo per il valium ammorbidente.
«Esattamente la china che non voglio imboccare».
«Ma il valium non è morfina, cosa credi?».
«Credo allo scivolone, alle venti gocce di oggi che diventano trenta e poi accoppiarle all’alcol, e rimanere in poltrona mezzo stonato. E che sai tu di quale dolore può insorgermi e dove, che cosa può accadermi, di colpo o lentamente? A uno già stonato il primo medico che arriva gli fa la morfina e non sono più in grado di decidere niente». Mi convinse.
Doveva decidere come e quando morire e la cosa si rivelò più difficile del previsto. Nessun medico sembrava attrezzato a un discorso sereno sull’argomento. Ne consultò alcuni e poi raccontava a me e Mars[11] (l’argomento era da segreteria ristretta) dei tre approcci compiuti:
«Sedeva afferrato ai braccioli della poltrona e mi guardava come si guarda un pazzo. Un pazzo lucido che può saltare improvvisamente alla gola. Secondo me cercava di suonare il campanello per l’infermiere».
«È diventato pallido, si è messo a giocare col tagliacarte, completamente assorto, non ha aperto bocca fino al momento in cui non gli ho detto scusi, professore, non ci siamo capiti».
«Gli spiegai la mia situazione, teneva gli occhi bassi e poi mi guardò improvvisamente borbottando “provi una overdose”. Provo? Ma come provo? “Provi, ma se poi chiamano me, il solo dovere mio è riportarla in vita”. Arrivederla professore, anzi addio».
Tanto inconciliabile è la distanza che separa una mente laica dalla medicina corrente, in così poco conto è tenuto il diritto a disporre del proprio corpo.
Rocchi non voleva provare, voleva morire al momento giusto, voleva sapere con quante pillole, né in difetto né in eccesso, e reclamava il diritto di sapere quale sintomo tra gli altri avrebbe dovuto preoccuparlo e dargli il via.
Ma questi discorsi sembravano oltremodo prematuri, perché malgrado la febbre del pomeriggio – 37,5, al massimo 38 – stava abbastanza bene e ne avemmo piena conferma al controllo di dicembre a Losanna.
Fu una gita delle più piacevoli, ci raggiunse una coppia di amici, gite al lago e buoni ristoranti, a ogni angolo il paragone con la nostra città «così linda e ordinata, un piccolo gioiello mediterraneo», con risate a rotta di collo quando Rocchi rifaceva, con mimica e stretto dialetto, la faccia e i discorsi dei medici svizzeri che se lo vedevano spuntare ancora vivo, contro ogni tentativo messo in atto per abbattere la forte fibra. «Ai siciliani manco il betatrone ci può, c’amu a fare cu chistu?». P38 magnum, suggeriva lui, questa è l’unica [12]. 

Il terzo frammento riguarda la capacità di leggere le trasformazioni sociali di Palermo con l’occhio ancora esercitato della cronista ma, dopo la fine dell’attività giornalistica, da una prospettiva non più incalzata dall’urgenza della cronaca ma riadattata ai ritmi dell’ostinata abitante di un grande palazzo del centro storico [13]: 

Nemmeno il discorso sulla morte riuscì a interrompere tra noi tre quell’unico discorso politico sociale civile durato trent’anni, nel quale le vicende quotidiane si incastonavano a conferma, testimonianza e documento dell’inquietante contesto locale, costituivano frammenti, suggeriti ora da una puntata all’università, all’ufficio gas, all’assessorato per una qualche pratica, un racconto di qualcuno esasperato, un discorso in un bar, un editoriale o un saggio: tutto ci ributtava in continua risacca sui grandi irrisolti temi meridionali, sugli angosciosi perché del socialismo reale, sugli oscuri risvolti del potere al Pentagono e al Cremlino, e, qui e ora, al Municipio di Palermo.
«La storia si scrive – penna nella vena del polso – col sangue» e con molto sangue la scrivevano infatti sotto i nostri occhi il Pentagono, il Cremlino e la mafia di Palermo, e ogni cosa nelle analisi del nostro amico trovava almeno un tentativo di spiegazione.
Vivevamo da miliardari squattrinati (un ossimoro indispensabile) dentro una città di cui non decifravamo più bene la realtà, un parassitismo redditizio e spendereccio non ci faceva più capire se i siciliani siamo dei poveri molto ricchi o dei ricchi molto poveri. Una vita cittadina quasi allegra, piena di buona musica e delle già dette iniziative culturali, punteggiata da delitti col morto e le foto in prima pagina e da delitti silenziosi non meno spettacolari contro la città e contro i cittadini scontenti, estranei, acquiescenti.
Se i nuovi ricchi, circondati dai loro gorilla, vivevano appartati e quasi sconosciuti, il nuovo ceto medio, di piccolo taglio, esibiva invece felice tutte le sue conquiste, così recenti e appaganti, per cui anche l’ascensore costituiva promozione sociale dopo che catoi a piano terra avevano condannato come «gente bassa» intere generazioni. E se era soltanto ameno vedere accoppiare tanto denaro a tanta ignoranza, incontrare gente che tornava dal viaggio organizzato senza nemmeno sapere i nomi delle tappe compiute, o che aggirava il tappeto come si fa con una pozzanghera (era capitato a Giuditta, a casa di una compagna di scuola, calpestarne uno provocando il grido allarmato di una bambina di casa: «guarda, sta camminando sul tappeto!» cosa che tutti evitavano di fare) o gente che affermava soddisfatta di avere ammirato le cupole arabe di Filumena Marturano, era comunque rassicurante sapere che travet lisi e a stecchetto non ce n’erano più e sembrava che chiunque, con poche ore di lavoro o solo una firma in ufficio e poi un secondo lavoro – quale sicula pigrizia? – potesse avere casa in città e casa al mare, auto per sé e per i figli, roulotte e frigorifero pieno.
Così come era confortante sapere che i figli dei contadini e degli artigiani di mezza Sicilia affittavano tutte le case sfitte e pericolanti del centro storico e andavano all’università, con selezione e sacrificio, sì, ma niente paragonabile, nemmeno alla lontana, a quello spasimo totale, a quella suspense di ogni raccolto di grano o di fave, vissuta alla metà degli anni ’50 per fare studiare un ragazzino introverso e intelligente come Salvatore, per farlo sopravvivere nelle infime locande di piazza Magione senza spese superflue: dai suoi undici anni ai suoi ventuno non fu mai possibile riparare il buco dell’incisivo superiore saltato con un colpo di pallone.
E se era confortante constatare che dai tuguri di un solo vano erano uscite famiglie di dodici o tredici persone per andare, a volte dopo lotte strenue e occupazioni, a volte solo per raccomandazione, ad abitare i grandi quartieri satellite ricchi di aria e sforniti di tutto, pure una visita in auto a questi spettrali quartieri li mostrava debordanti di falso benessere e di autentica miseria e ciò che in un tugurio era considerato inevitabile prodotto dell’ambiente, in tre o quattro stanze più servizi e tv color non lo era più (dall’incesto all’orinare sui muri della propria scala al legare i bambini con catene al piede del letto all’accoltellare la moglie per un sospetto) mentre l’unica istituzione presente, la scuola, costituiva bersaglio di continue spedizioni punitive per bruciare i registri, fare a pezzi i banchi, tagliare le gomme alle auto degli insegnanti, oppure sassaiola ad oltranza contro tutti i vetri, fino all’ultima scheggia. Miseria della teppa giovanissima e spavalda, ma anche miseria della preside che dichiarava compunta al giornale: «Non sono maturi per avere la scuola», che sembra il problema se nasce prima l’uovo o la gallina.
In quei quartieri rombavano le Honda e le Kawasaki dell’ultima leva di spacciatori di droga, ragazzini resi ribaldi dalle disuguaglianze di accesso ai consumi, imbarbariti dalla violenza dei polizieschi televisivi, ma assai di più da quella che sperimentavano ogni giorno fuori dal video, decisi a prendersi ciò che non avevano calando fulminei in città per scippi e rapine, tutt’uno con i coetanei rimasti nei vicoli.
E se era interessante calcolare quante decine di migliaia di siciliani dell’interno erano venuti a inurbarsi, e stabilire, a seconda della provenienza e dell’epoca del loro trasferimento, quale cerchia o cosca clientelare li avesse catturati, se questo o quell’assessore della provincia di Agrigento, se questo o quel presidente della Regione di Enna o di Caltanissetta, era anche deprimente ma storicamente logico constatare come e quanto ritenessero bella la bruttissima zona della città che abitavano, il quartiere residenziale dei bianchi, dove palazzoni strade marciapiedi e spazi, quanto a posizione dimensione funzionalità gusto assetto urbanistico comodità e senso civico obbedivano all’unico criterio supremo e rigoroso della speculazione. O perché giunti da un paesuzzo dell’interno o perché usciti dal centro storico maledicendolo, non vi era motivo alcuno perché onesti cittadini considerassero affare loro, loro cultura, loro disdoro le statue fracassate, le panchine di marmo divelte sotto l’ombra di magnolie centenarie, l’insegna al neon sul portale normanno, le fughe di stanze traballanti che finivano in un tonfo, le facciate irripetibili e devastate di piazza Bologni, gli androni sontuosi e lerci di via Alloro.
Gli abitanti nuovi di Palermo si portavano dietro storie secolari di sopraffazioni e di rapine, l’odiata corrotta capitale era stata sede e sollazzo dei loro padroni, principi e feudatari, ora volevano una città a loro immagine e somiglianza, non vi era motivo alcuno perché dovessero riconoscersi in vecchie pietre, anzi sembrava volessero cancellare come spregevole ogni traccia di quel passato che agonizzava a quattro chilometri da via Lazio.
Il centro storico lo scoprivo ogni giorno più incattivito, meschino, infelice. Famiglie, ditte, negozi continuavano a sciamare lontano. Era condannato, e quando si parlava del suo avvenire non prestavamo nemmeno orecchio: da 35 anni si favoleggiava di risanamento.
Perché ostinati, resistevamo? All’uscita dal cinema, dalla riunione, dal teatro non trovi mai un passaggio, tutti filano verso nord est o nord ovest, verso la città nuova e solida, per cui concludevo che pazzi eravamo noi, rimasti a torcerci le budella sulle rovine. Eravamo pochissimi: gente che forse ne faceva una questione di pigrizia, o di malintesa cultura, o di radici, o di denaro, ma che avrebbe pagato un prezzo pur di non ritrovarsi in una via De Gasperi o in una via UD 123. Le due città convivevano estranee e contigue. Se percorrendole inforcavo gli occhiali e l’euforia del turista, osservavo le brutture con uno slancio di ottimismo effimero, suvvìa, mi esortavo, ecco il colore locale, ecco l’esotico, non facciamone un dramma, prendiamoci il meglio [14]. 

9788838942730Ho preferito non tagliare nulla dalle lunghe citazioni precedenti affinché meglio si godesse della prosa sussultante di Giuliana Saladino. I tratti stilistici precedentemente elencati, e che generano una sorta di suggestivo monologo interiore ad alto tasso di riflessione saggistica, risultano perfettamente coerenti con la resa di una particolare vocazione alla scepsi, al dubbio metodico individuale, più ancora che a quella rituale autocritica ben presente nella tradizione comunista italiana. Dubitare, insieme, di sé e del mondo, di sé nel mondo ma anche degli altri nel mondo: senza sconti per nessuno ma, semmai, con un’inclinazione a cogliere sé stessi in contraddizione rispetto alla prassi. Non all’etica, invece, a meno che i limiti evidenti in una prassi sbagliata non finiscano per rivelarsi limitativi per l’etica stessa.

Su tutto, comunque, la mai dismessa abitudine dello scarto ironico, della deformazione linguistica, del witz da conversazione colta, dello smontaggio del luogo comune ossidato dal tempo. Una pratica autoironica che poi, nella parte finale del libro, quando la narrazione degli ultimi mesi di vita di Roxas occupa quasi tutto il campo, si estenua in commovente esercizio «d’una retorica e d’una pietà» [15], per usare le parole adoperate da Gesualdo Bufalino a proposito di tutt’altro contesto; talché la divisa etica del malato terminale e la sua ferrea alleanza con gli amici più cari, prevedono che mai si debba indulgere al compianto melodrammatico, all’esternazione della sofferenza: ciglio asciutto, bicchiere di whisky in mano, civili movenze da salotto bloomsburyano. 

Mars e io, due ritrosie che si sommano, tendevamo a farne un fatto privato e invece diventò molto pubblico, come era giusto che fosse e come in fondo sarebbe piaciuto al nostro amico. I giornali lo commemorarono come politico, come editore, come velista, ma soprattutto come uomo.
Il nostro amico se ne era andato dimostrando e proclamando la supremazia della mente, la fiducia nell’uomo. E così fu recepita la sua morte, da amici e compagni che non vedevo da anni e che ora telefonavano avidi di sapere, ammirati, contenti, maledizione, finalmente qualcosa di buono, pareva dicessero, ecco come si fa, che bravo, e nessuno pensò o disse «Mischino, poverino» come si usa per chi muore e tutti, specie se giovani, volevano solo saperne di più, della sua vita, della sua morte, che è la sola ragione per cui ho scritto, senza tenere in frigo per l’autoconsumo, questo «romanzo civile» [16]. 
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] Che è anche pubblico: cfr. S. Piazzese, La luna, le Benson, in La memoria di Elvira, Sellerio, 2015: 91-109.
[2] Nicastro è anche diventato storico e memorialista del giornale, dopo la chiusura: tra i tanti suoi lavori cfr. almeno Era L’Ora. Il giornale che fece scuola e storia, a cura di M. Figurelli e F. Nicastro, XL, 2012.
[3] Che Sellerio denomina “edizioni”.
[4] Che si aggiunge a quello di Marcello Sorgi, già presente nella prima edizione.
[5] G. e M. Cimino, Postilla a G. Saladino, Romanzo civile, Sellerio, 2000: 173.
[6] M. Sorgi, Nota, ivi: 11.
[7] Una selezione dei quali si legge in G. Saladino, Chissà come chiameremo questi anni, a cura di G. Fiume, Sellerio, 2010. Una peculiarità delle inchieste giornalistiche di Saladino è la quasi onnipresenza di dati statistici o di altri elementi che concorrono a una conoscenza scientificamente fondata dei fenomeni descritti.
[8] G. Saladino, De Mauro, una cronaca palermitana, Feltrinelli, 1972 (ripubblicato, col titolo Romanzo politico. De Mauro, una cronaca italiana, saggio introduttivo di A. Blando, Istituto Poligrafico Europeo, 2015); G. Saladino, Terra di rapina, Einaudi, 1976 (ripubblicato con lo stesso titolo da Sellerio nel 2001).
[9] Ne ho parlato al convegno Donne di carta. La scrittura delle donne nella letteratura italiana (Università di Napoli, 19-20 maggio 2023) tenendo una relazione dal titolo A proposito della scrittura di Giuliana Saladino (1925-1999). Gli atti sono in corso di stampa.
[10] G. Saladino, Romanzo civile, cit.: 72-74.
[11] “Mars” è il nome con cui, nel romanzo e – suppongo – anche nella vita, Saladino chiama suo marito, Marcello Cimino. “Rocchi” è invece il nome con cui la coppia chiama Lillo Roxas.
[12] G. Saladino, Romanzo civile, cit.: 117-119.
[13] Il palazzo di famiglia, e il suo rapporto di apertura e chiusura con il quartiere, e con la via Maqueda in particolare, viene stupendamente evocato dalla riproduzione di un trittico incernierato di Enzo Patti nella copertina della prima edizione del libro.
[14] G. Saladino, Romanzo civile, cit.: 129-134.
[15] G. Bufalino, Diceria dell’untore, Sellerio, 1981: 196.
[16] Ivi: 164-165.

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Giuseppe Traina, insegna Letteratura Italiana presso l’Università di Catania, sede di Ragusa, città dove vive. Ha studiato testi e problemi della letteratura italiana, da Dante al Novecento. Il suo ultimo libro è Sguardi del potere e sguardi sul potere nell’Ottocento italiano. Studi su Bini, Collodi, De Amicis, Valera, Cena (Rubbettino, 2021). Ha curato una recente riedizione di Eros di Giovanni Verga (Rizzoli, 2022). Ha pubblicato recentemente un lavoro su Angelo Maria Ripellino: Primaverile ripelliniano (Mucchi editore).

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