La memoria ha qualcosa di misterioso, si muove su percorsi inaspettati nell’intento di comprendere angoli di un passato lontano. Scavare indietro nel tempo andato per riempire vuoti è talvolta necessario per stare meglio e a proprio agio nel presente e fugare interrogativi rimasti a lungo senza risposta. Ma non sempre il percorso è lineare. Ci sono vite che faticano ad essere ricostruite perché accadimenti diversi ne hanno spezzato o interrotto il ciclo naturale, temporale e di spazio. Accade quasi sempre nelle famiglie che per necessità economiche, sociali o anche politiche hanno scelto luoghi lontani dalle proprie origini dove stabilirsi per costruire o ri-costruire il loro presente.
Indagare alla ricerca delle radici è stato il senso del lavoro svolto da Luigi Biondo, architetto trapanese, che ha ripercorso parte della sua storia familiare nel libro Il destino oltre il mare (Caffè Orchidea, 2023). Biondo, direttore del Parco archeologico di Segesta, e in precedenza del Museo regionale di arte moderna e contemporanea di Palazzo Riso di Palermo e del Museo A. Pepoli di Trapani e per un breve periodo anche del Parco di Pantelleria, si definisce lui stesso scrittore per caso, per la necessità di raccontare una memoria familiare che non si era compiuta. Il destino oltre il mare è la sua prima pubblicazione in forma di romanzo ibrido, un’esperienza nata da una personale e fortunata impresa che una copertina evocativa e vivace rende ancora più accattivante nell’approccio iniziale.
Tra il XIX e XX secolo per molti siciliani i Paesi del Nord Africa hanno rappresentato un’emigrazione che oggi definiremmo al contrario e sulla quale ormai pochi si interrogano. Il tema della fortissima e disgraziata emigrazione dall’Africa verso la Sicilia e l’Europa, che ogni giorno ci ricordano le immagini e le notizie di morti e dispersi in mare e mai restituiti ai propri cari, è la drammatica attualità verso la quale si è sviluppata una tendenza all’assuefazione. Ma il Mediterraneo, in pochi decenni, ha visto mutare il flusso migratorio: non va dimenticato infatti quando erano gli italiani e i tanti siciliani ad emigrare in Libia, Eritrea, Tunisia in cerca di fortuna nei Paesi ospitanti. Questo contesto migratorio è ormai quasi scomparso e, con il passare del tempo, è scemato anche l’impegno di ricostruzione della memoria di quell’epoca, memoria di agricoltori, pescatori o persone facenti parte della piccola e media borghesia che operavano nel commercio al dettaglio e nell’imprenditoria. E, come si diceva, sempre di più si assottigliano le testimonianze dirette che ci riportano a quei fatti e a quell’epoca, e per tale ragione quelle voci che emergono devono essere salutate con grande interesse sociale e antropologico, e anche storico e letterario.
Le origini degli italiani in Tunisia si fanno risalire al X secolo ma solo dal XVIII si hanno tracce concrete della loro presenza attiva che aumentò considerevolmente dopo la fine della Seconda guerra mondiale con l’emigrazione di nuove componenti che si aggiunsero a quelle esistenti e ormai radicate fino a formare una vera e propria grande comunità organizzata. Italiani e siciliani che si andavano spostando verso la Tunisia stabilendosi a Tunisi e nelle città sulla costa, Sfax, Tabarka e altre. Il quartiere della Petite Sicilie, sobborgo di Tunisi, è uno degli esempi rimasti fino a noi, quartiere che conserva ancora alcune delle tradizioni popolari e religiose del Trapanese. Tra queste famiglie di siciliani emigrati per necessità vi era anche la famiglia Salerno della quale Luigi Biondo ripercorre le tracce seguendo le ultime tre generazioni.
Come molti altri siciliani la sua famiglia aveva messo radici in Tunisia ad inizio del secolo scorso per fuggire dalla crisi economica dopo il crollo di Wall Street e ottenere in concessione un pezzo di terra coltivabile a Massicault. Il Paese in quel tempo ospitava una vasta comunità di italiani e siciliani che addirittura superava quattro volte quella dei francesi. Ma la morte del padre Andrea scombina i piani della famiglia lasciando alla moglie Angela e al maggiore dei figli, Nino, i possedimenti in terra straniera. Dopo il matrimonio, celebratosi in Sicilia (siamo nel 1929), di Nino con Gina, una cugina di primo grado con la quale aveva intrattenuto un lungo contatto epistolare, la coppia torna in Tunisia dove nasce la figlia Angela (madre dell’autore), nascita che stempera le tensioni che si erano create con la suocera e le cognate che vivevano nella stessa casa. Quando anche la suocera muore tocca a Nino accollarsi il peso delle responsabilità familiari (anche delle sorelle) fino alla sua morte, avvenuta prematuramente e in seguito alla quale il rientro in Sicilia si prospetta obbligato. La famiglia così torna in provincia di Trapani e si trasferisce a Valderice sostentandosi con l’affitto di alcune stanze della casa che abitava.
La storia che percorre Biondo è mancante di tanti pezzi perduti ma ancora vivi nei racconti familiari, testimoniata dalle fotografie mute di un’epoca che sembrava sepolta per sempre. La madre Angela, nata a Tunisi nel 1931, che parte di quell’epoca aveva vissuto, non si era rassegnata a chiudere le porte al passato e insistentemente esprimeva il suo grande desiderio di ritrovare la tomba del padre, sepolto in quella terra, tomba che aveva visitato una sola volta durante il viaggio di nozze e mai più. Desideri e preghiere si rincorrevano durante i pranzi domenicali quando la famiglia tornava a riunirsi, parole che cadevano nel vuoto surclassate dal quotidiano incalzante a danno di una memoria che più il tempo passava più si faceva flebile.
Quando l’autore avverte la necessità di avventurarsi in quel viaggio a ritroso e completare un doloroso puzzle familiare, il tempo è maturo. Nel 2009, durante i lavori di restauro della Cappella dei Pescatori nella Basilica dell’Annunziata di Trapani a cui Biondo sovrintendeva, viene ritrovato un affresco della prima metà del 1500 che ricordava una pesca miracolosa del corallo nei banchi al largo delle coste di Tabarka, dove anche i pescatori siciliani si spingevano per trovare sostentamento e fortuna. Quel ritrovamento che lega la storia di due popoli vicini ma divisi dal Mediterraneo, crea un fil rouge nella mente dell’autore che inizia così la sua ideale indagine alla volta di Tunisi per chiudere il cerchio della memoria e ritrovare la tomba del nonno, la cui salma era rimasta in un piccolo e dimenticato cimitero cristiano del Paese.
Il racconto corre su due piani narrativi: quello della ricerca e poi del ritrovamento della tomba e della casa di campagna a Massicault dove la famiglia Salerno viveva e quello del viaggio dell’autore verso la Tunisia. E anche il libro si divide in due parti, l’una complementare all’altra. La prima ricostruisce la storia della sua famiglia con cenni sull’emigrazione e sui movimenti politici che l’accompagnarono, la seconda riguarda il primo viaggio intrapreso dall’autore alla ricerca dei pezzi mancanti.
«Sono figlio e nipote di donne emigrate – scrive Biondo – donne che avevano patito la fame, la fatica e la persecuzione politiche in patria, diventate poi di fatto apolidi a causa di un ritorno forzato nella loro terra, dimenticate e maltrattate nel loro Paese di origine: l’Italia». Sono la nonna Gina (Giovanna) e la madre Angela (Lina) le custodi della memoria raccontata al nipote e a figlio. Sono loro che lo spingono nel 2009 a cercare la tomba del nonno Nino, nato nel 1888 a Monte San Giuliano e morto nell’ospedale italiano di Tunisi di peritonite nel 1935. La morte di Nino quindi sta al centro di tutto. La famiglia a quel tempo aveva fatto realizzare una piccola cappella a Massicault, a trenta chilometri dalla capitale che Biondo descrive con emozione quando ci si trova davanti per la prima volta.
«È chiusa da un cancello di ferro battuto con due finestre a forma di croce aperte sui due lati più lunghi per portare un po’ di luce all’interno». La cappella è abbandonata così come il cimitero ma è ancora esistente e il suo ritrovamento, che combaciava con le foto che custodiva, provoca in lui grande emozione. «La lastra di marmo che un tempo aveva sigillato le sepolture sotterranee adesso giaceva spezzata in fondo. Precipitando verso il basso aveva sventrato le casse funebri di legno scuro lasciando a vista i resti umani di mio nonno e dei suoi genitori. Le ginocchia si erano piegate di colpo, piansi».
Cimentarsi con storie vissute porta con sé dolore e nostalgia. Biondo l’ha definita una esperienza complicata, nella scrittura che ha avuto dieci anni di gestazione e nell’elaborazione che è stata accompagnata da complesse ricerche e studi negli uffici dell’Anagrafe di Trapani, Erice e anche di Tunisi. Un lavoro complesso e “dovuto” per l’autore dal quale è emerso un passato comune a tanti siciliani, oltre duecentomila, emigrati e poi dimenticati.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
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Mariza D’Anna, giornalista professionista, lavora al giornale “La Sicilia”. Per anni responsabile della redazione di Trapani, coordina le pagine di cronaca e si occupa di cultura e spettacoli. Ha collaborato con la Rai e altre testate nazionali. Ha vissuto a Tripoli fino al 1970, poi a Roma e Genova dove si è laureata in Giurisprudenza e ha esercitato la professione di avvocato e di insegnante. Ha scritto i romanzi Specchi (Nulla Die), Il ricordo che se ne ha (Margana) e La casa di Shara Band Ong. Tripoli (Margana 2021), memorie familiari ambientate in Libia.
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