Ero sempre quel tipo di studente che scorreva le pagine della lezione di storia per andare a leggere gli approfondimenti a fine capitolo. Avete presente? Quelli che parlavano di come viveva la gente dell’epoca. Le mode, le abitudini, le forme di intrattenimento, le cose in cui credevano, i rituali sociali. Questo perché mi chiedevo sempre perché studiassimo solo e soltanto sovrani, nobili, re e regine, figure di spicco, quasi sempre solo singoli individui. Dove erano le collettività, dove erano i popoli, le loro nevrosi, le loro idiosincrasie, le loro fissazioni, i loro vizi e virtù peculiari, le loro battaglie infime e più dolorose dietro le conquiste più alte?
Sappiamo tutti che la Storia per come la si studia in quasi tutto l’Occidente è soprattutto leaderistica. Viene dato troppo spazio ai singoli, all’individuo, mentre il flusso immane di essere umani, la vera e propria carne e storia che muove la Storia, era sempre sullo sfondo. Governata, comandata, dimenticata, quasi come se il suo ruolo fosse collaterale a quello del sovrano, o chi per lui, di turno. Eppure ci sono stati storici che invece hanno contribuito a una teoria storiografica ben più scientifica, complessa e completa, che guarda ai fenomeni e agli eventi nella loro dimensione diffusa e, soprattutto, antropologica e culturale. Uno di questi è Marc Bloch, lo devo ammettere, un autore che ho incontrato spesso ma di cui ignoravo la biografia.
Ora che sfortunatamente anche la bolla di pace in cui ha vissuto l’Occidente europeo è scoppiata, storie come quelle di Marc Bloch tornano a essere essenziali [1]. Uno studioso alimentato dalla passione per la storia e, forse anche per questo, da un amore incondizionato verso la libertà propria e del suo popolo messe alla prova delle due guerre mondiali del Novecento. Come a volerci dire che la storia serve e serve davvero. Come dicono tutti ma come quasi tutti sconfessano subito dopo dimostrando vigliaccheria e cecità nei momenti critici, come quando, per esempio, la bolla comincia a vacillare. Ed è un lavoro prezioso Marc Bloch, una storia senza confini di Riccardo Bardotti con le illustrazioni di BAZZAC (Betti editrice, 2023), una sorta di graphic novel che ci racconta attraverso lo sguardo di un compagno di cella, proprio gli ultimi giorni di Bloch prima della fucilazione da parte della Gestapo, il 16 giugno del 1944 a pochi giorni dalla liberazione di Parigi.
«Quando ho letto la storia della vita di Bloch, del quale conoscevo i libri ma non le vicende umane, mi sono fortemente commosso. Non mi era mai capitato di imbattermi in un grande studioso con un così alto senso morale della responsabilità verso il suo Paese, con la capacità di essere sia cittadino esemplare che studioso straordinario e di sacrificarsi per una idea di giustizia onorando la dignità della propria vita. Un vero eroe».
Scrive Pietro Clemente nell’introduzione a volume togliendomi le parole di bocca adesso mentre cerco di ragionare sul lavoro di Bardotti. Il corsivo sulla parola “eroe” è dovuto proprio perché non è facile leggere di certe vite oggi, di certe epoche e drammi e orrori, tutte cose che stiamo iniziando a rivedere, a timidamente risentire attraverso le immagini e testimonianze delle guerre in corso. Se la bolla di pace ci ha tolto qualcosa (e diremmo ancora “fortunatamente”) però è proprio la capacità di ricordare cosa realmente il mondo è stato, è e sarà. I conflitti e le guerre esistono ed esisteranno e certe idee, diritti, privilegi, che diamo per scontati tali non sono ma vanno difesi. Questo può verificarsi in forma democratica, con il dialogo e il compromesso politico, oppure no. Oppure semplicemente viene qualcuno a toglierceli. E lì l’insegnamento della Storia è chiaro. E come Bardotti ci ricorda con questo lavoro, in quel caso Storia e vita diventano una cosa sola.
Questo volume che nasce soprattutto per arrivare ai più giovani cercando di essere d’impatto e di immediata fruizione per studenti e studentesse, è costruito sapientemente con un intreccio di illustrazioni e parole che restituiscono una sorta di affaccio sulla vita di ben due personaggi/persone come detto. Bardotti, a mio parere, fa la scelta giusta: la voce che ci parla è quella di un ragazzo, un giovane partigiano, che scrive al padre dal carcere. E nelle sue parole, oltre a scoprire Bloch e le sue idee, ci fa scoprire anche cosa c’era nei cuori di molti ragazzi di quell’epoca che lottavano contro i nazi-fascisti. Non solo leader, generali e battaglie appunto. Proprio come voleva Bloch e come Bloch stesso dice al ragazzo.
Attraverso questa metanarrazione, Bardotti ci parla delle fragilità, delle paure, dei drammi personali di un ipotetico ragazzo metonimia di una generazione che si rivolge al padre chiedendo scusa se non è coraggioso, se quelle volte che sente le guardie camminare fuori la cella si terrorizza perché pensa che potrebbe toccare a lui di essere fucilato o torturato, se certe notti piange ininterrottamente, se ha perso la speranza. È già dalle prime pagine si dipanano più livelli, più mondi: un figlio che parla a un padre, un partigiano che parla a un uomo libero, un combattente, un giovane che parla a un anziano che non può combattere, un uomo impaurito che parla a un saggio.
«Caro padre, i giorni, qua dentro, si susseguono tutti uguali. La nostra pena somiglia a quella dei dannati descritti da un autore medievale italiano. Quei disgraziati erano costretti, tra l’altro, a ignorare il presente mentre era loro concesso di conoscere passato e il futuro».
Scrive il ragazzo. Poi l’arrivo di Bloch in cella, anziano anche lui ma che aveva scelto di tornare a combattere, sfuggito da Dunkirk tornato poi sotto falso nome nel suo Paese per aiutare la Resistenza. Ma per il ragazzo, Bloch è dapprima un uomo che parlando di storia e raccontando la storia a suo modo, lo fa appassionare e allieta le loro giornate, poi diventa un maestro, di pensiero e di vita. Bloch ridà speranza e orgoglio a chi è dietro le sbarre, orgoglio di esseri umani che devono lottare per ridare a se stessi ma soprattutto agli altri, al Paese tutto, la possibilità di tornare a esserlo.
Man mano che giungiamo all’epilogo drammatico ma speranzoso come le vere storie di eroi, per citare Clemente, sanno fare, alcuni quesiti emergono senza più andarsene: saremo pronti se e quando la Storia tonerà a bussare al nostro Paese? Se e quando guerre, conflitti e forze verranno a toglierci diritti, libertà e umanità? Ci rendiamo allora conto che il pacifismo di cui, anche personalmente, vogliamo essere portavoce è un privilegio e che la Storia, nella sua dimensione conflittuale, non ha mai smesso di esistere. Di questo privilegio ne dobbiamo riuscire a fare stendardo di lotta democratica in attesa, speriamo la più lunga possibile, di dover ahinoi rispondere a quelle domande. E, sempre in attesa, imparare dalla Storia dei popoli e delle vite dei singoli e delle comunità che c’è sovente molto da imparare, ci sono maestri di pensiero e di ideali che seppur lontani dai libri di testo, dai generali e dai re, hanno saputo e sanno ancora fare la differenza.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] Si veda, per esempio:
https://www.repubblica.it/venerdi/2024/04/19/news/marc_bloch_partigiano_storico_morto_25_aprile-422602645/
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
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