di Rosy Candiani
Che la Tunisia sia crocevia di popoli, terra di métissage esistenziale prima che culturale, e il Mediterraneo legame di integrazione tra popolazioni è ormai quasi luogo comune; quanto sia però una realtà radicata nei millenni su questo territorio può essere “respirato” attraverso uno dei luoghi culturali più rappresentativi di questo Paese, il Museo del Bardo.
Il Bardo non è solo una cartolina turistica della Tunisia: rappresenta una metafora vivente, attraverso i suoi mosaici, di questa realtà di condivisione: basti ricordare due simboli eccezionali, due mosaici più che famosi che racchiudono i simboli di quella che ancora oggi è la sintesi della vicenda umana nel suo rapporto con il mare, il viaggio, la condivisione di esperienze di vita: Ulisse, il migrante mai sazio di conoscenza e Virgilio, cantore di Enea, il migrante disperato per la distruzione della patria.
Potrebbe sembrare ridondante tornare per una visita a distanza di poco tempo (“Dialoghi Mediterranei”, 50, luglio 2021) al di là della sua indubbia importanza per numero e straordinaria rarità dei reperti esposti. Invero, si può dire che questo museo sia la realtà culturale che a Tunisi più da vicino ha subìto le vicissitudini politiche del Paese, dal 2011 ad oggi. Già nel 2021, presentavo la mia visita su queste pagine come una riapertura dopo, a ritroso, il Covid, dopo l’attentato sanguinoso del 2015, dopo la ristrutturazione nell’immediato periodo successivo agli eventi del 2011, riportando le parole della Direttrice Fatma Naït Yghil. La stessa che con il Ministro della Cultura Hayet Guettat Guermazi, il 13 settembre scorso ha riproposto, con parole non molto discoste dalle precedenti, la riapertura e l’auspicato ritorno alla normalità di questo travagliato Museo, dopo 780 giorni, due anni, di una nuova chiusura, rivolgendosi ad ambasciatori e diplomatici accreditati, presenti per la visita della rinnovata inaugurazione.
Ufficialmente chiuso per lavori di restauro per quei 780 giorni che hanno raccolto appelli, proteste e inquietudini da parte di conservatori ed esperti sulla sorte dei mosaici, in realtà diventato emblema delle scelte del Presidente Saied che, il 25 luglio del 2021, ha congelato le funzioni del Parlamento e sciolto il Governo, estendendo il blocco anche al Museo, la cui struttura era ritenuta troppo vicino alla sede dell’Assemblea Nazionale, e quindi a rischio per la sicurezza politica del progetto presidenziale.
Ma, al di là delle polemiche e dei discorsi inaugurali ufficiali, una nuova visita al Museo rivela effettivi importanti lavori di ripristino, riapertura di sale, ripensamenti del percorso espositivo che valorizzano i reperti, e alcune sorprendenti novità, che fanno di questo luogo una scatola magica di meraviglie e, come dissi, un “fedeoui”, un narratore instancabile di storie appartenenti a un passato che accomuna e unisce le sponde del Mediterraneo. Un Museo che non teme di mostrare immediatamente, al suo ingresso, una delle sue nuove meraviglie, con la consapevolezza che il visitatore non sarà poi deluso nel prosieguo della sua visita.
Di fronte all’entrata, un eccezionale mosaico pavimentale, di 6 metri per 5, accoglie il visitatore con una prima serie di affascinanti storie e misteri. Risalente al III-IV secolo d.C., il mosaico proviene da Haidra, la “felix Ammaedara”, una città dell’entroterra tunisino (governatorato di Kasserine), a pochi metri dal confine a nord con l’Algeria. La localizzazione della provenienza è sorprendente perché il mosaico è a tema marino, come mostra la sua iconografia: il tappeto centrale è contornato da una duplice bordura, una geometrica e una che offre un fondo marino con scogli e una fauna incredibilmente varia: delfini, anguille, triglie, torpedini, orate, seppie e calamari, polpi, ricci e ogni sorta di conchiglie, tutta la varietà ittica del Mediterraneo, così presente negli xenia e nei mosaici della Tunisia, ma anche dell’Italia, come, a solo titolo d’esempio, ad Aquileia.
L’immagine centrale, invece, è unica: il fondo verde di un mare pescoso con barche e Amori alati, rappresentati secondo la prospettiva e la visuale dell’osservatore e non fortuita, circondano quindici “isole” rappresentanti quindici luoghi del Mediterraneo, di cui 11 pervenute integre e identificate: Idalium (città interna dell’isola di Cipro), Naxos, Scyros, Paphos, Rhodos, Lemnos, Cythera, Erycos, Egousa, Cnossos e Cnidos. Per ciascuna si osservano elementi simili nella riproduzione e gli edifici possiedono portici, torri d’angolo e padiglioni talora su un rialzo.
Sul piano interpretativo il mosaico ha suscitato diverse reazioni e molte domande. Prima di tutto: cosa faceva questo mosaico, “il mosaico delle isole e delle città del Mediterraneo” in una località dell’entroterra così lontano dal mare? E, di conseguenza: cosa ha spinto il committente a chiedere questo soggetto così particolare per decorare la sua dimora?
La lettura delle immagini ci riporta all’idea della carta geografica; ma il mosaico non è una mappa, cioè una riproduzione dell’ordine geografico dei luoghi nel Mediterraneo: si tratta evidentemente di un itinerario di tipo differente, di una riproduzione attraverso la quale il proprietario della ricca abitazione nel ricevere i suoi ospiti esibiva le sue ricchezze, i suoi gusti e le sue conoscenze. Secondo Samir Aounallah, storico e archeologo dell’Istituto Nazionale del Patrimonio (si veda la sua ricca pagina su Facebook), verosimilmente i luoghi non erano ben noti al proprietario committente, la cui precipua preoccupazione era di mostrare agli invitati la sua conoscenza del mondo e la sua cultura greco-latina: probabilmente le città riprodotte erano sede di suoi commerci o attività, erano note ma non ben conosciute, scelte per stupire e appagare la vista con la ricchezza e la varietà.
L’attenta disamina di questi luoghi ha però suggerito all’équipe di restauro una lettura simbolica molto suggestiva, che avvalora l’idea di un periplo immaginario che travalica la reale conoscenza dei luoghi prescelti e il legame con le attività del committente per sottolineare, invece, la cultura sua e del disegnatore di questo mosaico: simbolismo, astrazione, raffinatezza culturale, sfumature cromatiche che contraddistinguono molti dei rappresentanti di questa aristocrazia locale, ormai concorrente rispetto alla cultura romana.
Tutti i luoghi rappresentati sono infatti legati al culto di Venere, che non è presente nel mosaico, al contrario delle numerose presenze della dea disseminate nelle sale del museo; sono gli Amori disposti attorno alle città e i toponimi a donare la chiave di lettura dell’opera, che trapassa la topografia delle isole, dei luoghi commerciali, trattati ma non conosciuti direttamente da questo nobile di campagna.
Tutte le isole legate al culto di Venere sono presenti, ma a indirizzare l’interpretazione simbolica in questo senso è soprattutto l’assenza della Sicilia in quanto isola, rappresentata per contro da Erice, piccolo centro dell’entroterra, uno dei luoghi omerici dedicati alla dea, luogo sacro e venerato da tutti i marinai del Mediterraneo, che intreccia un profondo legame di culti e miti con la città di Cartagine e la terra tunisina: i templi dedicati alla Venere Ericina di Erice e di Sicca Veneria, El Kef di oggi, non così lontano da Haidra-Ammaedara; i voli delle colombe sacre alla dea a collegare le due rive: come ricorda Alfonso Campisi nella brochure di presentazione dell’ultimo lavoro delle Officine Palmizi, la scultura “Venere Ericina”.
L’altro aspetto interessante di questo reperto è che il proprietario della dimora di Hammaedara non è un caso unico, ma un esempio di una realtà ben diffusa nella provincia romana: esempio di aristocrazia terriera o mercantile locale che ormai aveva assimilato e si era appropriata della cultura e del tenore di vita dei governanti provenienti da Roma. I mosaici appartenenti alle loro dimore e raccolti al Bardo ne sono testimonianza.
Non molto lontano dal mosaico delle Isole e delle città del Mediterraneo ne troviamo un altro esempio eclatante. Per conoscerlo dobbiamo percorrere la sezione delle steli e dei monumenti funerari: una straordinaria concreta testimonianza della capacità di assimilare e tollerare le diversità da parte delle antiche religioni pagane (Bettini, 2023: 131-133).
Per collocare questi reperti è stato ristrutturato lo spazio delle cisterne del palazzo, costruite in età Hafside tra il XIV e il XV secolo: la sezione è significativamente, e forse non casualmente, attorniata nelle sale contigue dalla possente presenza di attestazioni delle religioni monoteiste che si sono sovrapposte nel tempo sul territorio, dalla natura univoca e impositiva del loro messaggio: il libro della Torah, l’imponente battistero di epoca cristiano bizantina e le pagine del Corano blu nella sala dedicata alla città santa di Kairouan.
Un tempo oscuro e umido, lo spazio è stato ripristinato e reso accessibile attraverso una suggestiva passerella in vetro che consente di osservare le cisterne più in basso; una luce soffusa in blu porta i visitatori in questo mondo di confine tra la vita e la morte: accomunate dopo la loro esistenza terrena si trovano qui riunite testimonianze di persone di cultura berbera, punica e greco-romana: dal sarcofago romano in marmo con le nove Muse, o con le tre grazie, divinità greco-romane, circondate dalle quattro stagioni; al cippo funerario bilingue, in latino e neopunico, di Quarta figlia di Nyptan, con simbologia referente alla dea Tanit, o quello delle due figure dai tratti somatici punico-berberi.
Tra queste testimonianze è collocata una statua di estremo interesse, identificata come statua funeraria di epoca romana, proveniente da Borj El Amri (ossia Sidi Ghrib), rappresentante un uomo cui sono attribuiti i tratti di Ercole, soprattutto sulla base della pelle di leone, annodata al collo e alla cintura, sovrapposta alla corta tunica. Ma questa statua propone un sincretismo di simboli mitologici e anche di tratti realistici: nella mano destra tiene, al posto della clava erculea, dei papaveri, come nella mitologia di Morfeo, e al suo lato un cane, che ha il muso dello “sloughi”, il cane da guardia delle campagne attorno a Beja.
La statua è indubbiamente un ritratto realistico e non ha la fisionomia tipica di Ercole (altezza notevole, barba riccia, muscolatura sviluppata) secondo l’immaginario greco-romano: anche se la prospettiva risulta un po’ falsata dalla posizione in basso rispetto al visitatore, questi è in presenza di un uomo maturo, di bassa statura, forte ma non muscoloso, glabro e forse calvo, con lineamenti scavati in rughe espressive e un naso pronunciato: una fisionomia fortemente caratterizzata e tratti somatici punico-berberi.
La provenienza del reperto prospetta suggestive interpretazioni sulla identità di questo personaggio, sicuramente un notabile dell’aristocrazia terriera locale, che ha voluto lasciare una traccia di sé sotto i simboli di Ercole, l’eroe che tra innumerevoli difficoltà e senza perdere di vista l’obiettivo, riesce, pur non avendo sempre la fortuna a favore, a raggiungere una posizione di prestigio, a piegare con la sua azione il destino.
Una simbologia che ci riporta al contesto di Sidi Ghrib, ai resti del maestoso hammam privato (Candiani 2021) perso in questa campagna, e ci suggerisce l’identificazione tra l’uomo della statua e il proprietario dell’hammam costruito per il proprio piacere e prestigio e per il benessere dei suoi concittadini, come si evince dalla scritta sul mosaico di una delle vasche del “frigidarium”: «plus feci quam potui, minus quam volui, si placet comune est, si displicet nostrum est» (“feci più di quanto potei, meno di quanto avrei voluto, se piace è bene comune, se non piace è nostro”); dove volle, con un gesto fin troppo assimilabile a questo della statua, immortalare i lineamenti della sposa, ritratta nello splendido mosaico conservato nel museo a pochi metri dalla sua statua. Il destino sembra aver riavvicinato, nelle sale del museo, sotto le spoglie di Ercole il generoso signore di Sidi Ghrib e la sua sposa, riprodotta nei suoi lineamenti realistici, secondo i canoni di Venere alla toeletta, subito dopo il rito dell’hammam.
Sono testimonianze lontane dalla più famosa Cartagine, disperse nella ricca campagna alle spalle della costa, uniche nella loro simbologia, ma accomunate nella documentazione di una società benestante e colta, che sapeva trarre piacere dal lavoro e dalle ricchezze accumulate. Come testimoniano ancora i reperti, di nuovo finalmente visibili (dal 2009) dei palazzi di Oudna (Outhina), il maestoso sito archeologico a pochi chilometri da Tunisi e Cartagine, inaugurato nel 2009, tra gli ultimi gesti pubblici di Zinelabidine Ben Ali. I mosaici provenienti da Oudna, per lo più dalle terme e dalla enorme villa dei Laberii (2300mq e 30 stanze) presentano una fattura molto raffinata, a tessere minute e dai colori brillanti; e riportano, come quelli conservati al Museo di El Jem, al mondo dei miti greco-romani: Selene che contempla Endimione, Dioniso coronato di pampini, il ratto di Europa, la toeletta di Venere; e il grande mosaico di Orfeo attorniato dagli animali ammaliati dal suono della sua lira.
Non lontano da queste sale il Museo ha finalmente dato collocazione a un’altra scoperta di grande rilievo risalente agli anni ’90 e alla collaborazione tuniso-tedesca che diede avvio alla campagna di scavi del sito di Chemtou nel nord ovest della Tunisia: località numida e poi romana molto nota per le sue cave di marmo pregiato dal colore giallo con rare venature verdi, color zafferano, particolarmente apprezzato a Roma; in questo sito nel 1993 venne portata alla luce una brocca di terracotta contenente uno dei più ragguardevoli tesori in monete dell’antichità: 1647 monete d’oro per più di sette chili di peso, di età romana. «Una pioggia d’oro uscita dal suolo» la definì l’archeologo Mustapha Khanoussi che coordinava gli scavi volti alla costruzione del museo del luogo. Conservate in un primo momento nel piccolo museo, vennero poi trasportate al Museo del Bardo e ne condivisero le vicissitudini a partire dal 2013. Anche questo tesoro diventa ora patrimonio di tutti i visitatori, grazie a un progetto di valorizzazione della scoperta di trent’anni prima e alla stretta collaborazione tuniso-tedesca: l’Istituto nazionale del patrimonio tunisino e l’Istituto Archeologico tedesco, il Museo del Bardo e il Museo di Bade Karlsruhe, che hanno curato anche la ricostruzione scenografica e didascalica attorno all’esposizione dei pezzi, corredata dai documenti attestanti il ritrovamento, dalla ricostruzione di un atelier di conio, dalle note storico-cronologiche di attribuzione.
Le monete riproducono le fattezze di nove imperatori tra i quali il più rappresentato è Flavio Onorio (384 -423 d.C.) ed è sotto il suo impero, prima del 420, che risulta sotterrato il tesoro. Il contesto storico riporta dunque al periodo delle incursioni dei Vandali che precedono la conquista da parte di Genserico e attestano della ricchezza della provincia africana del Nord; le tavole allestite nella sala del tesoro propongono suggestive supposizioni sul proprietario di questa straordinaria fortuna in oro accumulata nel tempo ma non più arricchita, apparentemente, dopo il 418 e proveniente comunque dalle regioni dell’impero romano: sia che si trattasse di un visigoto mercenario dell’esercito romano o nell’armata dei Visigoti migrati in Africa nel V secolo. Sia che fosse un militare dell’impero romano, poi trasferito in Africa del Nord, al servizio dell’amministrazione o dell’esercito di stanza a Simitthus (Chemtou). Sia, infine, che fosse un vandalo, predatore del tesoro negli scontri con Romani e Visigoti nella Gallia del Sud e poi passato nell’Africa del Nord con la sua tribù: nel 430 proveniente da Annaba (ora in Algeria) e a Simitthus prima di trasferirsi a Cartagine.
Ancora una volta il Museo del Bardo ci racconta la storia di questo Paese crocevia di popoli, la ricchezza e fecondità di una terra ospitale e la generosità dei suoi abitatori nel goderne e nel darne testimonianza, nella capacità di trasformare ricchezze materiali in opere di bellezza durature nei secoli.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Riferimenti bibliografici
BETTINI Maurizio, 2023, Chi ha paura dei Greci e dei Romani? Dialogo e cancel culture, Torino, Einaudi.
CANDIANI Rosy, 2021, Le storie che raccontano i mosaici del Bardo, in “Dialoghi Mediterranei” n. 50
PALUZZI Paolo, 2023, Sulle tracce della Via Romana del marmo in Tunisia, in www.ansa.it/ansamed/it
www.imperoromano.com/2020/02/Uthina
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Rosy Candiani, studiosa del teatro e del melodramma, ha pubblicato lavori su Gluck, Mozart e i loro librettisti, su Goldoni, Verdi, la Scapigliatura, sul teatro sacro e la commedia musicale napoletana. Da anni si dedica inoltre a lavori sui legami culturali tra i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, sulle affinità e sulle identità peculiari delle forme artistiche performative. I suoi ultimi contributi riguardano i percorsi del mito, della musica e dei concetti di maternità e identità lungo i secoli e lungo le rotte tra la riva Sud del Mediterraneo e l’Occidente.
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