Viviamo forse tra esperienze eccezionali? Rifletto sulla sensazione di eccezionalità, mentre constato come la segnalazione di punti di vista espressi da tempo, ma finora trascurati, si infittisce e si moltiplica, cavalcando ricicli e riproposte. Un effetto lanciato verso una corsa – la “storia globale” – così liberatoria, da aver abolito impacci e confini? Ma la nuova condizione indirizzata alla “globalizzazione” è già sconfessata duramente, tra reindirizzamenti di merci e materie, nel tempo attuale. Ricordo “le primavere arabe”, i movimenti nella fascia maghrebina del 2011 – accesi nella coda dell’anno 2010 – che nei commenti diffusi avrebbero acceso protagonismi “all’occidentale”, provocati sia dalla facilità di connessione, interpretata come prodromo di nuova aggregazione, sia dalla visuale, che da quel tempo sarebbe stata dilagante, sulle “nostre” “magnifiche sorti e progressive”: non fu così, e gli accadimenti, di allora e forse concatenati fino all’oggi, sono poco perspicui.
Risulta evidente, intanto, il moltiplicarsi di versioni, scritte o iconiche, che con una certa rapidità vengono composte in narrazioni, con una produzione e esposizione di opere, cui seguono ritiro e stoccaggio, che vanno accelerando. Una febbre dei produttori, presso le varie editorie, che vuole intercettare quella delle platee, e che ignora la distanza tra cultura e divulgazione, senza afferrare ampiezza e consistenza della comunicazione e della crescita – o decrescita – culturale. Tutto questo produce “novità editoriali”, intrusioni in comparti settoriali nuovi, più spesso prodotti reclamizzati che durano lo spazio di una settimana. Il lettore, pur appassionato come io stessa mi ritengo, è sconcertato. Quasi in una esperienza di deragliamento. Sono per altro consapevole di consumare letture senza pratica delle considerazioni che guidano la produzione. Vale la pena, se voglio farmi un’opinione, che mi attenga agli autori di cui più apprezzo la visione, per ampiezza e attualità.
Tra questi, tengo a portata di mano Umberto Eco, già testimone di vita civile autorevole nel mondo, ma in particolare semiologo di grande prestigio: egli ha analizzato a fondo le variazioni nel messaggio e nella percezione, indotte dalle tecnologie comunicative via via affermatesi. Senza fare studi sistematici sulle sue opere, ho cercato spesso il suo punto di vista da quando, nel 1969, a Firenze, presso Giacomo Devoto, lo conobbi, essendo già così autorevole sul piano internazionale da essere il fattivo tessitore che dava vita alla Società internazionale di semiotica. Egli ha teorizzato con coerenza sul messaggio interdisciplinare, con un excursus di esperienze che ha incluso le pratiche tecnologiche e conosciuto le esperienze commerciali: un’esperienza, che rende anche più autorevole lo sguardo che si rintraccia rivolto all’interpretazione complessiva, sintetizzato poi in una figura iconica e sovra-temporale, per esprimere come opera l’esperienza umana della conoscenza.
Questa immagine – guida, scartata dichiaratamente la figura dell’albero, così inflazionato nelle genealogie “dei padri fai da te”, sceglie dell’albero il fondamento nascosto: è il rizoma, vitale e spiazzante, che corrisponde alla funzione della conoscenza. Il rizoma, dice il filosofo, è da osservare e imitare con rispetto, rete di nodi capaci, pur senza garanzie preventive, di «raggiungere tutti gli altri nodi… All’interno del rizoma, pensare significa procedere a tentoni attraverso congetture». La ritrovo nel grande volume che raccoglie gli scritti di meditazione più complessiva (sezione Autobiografia intellettuale: 3-73, 45, in La filosofia di Umberto Eco, La nave di Teseo, 2021 – essendo la prima edizione, nel 2017, in lingua inglese, presso la Library of Living Philosophers). È un’immagine feconda e coraggiosa, che sprona a non temere il nuovo: un incitamento anche contro le mie esitazioni.
Come immagine-simbolo, il rizoma è incoraggiamento che accende la mente, tuttavia acronico, fuori del tempo. Ma come entrare nel merito di quello che accade nel tempo attuale, fervido di tecnologie, ma contraddittorio e febbrile? È più corrispondente alla domanda inquieta, sensibile ai congegni del vivere e del comunicare odierni, un’altra opera, la raccolta di Umberto Eco riedita nel 2016, dopo l’uscita nel 2006, A passo di gambero, sottotitolo Guerre calde e populismo mediatico. Le pagine, una «serie di articoli e interventi scritti tra il 2000 e il 2005» – così l’Autore nella nota introduttiva, intitolata I passi del gambero – dedicano riflessioni puntuali, anche se in tono brillante, al percorso nel complesso considerato retrogrado, come suggerisce il titolo, evidenziatosi dall’11 settembre 2001: per il filosofo, le guerre in Afghanistan e in Iraq, e, in Italia, l’ascesa al potere di un partito-azienda, hanno corretto rapidamente la speranza di progressiva distensione globale concepita con la demolizione del muro di Berlino. È una storia, Eco prende atto, che va all’indietro: “trionfalmente” ripropone guerre guerreggiate, nonché «una nuova stagione delle Crociate con lo scontro tra Islam»; propone insomma guerre e alimenta miti razziali e contenziosi, quali già conosciuti nel passato.
Le riflessioni riguardano l’oggi, la mia sensazione che ho definito di deragliamento, in modo significativo. Ne induco che non è questo un tempo eccezionale, ma certo entrato in una modifica significativa di mezzi, di tecnologie per esprimersi e per essere contattati, che cambia la relazione tra produttori, fruitori, diffusione di dati.
È infine in un contesto del genere, che per gli stessi operatori, sperimentando prassi e seguendo correnti, il passato si ripropone con nuova forza. La produzione culturale, infatti, accelera i cicli, con proposte incalzanti. Nel saggio Sulle spalle dei giganti (già in “Conversazione su letteratura, musica e cinema” del 2001), Eco riprende l’immagine, l’aforisma che, riproposto da alcuni studiosi del secondo Novecento, ci è divenuto familiare. Eco lo ripropone, in tracce che vanno molto indietro nel tempo, forse al XII secolo o anche oltre. In particolare tratta, però, che cosa sia “moderno” (e già “modernus”), distinguendo la forma, recente, e il concetto, che si affaccia in un’interessante storia culturale intermittente. In particolare, Eco ricorda che nella secentesca querelle des anciens et des modernes si preferiscono le opere contemporanee come più mature di quelle antiche. È stato episodio recente la costituzione dei “poeti Novissimi”, sulla scia dei “poetae novi” del tempo di Catullo, ricordando forme di competizione accadute, sia rispetto ai padri che rispetto agli antichi.
Talora, continua Eco, esiti di alta, nuova creatività si sono dati: Dante, che già sa dei nuovi volgari in varie aree continentali – l’innovazione competitiva sembra muoversi da grammatici irlandesi nel VII secolo –, è consapevole di essere «innovatore in quanto inventore di un nuovo volgare». È però Darwin lo studioso che «uccide i suoi padri biblici eleggendo a giganti le grandi scimmie antropomorfe»: per altro essendoci intorno tendenze opposte, «riappropriazione del passato, dai preraffaelliti ai decadenti», specie nel campo letterario e in quello artistico. Un gusto compiaciuto di superamento del tradizionale ha caratterizzato le avanguardie storiche di inizio Novecento. E oggi? Si genera un confronto politico nuovo, con i mass-media e le loro applicazioni, che «hanno generato la compresenza e l’accettazione sincretistica», in qualche modo uno specifico “politeismo”. D’altra parte, in un altro saggio della raccolta, La perdita della privatezza, proposto per il convegno sulla privacy organizzato da Stefano Rodotà nel 2000 a Venezia, il filosofo prende atto che Internet va cambiando i confini delle abitudini – il guardare e il guardarsi cioè cambiano, cambia la riservatezza – e espone ogni soggetto, umano o impresa, a nuove lucrazioni, in particolare tramite i cookies e “le altre mirabilia tecnologiche” «che permettono di raccogliere informazioni su ciascuno di noi»: si materializza, può ben dirsi, il panopticon di Bentham.
Un incoraggiamento sostanziale, quello che ricevo da Umberto Eco eletto a mentore, a non perdere né entusiasmo né ricerca di senso nel continuare la mia applicazione di lettrice: magari in associazioni anche non lineari, e che attraversino più terreni, come culture, come geografie, come archivi, come supporti. La ricerca del contesto è importante, a partire dall’autore: ma i contatti e i contrasti travalicano la sua stessa scelta operativa. E tanto più sono labili i contenitori tracciati intorno alle produzioni culturali, spesso mappe sintetiche per finalità di semplificazione e adeguamento alle richieste sociali: vengono a mente i ricordi scolastici, i “bignamini”, per altro in vigore dal 1931.
Su questa falsariga mi sento incoraggiata, ma in quanto inserisco articolazioni nella mia determinazione. Sembrava che le tecnologie facilitassero le relazioni tra soggetti e culture: di fatto non è andata così. Ritrovo i nuovi impacci e l’intreccio di illusioni in una recente lettura, una relazione di viaggio in forma epistolare appena pubblicata: di Tommaso Giartosio, Tutto quello che non abbiamo visto. Un viaggio in Eritrea. Il reportage ammette lo spiazzamento dell’autore ripercorrendo una storia politica ammessa violenta – esperita nei singoli personaggi descritti come colonizzazione, o annessione, o emigrazione, – ma che pure nel vissuto del cronista lascia adito all’empatia. La vicenda è calibrata sulle tecnologie contemporanee. Certo, nel Paese – per altro ancora politicamente instabile – la condizione di accesso alle piattaforme social pone limiti al visitatore. C’è, a dispetto di tutto, un lieto fine, un esito finale non negativo malgrado i condizionamenti: «…Noi, essendo sempre sconnessi, dropout, …, esclusi dallo spazio virtuale, per amore o per forza dovevamo riscoprire la virtualità dello spazio reale». Non è però vietata la macchina fotografica: e dall’esercizio, indispensabile, del guardare e del guardarsi, inaspettatamente consegue nell’autore, già disinteressato ai selfie, il gusto invece di scattarli, scoprendone perfino il valore “filosofico”: «(il selfie) costringe a interrogarsi sulla propria idea di sé e sul proprio posto nel mondo».
Nell’insieme è, anche questa, una lettura che testimonia quella “sollecitudine”, che è prima apertura, personale, ma indispensabile a dare spazio all’interesse. Inoltre, altro punto interessante è che il terreno su cui l’esperienza dell’autore si propone è “globale”: intendo marcare, cioè, che, quale che sia la disciplina che gli accordi – o disaccordi – tra Stati determinano nei domìni, per le attuali reti, la disponibilità ad aprirsi e confrontarsi è segno di buona impostazione delle relazioni. Certo, osservo, quello che appare un “lieto fine”, nel senso di un’acquisizione utile, anche se imprevista, consegue alla casualità per i singoli. Si allarga lo iato tra chi interviene come controllore delle tecnologie, o come dominatore delle risorse complessive, e chi, pur consapevole delle sue aporie, pure si applica a coltivare relazioni umane, accettando di incanalare le sue acquisizioni in direzioni impreviste.
L’incoraggiamento a affrontare nuove letture, vale anche se si tratta di opere di poesia? Ho l’abitudine di leggerne, se edite in lingua italiana – o perché scritte in tale lingua o per intervento di buoni traduttori –. Ma al momento, di fronte alla raccolta che vorrei leggere – di Odilon-Jean Périer, Carmi, 2023, Lorenzo de’ Medici Press; tradotta dal francese, essendo belga l’autore, da Ilaria Guidantoni, intellettuale esperta e sensibile – lo slancio si risolve in dubbio. Ma ho buoni motivi. È questa la produzione quasi complessiva di un autore belga (1901-1928). La traduttrice acclude pure una biografia essenziale, e una sintesi interpretativa che dà un primo quadro suggestivo sull’autore (Odilon-Jean Périer, poeta della poesia, cui segue la biografia: La sua storia). Ma rarefatte sono le mie conoscenze sull’area belga, e l’opera, incuneata negli anni a ridosso del Primo conflitto mondiale, sembra, stranamente, elusa nella cultura prevalentemente esposta. L’autore è rimasto ai margini, così che le sue opere non sono state incluse negli –ismi dell’ambito letterario. Una novità, dunque, inaspettata, senza prontuari che sostengano chi legge. Ma, dopo le considerazioni già fatte, non è questo un motivo sufficiente a desistere. Anzi, la speranza è che, nella prassi delle comunicazioni, davvero si confrontino più intimamente le arti, stimolando la stessa scienza, di qualunque ambito, a procedere con cautela e con apertura filosofica. Procederò, dunque, nell’avventura. Leggendo, cercherò di ascoltare l’autore e di riferire le considerazioni scaturite, pur senza pretese, con intima alacrità, cercando i nodi essenziali.
È certo un percorso delicato leggere, appuntare commentando, offrire ad altri il commento su un autore di nuova proposta. Tuttavia l’attesa subìta da questo autore è da interrompere, in qualunque modo: risale al 1957 la ricerca, vedo attivando esplorazioni più accurate in internet, in base alla quale il Museo della letteratura del Belgio lo ha potuto indicare ufficialmente tra i grandi autori. Allora erano stati compiuti studi sistematici, anche controllando il testo con gli eredi dell’autore, morto nel 1928, a opera della studiosa Madeleine Defrenne, così che della profondità dello scrittore si hanno certi riscontri [1].
Era tuttavia prevalso il silenzio: ma forse non per tutti. Ora, si constata, il film del 1987 di Wim Wenders, in Italia conosciuto come Il cielo sopra Berlino, aveva usufruito di opere di Périer, sia del suo romanzo breve Le Passage des anges, del 1926, sia del poema Le combat de la neige et du poète, in non minor misura, come già era stato valutato, delle Elegie Duinesi di Rilke (1923). Inoltre, si ritiene che del modello sia stato consapevole Peter Handke, sceneggiatore del film, che, per la sua poesia, nel 2019 ha conseguito il premio Nobel. Il poeta belga viene dunque ora messo a fuoco, a partire dall’intreccio che ha operato tra testimonianze, accadimenti e poesia. Egli ha radicato profondamente la sua poesia nel flusso della vita: adattandosi, se così si può dire, poi a scrivere, ma conservando nella forma scritta la caratteristica sonora, fluente del momento compositivo intimo (in francese, questo è “poésie”, laddove la forma cristallizzata nello scritto è “poème”). “Fluente” non è qui parola casuale: se Périer ha elaborato la sua sensibilità aprendosi al Simbolismo francese, ha però tenuto lo sguardo e le radici in Belgio: le vie d’acqua, osservate e assimilate in metafora, sono la sua esperienza viva, come in generale lo è l’esperienza dei paesaggi e della vegetazione. Un’altra esperienza forte, basilare, metafisica e artistica, era anche l’aver scritto sulla “psicologia vegetale”: lo annota Ilaria Guidantoni nella presentazione essenziale, a cui rimando.
Come il recupero di Périer è certo legato al privilegio delle letture compiute, quasi in un “varco” imprevisto, secondo il lessico montaliano, dagli intellettuali contemporanei che abbiamo indicato, si propone come un’area di meditazione ineludibile la “meditazione sugli angeli” cui egli è stato sensibile: gli interpreti davvero dediti, profondi, dovranno affrontare questo aspetto, che pervade l’opera di Périer. È cioè da approfondire, al di là della biografia – in cui la negoziazione con le religioni positive, specie il Cattolicesimo, è attestata –, il raffronto a tutto compasso sulle modulazioni culturali sfaccettate dell’epoca, più fluide, partecipi e intercontinentali di quanto ora si sintetizzi. L’approccio complesso e sincretico di Périer indirizza verso le interpretazioni che gli studiosi di etnologia e di psicologia stavano compiendo, tra XIX e XX secolo: verso Jung piuttosto che verso Freud, verso le ricerche etnologiche contemporanee e verso il gusto dell’arte, particolarmente quella calligrafica orientale, cui si ispirano i suoi disegni.
C’è una complessa spiritualità, nell’approccio di Périer al mondo, animato, inanimato, verificabile o immaginabile nelle direzioni sincronica/ diacronica, non inscrivibile in mere leggi di causalità: risulta, leggendo l’autore, la forza dei raggruppamenti di religiosità sincretica e dei circoli cosmopolitici, realtà culturali sul cui percorso vorremmo maggiore attenzione nelle narrazioni storiche complessive. Finora infatti tali articolati interessi sembrano essersi vanificati, alla soglia del Primo conflitto mondiale, proprio subito dopo aver dato luogo, tra XIX e XX secolo, a congressi, testimonianze, richieste di riforme civili e religiose; per altro, dopo aver censito in questi movimenti, grande, qualificata presenza di donne. Insomma, ripeto, il recupero di questo intellettuale dovrebbe essere anche un’occasione per guardare più a fondo nella contemporaneità e per procedere senza reticenze alle sintesi.
Fisso qui le mie sensazioni di prima lettura: oltre, ci sono nodi da affrontare con autentiche ricerche. Non può dirsi che “angeli” sia, in Périer, concetto – metafora: forse, parola – indizio di quanto, essenziale e anteriore all’uomo, sfugge ai limiti linguistici, che pure sono strumento grande, caratterizzante dell’umanità: e pacifico strumento. Indizio di comprensione e soccorso, “angeli” potrebbe essere forma tra vita e amalgama che aspira alla vita, con propri impulsi. Una forma che è certo pietas – cioè accettazione sofferta dello scarto generazionale – e sollecitudo – cioè promozione, in sé, dei bisogni altrui. Gli “angeli” di Périer stanno in una scala che dà principio vitale a arte, conforto, rammemorazione. La scelta del termine, per questa speranza sincretica, andrà attentamente osservata nei repertori – tutti da valorizzare – dell’epoca. Tuttavia non è inopportuno, in una lettrice, come sono, italiana, il richiamo alle predilezioni iconiche di post-Rinascimento: angeli grandi e piccoli, guida e tentazione; la grande, inquieta, visionaria intesa tra Pontormo e Rosso Fiorentino, su creature tra cielo e terra, prima dello sguardo basso del Caravaggio.
In qualche modo gli “angeli” di Périer sono creature prossime agli alberi, creature che non solo testimoniano l’amore dell’autore per la natura, ma sono entità vive, plurivalenti e sincretiche, forme di vita e d’arte che permeano il pensiero filosofico del poeta e la sua visione dell’arte, costellando e travestendo il paesaggio che osserva. Ma gli interessi si annodano intorno alla traccia profonda della classicità, tradizione che il poeta arricchisce, secondo una sensibilità contemporanea. Fisserei una tale sensibilità classica in epoca anteriore agli anni Trenta – i vortici degli influssi sono definiti – come vissuta con sguardo etnologico, specie intorno a James Frazer: in Italia, il corrispettivo indicherebbe intellettuali come Lauro de Bosis, primo traduttore di Frazer, la visionarietà del pur vecchio Arturo Graf, cui consegue Augusto Monti, il rigore problematico di Gaetano De Santis. È stato notato come il poeta belga onori, come archetipo di poeta e di cultura letteraria, Omero. Io, via via che leggevo Périer, ripensando a Odisseo tra i Feaci, quando è Demodoco che, in funzione di aedo, narra delle peripezie dei contemporanei eroi, ho ricordato come proprio l’eroe, protagonista non ancora identificato, si scherma allora con un lembo di veste: turbamento, certo, anzi contrasto di sentirsi rammemorato. Possibile immaginare, in quel tempo di velatura, in quello stato di presenza-assenza, il capovolgimento della percezione, lo scarto evidente, dal sé determinante a Troia, all’attuale aporia, naufrago e vecchio supplice davanti a un popolo dotato di nome. Di lì a poco, da questo smarrimento, Odisseo uscirà e, presentatosi, sarà lui stesso novello, più perfetto aedo.
Tale, in un sentimento di inquieto e segreto misurarsi con le componenti del mondo, mi pare la postura di Périer: l’ascolto intimo della parola poetica, cui sono restituiti congrui il suono e la forma così da farne testimonianza pubblica, risalta in una testualità – il cui suono è reso con straordinaria aderenza dalla traduttrice – intessuta con il “voi” interlocutorio non meno che con l’“io”: «Mostratemi il cammino delle onde addormentate/ lasciatemi scoprire una riva sconosciuta;/ e che inginocchiandomi su queste spiagge perfette/ dal rumore di un poema e delle acque soddisfatte/ la grazia del mare aumenti la mia virtù» (Preghiera per essere saggio). Viene certo a mente l’allocuzione coeva di Ungaretti: «Lasciatemi così/ come una cosa/ posata…», che però dà questo timbro di conversazione scambievole al diario di guerra, L’allegria, mentre è contrassegno pervasivo in Périer.
Che cosa sia per il poeta belga l’“antico” sarà un punto importante, in una prossima revisione su questo aspetto della storia poetica contemporanea, per giungere a capire perché l’autore non sia stato valorizzato per tempo. In Belgio questo filone è in atto, intorno al recupero di Madeleine Defrenne [2].
È un fatto che nei componimenti di Périer è linguaggio corrente richiamare nomi e aspetti di antico: un esempio immediato può essere, nel poemetto più noto, La lotta della Neve e del Poeta l’episodio che, menzionata Parigi come memoria di gioia, è inscenato al Louvre: gli oggetti, visti dal poeta, in qualità di visitatore colto e sensibile, sono recepiti in una cultura appropriata, consona all’archeologia e alla ricostruzione culturale, anche simbolica, dell’epoca. Certo, il linguaggio classicista di Périer non è quello, calcato in ironia, degli autori – Joyce, Eliot in primis – che sono stati il perno della storia letteraria ricostruita dopo il Primo conflitto mondiale, tuttora narrazione perdurante: in loro si dispiega compatta, direi in maniera cinematografica, la conduzione borghese dei personaggi, nel copione dei vizi e virtù. Né l’antico è sbarramento al moderno, àmbiti entrambi cari al poeta, e non di rado volutamente accostati. Riti e effetti non inattesi ripropongono episodi significativi d’antico. Nell’epilogo, per esempio, del poemetto appena citato, l’intervento del moderno è auspicato, ma nel riproporsi di forme rituali, proprie del sacro antico, con un effetto piuttosto fantastico che ironico: «Amici miei! / Bisogna che restiate in silenzio…/…Trenta rose di dinamite rallegrano il poeta./ Più libero riprendo la lode del freddo./ Che gli dei vengano!/ Ho finito tutto./ Ho previsto tutto./ La città di Eleusi è stata costruita con la neve».
Nel caso, il tono avvicina il poeta ai futuristi. E, in effetti, l’autore accoglie convinto le innovazioni della tecnologia, l’elettrificazione in primis: ma l’effetto che egli apprezza è mirato non alla distruzione, ma al recupero e alla cura, guardando con solidale pietà alle creature, di ogni tempo, di ogni classificazione. In mezzo c’è la guerra, il Primo conflitto mondiale, quella fase che include molti altri dossier di eventi, di culture, di brevetti e accademie – che non sono ancora sufficientemente annoverati come concomitanti. Per Périer la “guerra” non è un simbolo di progresso: è caos e sofferenza intorno ai quali più si avvertono gli angeli. Ecco come il poeta dà risalto al dolore, denunciando la distruzione della “città”, certo bellica e forse di Lovanio, – poiché il Belgio conobbe già nel Primo conflitto mondiale la guerra contro i civili –: «Una foresta d’angeli/ suona e cammina: è un organo. / Si fendono nebbie/ su tutta la mia città in rottami./ Dio! Il triste corpo/ tra questi muri, sotto queste corde! / Macerie. Scenari./…» (Disastro). Ripeto: in Périer frequente è la menzione di “angeli”, presenze altre e pietose, non attribuibili a specifiche tradizioni teologiche. Essi stessi, non di rado, sono in difficoltà, e vanno aiutati: ma anche, benevoli nella loro diversità, tali che indicano “spiagge” e “grazia” al poeta, così da aumentarne la virtù.
Lascio l’autore, non senza citarne quello che leggo come un madrigale d’amore:
«Tu lo vedi senza irritarti:/ la mia finestra bella e scura/ con i ruscelli del giallo Ottobre/ compete per la luminosità.// Immergi allora nel mio giardino/ le tue braccia bagnate da tenebre:/ il fogliame è più funebre/ che questi gesti incerti./ Sono qui due perfidie/ dell’estate. Ti informo/ già troppi antichi legami/ a questo incantatore ti legano. // Scuoti un po’ i tesori/ impalpabili che essa ti dà,/ e attenderemo l’autunno/ come dei marinai al porto (Complicità).
Dopo tante considerazioni, insomma, non mi sorprende più lo sdoganamento della parola “ripescaggio” che, ripetuta a tutti i livelli, sta diventando luogo comune. Già internet rileva il lemma e diligentemente ne indica l’importanza economica, un’attività editoriale riguardante autori e autrici finora in disparte, che si ritiene divenuta ora redditizia [3]. Così mi dico, mentre anche sul supplemento culturale del «Sole 24 ore» di domenica 6 agosto 2023 il primo titolo, dedicato a Giorgio Caproni finalmente “scoperto” come pensatore immerso in un’ampia riflessione, indica nel sommario, quasi indicizzando: “Ripescaggi”. Ma come considerare quest’uomo, poeta-filosofo-maestro-musicista dall’animo libero, un intellettuale passato inosservato? Forse, concludo, tutto questo è davvero prova che la contingenza contemporanea calibrata sui media della tradizione novecentesca non ha costruito ancora, o non ha voluto costruire, gli archivi appropriati. Intanto, mi dico cercando di disegnare la panoramica che ora si va correggendo, ha tagliato il mondo in aree senza considerare le culture là dove il tenore degli scambi risultava in regime di egemonia commerciale. Né ha messo in conto che i commerci, per quanto assicurati da egemonie, non sono antitesi al fondarsi di culture, nelle aree sia pure tenute a vincoli. Anzi, si sono talora elaborate giustificazioni al disinteresse per le comunità che erano lasciate, e forse preferite, in disparte: presunti localismi, meticciati, culture vernacolari che, tenuti in ombra, non mettevano in crisi interpretazioni considerate accreditate e solide. La crisi accade ora, con la disponibilità pronta di tecnologie che rendono facilmente accessibili archivi sonori non meno che visivi e che sono in grado di incrociare narrazioni con protagonisti, informazioni, schemi narrativi non consueti. Il 1° luglio del 2022 la scrittrice Michela Murgia, su «Vogue.it», spiegava il successo internazionale, con scene da fanatismo, della band sudcoreana “BTS” (ovvero “Bangtan Boys”): non un affare d’area, diceva allora, ma «difetto di etnocentrismo … snobismo verso tutto ciò che non è espressione dell’Occidente in cui ci riconosciamo».
L’ondata dei riposizionamenti culturali, dei “ripescaggi” e delle ricostruzioni anche nei capitoli di storia è appena cominciato. Tutto questo è per ora caotico: e gli esiti sono imprevedibili. Una delle realtà più mistificate, per esempio, è quella dei Nativi Americani: un soggetto che è stato espunto dalla storia, con una operazione chirurgica che può aver falsato in molti aspetti le ricostruzioni, particolari e generali, invalse nel XX e XXI secolo. Nella narrativa e nella cinematografia, anzi, si sono creati filoni che hanno propagandato e inculcato una storia settoriale, che può definirsi non solo inconsistente, ma persino infamante: si sono surrogati i soggetti storici con miti stralunati. La compressione della loro civiltà fu contemporanea a quella afroamericana, nel corso del XIX secolo e nel passaggio al XX. Ma l’intreccio delle diverse documentazioni ora fa riaffiorare spezzoni di storie tanto importanti quanto nascoste. Noto per esempio che nel giugno 2023 ha avuto risonanza una iniziativa del musicista e musicologo Luca Sapio, con una trasmissione a puntate per la piattaforma Rayplaysound che, sostenendo la centralità attuale della “Black Music”, la cultura afro, rintraccia come questa fu oppressa e discriminata in USA, a partire dal tempo del Presidente Thomas Jefferson. Le indagini sui contatti di quell’epoca condurranno, credo, in breve all’oppressione che subirono gli stessi Nativi, che in molti episodi ebbero collegamenti con i movimenti afro.
Basterà correggere qualche margine della storia? Se questo trend, di aprire e incrociare archivi di varie espressioni, continuerà, e porrà in crisi a fondo l’attuale contenitore della storia, si potrà ricostruirne una più affidabile, o si incroceranno nuove derive e focolai di contese?
Nel gruppo degli autori di cui si annunciano riedizioni e ravveduti giudizi si nota, e con particolare frequenza, il nome di Anna Maria Ortese, valorizzata ora come non le era accaduto essendo in vita, lei che ha scritto opere profonde a partire dal 1932, ancora adolescente: un ripescaggio convincente, constato, rileggendone non di rado pagine, sempre feconde, nel punto di vista espresso. Ne colgo infatti via via la filosofia del mondo, congrua con uno sguardo che fluttua tra umanità e vita generale. Minimizzavo prima quei concetti, quando non solo le cronache, ma anche critici prestigiosi la velavano sotto indifferenza o incomprensione. Ora, nella contingenza presente, ho tra le mani l’originale “intervista – trattato filosofico”, tale mi piace definirla, intitolata Corpo celeste (Milano, Adelphi, 1997, scritti risalenti al 1974-1989). Del titolo si ritrova la spiegazione nella critica all’adulto, al suo linguaggio che progressivamente diventa povero e ottuso, quindi falso, che la induce a dare rilievo al “fanciullo, e l’adolescente”: «Egli capisce ciò che l’adulto non capisce più: il mondo è un corpo celeste, e tutte le cose, nel mondo e fuori, sono di materia celeste, e la loro natura, e il loro senso – tranne una folgorante dolcezza – sono insondabili».
Come si vede, pensare il mondo nell’umano, e oltre l’umano, è un aspetto che avvicina questa scrittrice, certo in modo inconsapevole, al più antico Odilon-Jean Périer. La correlazione è suggestiva: ma credo sarebbe astorico affermare in modo precipitoso che l’esperienza è analoga. L’analogia non di rado è matrice di congiunzioni spurie. Le scelte di ognuno sono da situarsi nel contesto specifico, documentato: in particolare, nel richiamarsi a studi che hanno avuto sviluppi, interpretazioni controverse, manipolazioni e utilizzazioni ad opera del quadro politico, l’intercettazione degli ascendenti deve essere ben approfondita: così come farebbe il connaisseur nell’attribuire l’autore di un quadro.
Mi piace chiudere questa riflessione, lunga, inevitabilmente tortuosa – data l’attualità magmatica – con un brano di Ortese, credo significativo, dallo stesso libro, in cui l’autrice presenta, dell’uomo nella contemporaneità a partire dalla rivoluzione francese, l’ottuso sperpero del mondo:
«…Precipitò la grande Religione Economica. Un paradiso fu promesso a tutti: ma bisognava lavorare e distruggere in se stessi e tutto intorno la vecchia madre Natura, e la sua legge, e il complesso delle sue leggi. Fu fatto. Derivarono da ciò tutte le altre religioni del vivere, e nacque l’uomo moderno. L’uomo «occidentale» con la sua «cultura»: che, se guardi bene, è solo cultura del numero (dell’Utile). E del proclama. Sotto l’utile e il proclama, di tutti i miglioramenti, domina e lavora un solo signore: il Massacro. Tutta la Natura è fatta a pezzi, e venduta, mentre noi sogniamo la Felicità universale, e la Terra, sotto i nostri piedi, scricchiola».
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Note
[1] Defrenne, Madeleine, Odilon-Jean Périer, Bruxelles, Palais des Académie, 1957 : <https://www.arllfb.be/publications/essais/perier.html)>; Hougardy Maurice, Defrenne (Madeleine). Odilon-Jean Périer. [compte-rendu], in «Revue belge de Philologie et d’Histoire», Année 1958/ 36-4/ pp. 1324-1325. Numéro thematique: Histoire dépuis la fin de l’Antiquité – Geschiedenis (sedert de Oudheid) <https://www.persee.fr/doc/rbph_0035-0818_1958_num_36_4_2248_t1_1324_0000_2>).
[2] Hougardy Maurice, Defrenne (Madeleine). Odilon-Jean Périer. [compte-rendu], in «Revue belge de Philologie et d’Histoire», Année 1958/ 36-4/ pp. 1324-1325. Numéro thematique: Histoire dépuis la fin de l’Antiquité – Geschiedenis (sedert de Oudheid) <https://www.persee.fr/doc/rbph_0035-0818_1958_num_36_4_2248_t1_1324_0000_2>).
[3] Lugli, Ludovica, Cos’è il ripescaggio di un libro https://www.ilpost.it/2022/03/18/editoria-ripescaggi-ditlevsen-fazi-adelphi/
Riferimenti bibliografici
Caproni, Giorgio, Il poeta è un minatore in cerca della verità (Ripescaggi. Nel volume «Sulla poesia», Giorgio Caproni, in una conferenza del 1982, spiega come scrivere versi significhi calarsi nelle gallerie dell’anima e lì attingere quei nodi di luce superficiali comuni a tutti). Tratto da: Giorgio Caproni, Sulla poesia, a cura di Roberto Mosena, postfazione di Flavio Santi, Roma, Italo Svevo editrice, 2023, in «Domenica. Il Sole 24 Ore», 06/08/2023: I
Eco, Umberto, Autobiografia intellettuale, in La filosofia di Umberto Eco con la sua Autobiografia intellettuale, a cura di Sara G. Beardsworth e Randall E. Auxier (in lingua inglese), 2017, Library of Living Philosophers, a cura di Anna Maria Lorusso (in lingua italiana), Milano, La nave di Teseo, 2021: 3-73, 45
Idem, La memoria vegetale e altri scritti di bibliofilia, La Nave di Teseo, Milano 2016
Idem, I passi del gambero 2016, in Idem, A passo di gambero – Guerre calde e populismo mediatico, Milano, La nave di Teseo, 2016 (2006¹): 11–18, 14
Idem, Sulle spalle dei giganti, in Idem, A passo di gambero – Guerre calde e populismo mediatico, cit.: 467-492, 473 e 483
Idem, La perdita della privatezza, in Idem, A passo di gambero – Guerre calde e populismo mediatico, cit.: 119-133, 122.
Giartosio, Tommaso, Tutto quello che non abbiamo visto. Un viaggio in Eritrea, Torino, Einaudi, 2023
Guidantoni, Ilaria, Odilon-Jean Périer, poeta della poesia, in Carmi, cit.: 5-122
Ortese, Anna Maria, Corpo Celeste, Milano, Adelphi, 1997
Périer, Odilon-Jean, Carmi, (titolo originale: Poèmes) tradotti da Ilaria Guidantoni, Firenze, Lorenzo de’ Medici Press, 2023.
Sitografia
Defrenne, Madeleine, Odilon-Jean Périer, Bruxelles, Palais des Académie, 1957 : <https://www.arllfb.be/publications/essais/perier.html)>
Hougardy Maurice, Defrenne (Madeleine). Odilon-Jean Périer. [compte-rendu], in «Revue belge de Philologie et d’Histoire», Année 1958/ 36-4/ pp. 1324-1325. Numéro thematique: Histoire dépuis la fin de l’Antiquité – Geschiedenis (sedert de Oudheid)
<https://www.persee.fr/doc/rbph_0035-0818_1958_num_36_4_2248_t1_1324_0000_2>
Lugli, Ludovica, Cos’è il ripescaggio di un libro <https://www.ilpost.it/2022/03/18/editoria-ripescaggi-ditlevsen-fazi-adelphi/>
Murgia, Michela, Gli idoli del K Pop, sono le nuove icone della moda. E Michela Murgia ci spiega perché. News 1 luglio 2022 <https://www.vogue.it/news/article/lisa-taehyung-kpop-moda-michela-murgia>
Settimini, Marco, Odilon-Jean Périer. Ritratto (“Tutti avevano visto degli angeli… Su Odilon-Jean Périer, il poeta che ha ispirato “Il cielo sopra Berlino” ma che nessuno si azzarda a citare”) in «Pangea News» 02 dicembre 2019 <https://www.pangea.news/odilon-jean-perier-ritratto-settimini/>
Sapio, Luca, Afroamerica. Blackmusic revolution – 22. 6. 2023 (6 puntate) https://www.raiplaysound.it/programmi/afroamerica-blackmusicrevolution
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Franca Bellucci, laureata in Lettere e in Storia, è dottore di ricerca in Filologia. Fra le pubblicazioni di ambito storico, si segnalano Donne e ceti fra romanticismo toscano e italiano (Pisa, 2008); La Grecia plurale del Risorgimento (1821 – 1915) (Pisa, 2012), nonché i numerosi articoli editi su riviste specializzate. Ha anche pubblicato raccolte di poesia: Bildungsroman. Professione insegnante (2002); Sodalizi. Axion to astikon. Due opere (2007); Libertà conferma estrema (2011).
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