di Giuseppe Sorce
Ultimamente faccio sempre la stessa strada. Avanti e indietro, casa-scuola, dove insegno come supplente. Città-provincia inoltrata. Ultra densità abitativa-spazi ampi e luce diffusa, strada distesa che si inoltra nella valle fra le montagne e la costa aspra a ovest del capoluogo. Questo per dire che? Per ricostruire lo sbalzo fra i paesaggi del quotidiano di una vita qualunque in un posto qualunque dell’Italia pandemica inizio 2021.
Immaginate allora dei mesi passati a guardare sempre lo stesso mondo dalla finestra. Immaginate ora di essere riproiettati verso un altro itinerario fisso, costante, fra un punto A (lo stesso dei mesi del lockdown/zona rossa) e un nuovo punto B, fino ad allora sconosciuto. Accade così che una strada raramente percorsa prima si apra, a causa della inedita nuova frequenza, a uno sguardo nuovo in termini di ampiezza e profondità, ancorché curiosità. Se infatti un determinato percorso da A a B viene normalmente individuato appunto come percorso, la frequenza nel tempo, la ripetizione del tragitto consente alla cognizione spaziale di tale itinerario di modificare la propria espressione. Ciò che prima veniva esperito come mero percorso appunto adesso è una strada interiorizzata che pertanto, quasi naturalmente, richiede di essere più largamente osservata e nel suo incedere e nel suo estendersi e nel suo virtuale diramarsi nello spazio attorno.
È così che ogni giorno noto una montagna le cui forme prima non avevo mai colto, un declivio di cui non mi ero mai accorto, una baia nella costa lì dove pensavo ci fossero invece altri scogli aguzzi. Perché questa strada pare distendersi sulla valle costeggiando il mare perciò lo sguardo di chi la attraversa e la percorre è portato ad aprirsi in ampiezza e a diffondersi fin dove riesce a protendersi: fra le radici delle montagne indovinando dove inizieranno le case, dove finisce quel o quell’altra cittadina e dove inizia l’altra, se e in che modo c’è un fiume che scorre e nel frattempo chiedersi per quanti minuti ancora le cime tratterranno le nubi invernali cariche di pioggia, come e quanto le strade interne, malconce, tollereranno l’acqua che cadrà giù dal cielo.
Percorrere questa strada, attraversare le distanze, in auto da un punto di vista percettivo ovviamente condiziona l’esperienza dello spazio costretta quasi a “sfogarsi” lì dove e come può ed è per questo che lo sguardo, unica entità volitiva nell’ipnosi dell’automobilista, spazia con il pensiero e si espande tutt’attorno fin dove può, fin dove arriva. Il resto viene colmato dall’immaginazione cioè ciò che mi faccio bastare per esplorare i luoghi in cui ancora non mi sono inoltrato, tenendomi stretto come detto solamente al percorso da A a B. Così i luoghi e gli abitanti, le piazze, le vie, i capannoni industriali, del territorio che attraverso mi rimangono ignoti più delle cime delle montagne che circondano il mio sguardo da (letteralmente) passeggero, le macchie boschive sui fianchi delle colline le distinguo perfettamente, le imparo di volta in volta, le riconosco. Così non è per i luoghi né quindi per il territorio che pur sento pulsare, sento vivere e funzionare ad ogni passaggio. Ricostruisco allora la mia storia di quel territorio, osservo al passaggio i bar, i depositi, i centri commerciali, le fabbriche, le ville abbandonate e quelle lussuose, i marciapiedi talvolta crepati, la segnaletica oscurata dalle sterpaglie.
Fin qui, finora, luoghi e spazio sono stati i due poli principali, i due fuochi attorno i quali un certo modo di intendere la geografia ha costituito l’orbita essenziale dei miei studi. Porto avanti una riflessione su luogo e spazio da più di un anno, ho seguito alcuni maestri, ho fatto mie importanti lezioni nell’ambito della geografia e dell’antropologia. Fin qui, finora, ho cercato di coniugare una certa vocazione geografica al necessario confronto con le implicazioni epistemologiche ed ermeneutiche che l’Antropocene porta con sé. Chiedersi infatti quale sia il destino, accademico e non, della geografia alla luce del cambio di prospettiva a favore dell’ecologia è lecito.
Come già detto e già osservato da ben più autorevoli pensatori, la geografia in quanto disciplina sta attraversando una crisi da più di un decennio. A ciò dobbiamo al contempo l’impegno di studiosi e autori nel tentativo di spostare l’orizzonte proprio della geografia ai saperi geografici, ritornare quindi a pensare la geografia non come complesso di nozioni cartografiche bensì come attitudine del pensiero di Homo. Per tali ragioni l’idea di una Neogeografia [1], oltre che essere affascinante, è quantomeno necessaria.
In un rinnovamento della geografia in qualità di pensiero geografico, ossia quella forma cognitiva che si riassume nella farinelliana questione del “chiedersi come il mondo funziona” [2], mi permetto con convinzione di affermare che si inserisce il recente lavoro di Alberto Magnaghi Il principio territoriale, edito da Bollati Boringhieri (2020). Questo testo infatti si prende sulle spalle un compito mastodontico che sembrava quasi impossibile. La premessa è proprio sul “territorio”, parola-concetto da cui quasi sempre mi sono tenuto alla larga. L’obiettivo di Magnaghi è su questo chiaro e, ripeto, mastodontico, come lui stesso scrive nell’introduzione al testo. L’intento del libro è quello di indagare
«il ruolo che può assumere una visione attiva del territorio e dei suoi abitanti nel delineare strategie per la salvezza dell’ambiente dell’uomo, gravemente minacciato dalle crisi sociali e ambientali in atto. La tesi che sostengo attribuisce a questo ruolo (divenuto marginale nei modelli socio-economici contemporanei) un’importanza primaria».
L’intento è chiaro. Territorio e abitanti sono i due referenti di un percorso interdisciplinare che l’autore non ha timore di intraprendere, spinto anch’egli dall’inalienabile confronto con i risvolti geo-grafici dell’Antropocene. Le parole chiave, i punti critici, le coordinate ci sono tutte: visione, strategia di salvezza dell’ambiente dell’uomo, crisi sociali e ambientali. Non si tratta quindi solo di una ricerca consapevole ma anche di coraggio nell’individuare le vere sfide intellettuali e operative e provare a proporre nuovi strumenti, elaborare visioni, ripensare il mondo e le relazioni umane con l’ambiente e con e tra le culture.
In questa evocata Neogeografia, Magnaghi si preoccupa quindi di costruire un lavoro che non può non prescindere dagli strumenti del mestiere, cioè le definizioni dei concetti chiave, parole-idee, immagini-tool, che inevitabilmente condizionano la percezione del fenomeno che si intende indagare. Qualora si tratta di un fenomeno-problema, come nel caso delle conseguenze ambientali, paesaggistiche, territoriali e bioecologiche del cambiamento climatico, e ancora più urgente delineare la prospettiva tecnica e intellettuale che le parole-idee-concetti che usiamo ci consentono di percepire e rappresentare, oltre che tentare di risolvere. Ecco che ritroviamo una preziosa ridiscussione di ciò che si può pensare come la Natura, la Terra, lo Spazio e il Paesaggio, e ovviamente, il Territorio, ossia l’ambito complessivo in cui, secondo Magnaghi, si può e si deve realizzare il tentativo di fronteggiare la crisi climatica e, aggiungo, la crisi cognitiva, gnoseologica e di immaginazione, che l’Antropocene porta con sé [3].
Il territorio, definito “ambiente dell’uomo”, diventa così, «storicamente un neoecosistema vivente». «Città, colline terrazzate, campagne lavorate, infrastrutture, boschi coltivati, hanno metabolismi che si trasformano nelle successive civilizzazioni, ma pur sempre metabolismi che connotano le strutture viventi», ossia quel pulsare di vita, relazioni e interrelazioni, quell’intrecciarsi di legami e interconnessioni fra le “parti”, gli attori e i soggetti tangibili in un ambiente e che sono palesi già in un semplice passaggio in automobile per uno sguardo nuovo.
Dall’idea infatti che il territorio rappresenti soltanto l’ambito politico di controllo di una determinata porzione della Terra, Magnaghi ci invita invece a ripensare il territorio alla luce della sua natura ibrida, e cioè in termini di “neoecosistema” vivente poiché «contiene e rende sinergici al suo interno nuovi elementi sia artificiali (i terrazzi a secco, le infrastrutture idrauliche e agricole, i capanni, le case rurali, i borghi, i sentieri ecc.) sia naturali (la nuova vegetazione, il nuovo microclima, i nuovi deflussi delle acque, il nuovo humus ecc.)». Riprendendo l’idea del territorio in quanto soggetto, è l’insieme di neoecosistemi ibridi quindi, nella loro composizione così come nel funzionamento, e interconnessi a fare un territorio, e proprio per questo è un “bene comune” «nel senso che esso rappresenta la condizione di sussistenza non già di un gruppo umano limitato, ma della specie umana stessa nella sua lunga durata e pluralità di civilizzazioni».
In questo senso il rapporto fra luogo e territorio è quanto mai stretto ed essenziale dal punto di vista del processo di riconsiderazione del territorio che Magnaghi propone come direzione per il superamento dell’immobilismo politico-tecnologico di fronte all’emergenza climatica, immobilismo a sua volta frutto di una staticità cognitiva in quell’atto di “pensare la Terra” che costituisce la Geografia in quanto indole del pensiero umano, prima che disciplina di studi. Magnaghi infatti costruisce una fitta rete operativa che è allo stesso tempo un processo di decostruzione degli strumenti geografici e un lavoro di ripensamento del rapporto fra luoghi, ambienti, ecosistemi e abitanti. Il principio territoriale inaspettatamente ridà linfa al dibattito in seno alla geografia non solo in quanto speculazione extra-cartografica ma soprattutto come coordinata politica, a tutti gli effetti. A tal proposito Magnaghi ci parla di ciò che lui definisce “conversione ecologica”, ossia
«un insieme di strategie, politiche e azioni per la cura del pianeta e delle sue ecocatastrofi per la sopravvivenza della specie umana attraverso azioni per il riequilibrio dell’insediamento umano e la biosfera. Questa prospettiva è ormai senso comune, oggetto di politiche in molti settori e di studi multidisciplinari. Tuttavia essa comporta, come ho scritto nell’introduzione, diverse condizioni per essere praticata: la prima è una crescente coscienza di specie come guida delle azioni umane (da cui governi che guerreggiano, imprese che sfruttano e popoli che competono fra loro sono ancora lontani, ma a cui molte indagini scientifiche e i recenti movimenti giovanili per contrastare la crisi ambientale sono molto vicini); la seconda è che, per essere effettiva, essa deve superare misure di settore (ad esempio applicazioni di tecnologie ed economie verdi o “circolari” finalizzate comunque al profitto di mercato); la terza è che non può essere perseguita solo globalmente ma deve riguardare soprattutto politiche riferite localmente ai caratteri socio-economici peculiari di ogni territorio. E qui ho introdotto nella definizione la piegatura territorialista che intendo attribuire alla conversione ecologica come pratica collettiva (non tecnocratica) che ne condiziona la realizzabilità, agganciando la crescita della coscienza di specie alla crescita della coscienza di luogo».
Da questo breve estratto notiamo come la proposta di Magnaghi coinvolga davvero con respiro ampissimo tutti i fattori necessari ad una vera, reale, reazione in termini di proposta politica, filosofica, geografica, scientifica e antropologica, alla crisi globale del clima. Una su tutte, quasi mai dibattuta seriamente dagli organi decisionali internazionali: la coscienza di specie.
Il testo è davvero corposo e pieno di spunti diretti all’azione nei termini di progettazione urbanistica, agricola, ambientale, economica, di servizi e così via, mantenendo una costante prospettiva orientata agli abitanti che in diacronia e sincronia costruiscono, rappresentano, immaginano, plasmano i luoghi e il territorio [4]. Il lavoro di risemantizzazione che inizia Magnaghi sfocia infatti nell’audacia della sua proposta geografica che è a tutti gli effetti politica – e nel fare questo, oltre che nel dirlo, Magnaghi restituisce quel naturale rapporto di filiazione che c’è fra il pensare la Terra e il pensare l’umanità che la abita. A tale proposito, felicità pubblica e benessere degli abitanti sono le direttive dell’utopia reale che l’autore propone.
Fra le varie mosse auspicabili in risposta alle crisi climatiche e sociali, Magnaghi invita a «una aspirazione all’autogoverno dei luoghi fondato sulla valorizzazione del patrimonio territoriale come bene comune, nell’ambito di uno sviluppo locale autosostenibile». Per fare ciò, fondamentale è rispondere alla crisi delle democrazie occidentali attraverso una propensione rinnovata alla democrazia partecipativa (più che rappresentativa) che sappia quindi restituire con maggiore fedeltà i contributi delle comunità locali ai processi territoriali alla luce della cruciale, afferma Magnaghi, «relazione inscindibile fra democrazia di luogo[5] e democrazia di comunità, nel senso che la riappropriazione dei poteri di decisione sul proprio ambiente di vita non può che essere collettiva, locale, diretta, e non delegata».
Secondo la sua analisi, senza mezzi termini, la frammentazione democratica va di pari passo con la frammentazione dello statuto economico-produttivo territoriale, perciò a una risposta democratica orientata all’autosostenibilità non può che corrispondere una risposta sul piano della progettazione economico-produttiva che sia il più possibile aderente a ciò che l’autore identifica come un “multiverso” di attori e pratiche sociali innovative[6], il quale, per forza di cose, deve però essere prima riconosciuto e conosciuto nelle sue dinamiche. A tali scopi, Magnaghi afferma che è necessario quindi riconoscere, per valorizzare e utilizzare, ciò che emerge “dal basso” dal territorio (reti auto-organizzate, associazioni di cittadinanza attiva, community, pratiche abitative collettivizzate e sperimentali, imprese e reti di economie solidali)[7] e migliorare il funzionamento di ciò che già c’è (ecomusei, piani paesaggistici regionali, piani città-campagna, ecc.).[8]
Alla luce di ciò, l’audacia della proposta dell’autore sta nell’immaginare un eventuale e positivo «rovesciamento del sistema decisionale attuale», che possa andare cioè non dalle reti nazionali e interazionali al territorio, col rischio di perdersi, ingarbugliarsi e depotenziarsi, bensì «dal territorio che esprime socialmente un progetto unitario di trasformazione, fondato sull’impegno sociale diretto degli attori locali in forme innovative ai settori regionali e nazionali di decisione e finanziamento» (ibidem).[9] Magnaghi chiama “asimmetria culturale e politica” quegli inceppamenti e frizioni che impediscono e complicano un dialogo efficace fra ciò che accade nel territorio e ciò che viene pensato, in senso lato, organizzato, gestito e regolamentato dagli organi nazionali. Questa asimmetria «moltiplica le difficoltà presenti per concretizzare gli orizzonti di nuova civilizzazione che vanno emergendo nelle pratiche di democrazia dei luoghi e di autogoverno comunitario».
Secondo Magnaghi il cuore politico del nuovo principio territoriale è la «costruzione di nuovi istituti di autogoverno» che possano strutturare e incentivare quanto già accade a livello locale.[10] Pertanto la sfida all’autogoverno comunitario si vince attraverso lo spostamento di prospettiva politica verso le “bioregioni urbane” [11], cioè la nuova dimensione geografica dell’abitare che Magnaghi definisce in seno al ripensamento dell’ontologia territorio, al quale deve corrispondere un relativo istituto di governo che garantisca la dimensione locale degli istituti di democrazia comunitaria in senso partecipativo.
Il ribaltamento semantico che propone Magnaghi infatti va di pari passo con la proposta geografica nella sua intima relazione politica e gestionale dei luoghi nel loro realizzarsi nell’ecosistema, cioè proprio il territorio che, ripensato e riformulato si propone come soggetto imprescindibile per ripensare il mondo tutto. E non solo. Ciò a cui conduce Il principio territoriale ci porta a ripensare la dualità globale-locale, naturale-artificiale, umano-animale, sostenibilità-progresso, luoghi-spazi, flussi digitali-flussi materiali. Se il pensiero dicotomico è nei fatti una delle zavorre cognitive che spesso impediscono le elaborazioni di soluzioni complesse a problemi ancora più complessi, una nuova idea di territorio si candida ad essere quel prezioso strumento cognitivo per ripensare le geografie reali e mentali in funzione della non-linearità del mondo a venire antropocenico [12]. La visione sul territorio, sull’abitare e sull’azione politica è infatti ciò che primariamente animava la riflessione geografica e ciò che oggi deve riorientarne la riflessione “in quanto specie” dell’umanità tutta. Riscrivere il territorio è quindi riflettere e lavorare sul futuro della geografia e sulla geografia del futuro. Ripensare il territorio significa quindi cominciare a costruire quello strumento-ponte che può ancora tenere insieme la Terra e l’umanità che la pensa, la inventa, la sogna e la rappresenta sin da quando la abita.
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] Ne ho parlato nei miei precedenti contributi qui su “Dialoghi Mediterranei;” il riferimento preciso è chiaramente a Meschiari M. 2019, Neogeografia, Milano, Milieu edizioni.
[2] Fondamentali in questo i riferimenti a Farinelli F. 2003, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Torino, Einaudi; Febvre L. 1980, La Terra e l’evoluzione umana. Introduzione geografica alla storia, Torino, Einaudi; Sloterdijk P. 2006, Il mondo dentro il capitale, Roma, Meltemi.
[3] Si veda Ghosh A. 2017, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Vicenza, Neri Pozza.
[4] A proposito delle problematiche progettuali, politiche e concettuali relative alle misure necessarie ad affrontare la crisi climatica, Magnaghi afferma proprio che «tenendo conto di questi limiti, avanzo l’ipotesi che una efficace inversione di rotta, in grado di affrontare strategicamente la crisi ambientale, sia possibile solo ricostruendo nella sua complessità il rapporto fra abitanti e territorio abitato, rimettendo in discussione tutti gli elementi di produzione dello spazio; ciò richiede, nella nostra ipotesi territorialista, di ricostruire prioritariamente “dal basso”, da parte di “comunità territoriali” innovative, regole, comportamenti, culture e tecniche ecologiche dell’abitare e del produrre che, attraverso una crescita della “coscienza di luogo”, restituiscano agli abitanti la capacità di riproduzione dei propri ambienti di vita e di autogoverno socio-economico (principio territoriale). In questa prospettiva il territorio degli abitanti diviene una categoria centrale della conversione ecologica, aprendo la prospettiva dell’eco-territorialismo. In questa prospettiva il territorio degli abitanti diviene una categoria centrale della conversione ecologica, aprendo la prospettiva dell’eco-territorialismo. In questa prospettiva il territorio degli abitanti. Incentrare il progetto di futuro sulla salvezza dell’ambiente dell’uomo (che comprende la ricostruzione delle relazioni coevolutive dell’insediamento umano con la natura attraverso l’autogoverno delle comunità insediate) anziché sulla salvezza della natura toutcourt, ci conduce ad affrontare la conversione ecologica nella prospettiva e con gli strumenti di una nuova civilizzazione antropica che sia in grado di rimettere in sinergia città e campagna, di ricostruire nuove forme e metabolismi dell’abitare urbano e, soprattutto, riesca a restituire lo statuto di abitanti, capaci di autogoverno territoriale nei loro mondi di vita, agli attuali produttori e consumatori governati da flussi globali e trasformati in clienti di multinazionali a-territoriali».
[5] Dove con democrazia dei luoghi si intende «una forma di autogoverno che radica il proprio statuto sulla essa in valore autosostenibile della ricchezza patrimoniale del territorio».
[6] Si rimanda a Magnaghi A. 2020, Il principio territoriale, Bollati Boringhieri: 217. Queste pratiche sono massimamente “locali”, nel senso che funzionano e rappresentano quella coscienza e democrazia dei luoghi citata, per esempio: spazi di coworking, cohousing, associazioni di mutuo soccorso, ma anche reti cooperative nate e gestite online, community, ecc.
[7] Vedi nota precedente.
[8] Il riconoscimento delle pratiche dal basso del territorio è conditio sine qua non, come afferma Magnaghi stesso: «il riconoscimento di questa ricca e variegata “vita sociale ed economica”, che ritesse la relazione fra mondi di vita degli abitanti, produttori e “luoghi”, ci impone di fare i conti, a partire dal mancato ruolo gestionale e politico degli Enti pubblici territoriali, con una radicale sproporzione e asimmetria, culturale e politica, fra i soggetti istituzionali e i potenziali attori del cambiamento» (ivi: 233).
[9] Riconoscere per comprendere e far funzionare, riconoscere come atto primo di un processo volto a dare forma e concreta a quello slancio utopico necessario al solo poter pensare, pre-vedere, pre-visualizzare, soluzioni possibili alle varie crisi (politiche, sociali, ambientali, economiche) antropoceniche. Sta qui infatti la critica implicita di Magnaghi, l’incapacità di riconoscere e contestualizzare con la dovuta rilevanza certe nuove istanze sociali si aggiunge (ne è sintomo, causa o conseguenza?) al rapporto complicato organi nazionali-territorio, che egli infatti suggerisce di invertire di segno proprio perché «la maggioranza degli obiettivi, delle vertenze e delle azioni portate avanti dalla cittadinanza attiva e dalle nuove forme solidali del lavoro non trova da tempo risposta nelle azioni dei governi nazionali e tantomeno locali, che sembrano rispondere al comando di interessi esogeni e di attori economici forti, poco coincidenti, come ho affermato, con una visione dell’amministrazione locale rappresentativa degli interessi degli abitanti/produttori, e poco intenzionati a risolvere strategicamente le criticità responsabili dell’abbassamento crescente della qualità della vita e del lavoro nelle periferie metropolitane e della desertificazione delle aree interne».
[10] Cfr. Magnaghi A. 2020, Il principio territoriale, Bollati Boringhieri: 236.
[11] Ibidem: 144-183; 243-244.
[12] Si veda a tale proposito Bonneuil C., Fressoz J.B. 2019, La terra, la storia e noi. L’evento antropocene, Treccani.
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
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