CIP
di Paolo Nardini
Piergiorgio Zotti e io, una sera di febbraio del 1988, di ritorno dalla visita per un’intervista a un pastore che aveva fatto la transumanza fino a pochi anni prima fra l’Appennino tosco-emiliano e la Maremma, prendemmo l’impegno reciproco di indirizzare tutti i nostri sforzi, da allora in avanti, a far emergere il lavoro di Roberto Ferretti che era rimasto incompiuto. In fondo c’era solo da tirarlo fuori da cassetti che cominciavano a impolverarsi, renderlo pubblico, valorizzarlo nel modo migliore. Sapevamo che si sarebbe trattato di un impegno gravoso e di lungo respiro, che avremmo incontrato molti ostacoli. Da allora sono passati trentasei anni, e il lavoro non è ancora concluso.
Il tragico evento
Era venerdì 29 dicembre del 1984 quando venne pubblicata la notizia, giunta alla redazione grossetana del quotidiano La Nazione nel pomeriggio del giorno precedente, dell’incidente che Roberto Ferretti aveva avuto durante il soggiorno in Giordania, con la moglie e due amici. Ancora non si aveva certezza della drammaticità dell’evento, ma la scarsità delle informazioni non prometteva niente di buono. Si era appreso solo che si trattava di un incidente, ma se ne ignorava la natura; era accaduto in Giordania, vicino al confine con la Siria, a centocinquanta chilometri da Amman. Era stata la moglie di Ferretti a telefonare ai genitori. Poi più nessuna notizia.
Ferretti era forse una delle persone più conosciute nella sua città, Grosseto, e fra gli studiosi di demo-etno-antropologia si era fatto conoscere e apprezzare in Toscana. Oltre ad alcuni saggi scientifici comparsi nel Bollettino della Società storica Maremmana, aveva curato pubblicazioni che riprendevano i diversi aspetti delle tradizioni popolari della provincia di Grosseto, come quello sulla Focarazza di Santa Caterina, o quello sulle Befanate scritto insieme a Angelo Biondi, il volume di saggi Dire e fare Carnevale, aveva collaborato con Gastone Venturelli al volume Vita in Toscana, per citare solo alcune delle pubblicazioni principali; aveva studiato la storia locale, mettendo a fuoco il movimento giurisdavidico e la figura di Davide Lazzaretti, la compagnia dei flagellanti di Roccatederighi e altri movimenti millenaristici; dal 1977 scriveva articoli (con una media di due al mese) sulla cronaca locale del quotidiano La Nazione.
Intorno all’Archivio delle tradizioni popolari della Maremma grossetana, l’organismo da lui creato nel 1979, ma già attivo sottotraccia da diversi anni con il nome di Circolo Culturale Popolare, aveva raccolto un piccolo gruppo di giovani ricercatori, che guidava nel rilevamento dei fatti legati alla tradizione popolare, inviandoli nelle tante località sperdute della vasta provincia di Grosseto, in occasione di feste, cerimonie e altre iniziative popolari.
Aveva organizzato eventi culturali di rilievo [1], per una città sonnacchiosa, benché nel periodo fra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta anche il capoluogo della Maremma manifestasse una certa vivacità. Ad esempio, negli anni settanta Grosseto aveva avviato l’esperienza del “teatro sperimentale”, del quale lo stesso Ferretti era partecipe. Alberto Lecaldano, uno degli animatori, ci offre uno spaccato di quella iniziativa:
«La prima [di uno degli spettacoli messi in scena, da titolo “Il gioco”] fu fatta a Grosseto alla sala Eden, che si prestava bene all’idea della messinscena di un ring centrale. La storia era di questi due attori. Il testo era elaborato sulla base de “Il gioco” di Marcello Morante che in quegli anni aveva pubblicato un libro con diversi testi. “Il gioco” nella versione di Morante era un gioco tra due bambini realistico, che discutevano. Io invece misi due persone, due vecchi che ripetevano sempre lo stesso gioco, rituale che era quello di fare gli adulti… Quindi c’era questo cambiamento e tutto uno stravolgimento del testo, che era estrapolato sì da quello di Morante, ma era ricostruito e rimontato in un altro modo e anche ripetuto se non ricordo male, perché il senso era quello di questa ossessione a reiterare. C’erano cose che venivano fatte, ricordo che Anita versava l’acqua da un catino, un catinello, un’anfora, ma poi non era acqua ma era sangue, acqua rossa, quindi metaforicamente acquisiva tutto un altro significato. Insomma questo era… Per la scrittura scenica avemmo un premio. Scrittura scenica era diverso da testo, in quegli anni esisteva come concetto ma facilmente comprensibile, c’era anche una rivista dedicata a questo tema. Era diciamo la composizione di tutti gli elementi che portavano alla messa in scena, non il testo. Era l’idea della regia, il montaggio, la scenografia, la musica, tutti gli elementi che contribuivano all’idea. Quindi il progetto, l’idea del progetto» [2].
Quella del Teatro Sperimentale fu un’esperienza interessante, innovativa, orientata all’ascolto dell’altro e alla ricerca di un linguaggio che fosse “nuovo”, di rottura con il passato, di un passato esclusivo nei confronti delle masse di operai e di contadini, rendendolo invece inclusivo, aperto all’ascolto, capace di portare sulla scena l’istanza delle masse popolari, fino allora escluse da qualsiasi discorso “culturale”. L’esperienza ha avuto una certa eco, a livello nazionale, e una rivista teatrale [3] ne riportava alcuni tratti:
«…qui lo spettacolo “è nato dall’esperienza che il collettivo Teatro in Campagna fece circa un anno fa. Una parte dei giovani che costituisce il Teatro Sperimentale di Grosseto decise di trasferirsi nella campagna grossetana per discutere con i contadini i loro problemi. Ne venne fuori tutta una serie di spunti e di temi che il collettivo analizzò, discusse e organizzò come materiale per lo spettacolo» [4].
Ferretti, oltre a partecipare all’organizzazione, ne aveva disegnato il manifesto. In esso si legge che “Il Gruppo 5” del Teatro Sperimentale presenta “Davide Lazzaretti profeta”, una azione teatrale in tre atti sulla vita, le opere, la morte di Lazzaretti, barrocciaio che si era dichiarato “profeta”, fucilato come rivoluzionario per aver scoperto che il mondo è diviso fra sfruttati e sfruttatori».
Si farebbe torto ai grossetani, sia della città che della provincia, se non si citassero almeno le iniziative che, in campo sociale, fra la metà degli anni sessanta e la fine dei settanta, si sono realizzate. Si tratta di elementi di novità nelle forme di comunicazione delle istanze sociali e politiche, di una nuova sensibilità manifestata dagli studenti delle scuole medie superiori. Ciò che accadeva nel mondo, soprattutto in America e nei Paesi dell’Europa dell’est, dal Cile alla Cecoslovacchia, aveva un’eco in questa “piccola città”, dove si susseguivano le manifestazioni di protesta. La provincia era agricola e mineraria. Entrambi i settori conoscevano una profonda crisi alla quale si opponevano gli studenti insieme agli operai, con gli strumenti già utilizzati nel resto d’Italia (scioperi, manifestazioni, occupazione di istituti).
«La notizia – scrive ancora La Nazione del 29 dicembre – ha fatto in un lampo il giro della città. La nostra redazione è stata interessata da decine di telefonate di insegnanti ed amici che volevano conoscere le condizioni di Roberto, e alle quali purtroppo non è stato possibile dare una risposta. I contatti della redazione e dello stesso sindaco Flavio Tattarini, con la nostra ambasciata ad Amman, sono rimasti allo stato di quanto già si sapeva: che al professor Ferretti era accaduto un incidente nella zona di Jerash, a pochi chilometri dalla Siria».
Era partito due giorni prima di Natale, e il ritorno era previsto per il 5 gennaio. Non era la prima volta che Ferretti andava in Medio Oriente; in questo caso era previsto di visitare gli scavi archeologici a sud della Giordania, per poi dirigersi verso Nord, in Siria. Il sabato mattina il quotidiano sul quale aveva scritto fino a pochi giorni prima (l’ultimo suo articolo pubblicato è del 18 dicembre) dà la notizia, secca, cruda:
«Roberto Ferretti, nell’incidente accaduto in Giordania, e di cui ieri abbiamo dato notizia, ha perso la vita. È morto, poco dopo le sette di mercoledì mattina, in uno scontro a bordo di un taxi, che la comitiva italiana aveva noleggiato insieme ad altri passeggeri arabi, e contro il quale è andato a schiantarsi il conducente di un camion. Risalivano, ai margini del deserto, in direzione di Amman, dal sud del paese medio-orientale».
Biografia
Roberto Ferretti era nato a Grosseto il 31 marzo 1948. Oltre ad aver sviluppato una notevole capacità nella rappresentazione grafico-pittorica [5], era un appassionato studioso di storia locale; si era dedicato poi, con l’approdo all’università “La Sapienza” di Roma, allo studio dell’antropologia e del folklore. A queste attività affiancava quella di operatore culturale e sociale, dal suo luogo di lavoro, che era un ufficio dell’assessorato alla cultura del Comune di Grosseto. Ferretti conobbe anche l’impegno politico, infatti aveva svolto la sua formazione all’interno della sinistra giovanile grossetana, quella più intellettuale e culturalmente attiva. Esprimeva simpatia per i ribelli e i marginali, oltre che per le classi subalterne. Dimostrava interesse per una certa impostazione orientalista (diffusa in quegli anni) e per certi aspetti misteriosi della realtà.
Negli anni settanta aveva conosciuto Gastone Venturelli, che svolgeva ricerche demologiche in Lucchesia e dalla collaborazione con il quale nacquero diverse pubblicazioni su vari aspetti delle tradizioni popolari maremmane, e Pietro Clemente, docente di Letteratura (poi Storia) delle Tradizioni Popolari all’Università di Siena, con cui Ferretti collaborò sia in ambito universitario che per le ricerche territoriali e per numerose iniziative culturali a Grosseto. Ferretti si era laureato a Roma nel 1977 con Diego Carpitella e Aurora Milillo, esperta di fiabistica, con una tesi sui racconti di tradizione orale raccolti nella provincia di Grosseto. La creazione dell’Archivio, e la sua istituzionalizzazione, gli avevano consentito di contornarsi di giovani studiosi e ricercatori: sotto la sua guida iniziarono a svolgere ricerche in ambito demologico, fra gli altri, Nevia Grazzini, che si occupava della tradizione della befana, Gabriella Pizzetti, impegnata in ricerche sulla fiabistica, Pompeo Della Posta, che in quel periodo produsse una ricerca esemplare sulla caccia con insidie nel grossetano [6].
Le narrazioni di tradizione orale, i blasoni popolari, la devozione religiosa, le pratiche scaramantiche rappresentavano nelle ricerche di Roberto Ferretti una chiave di lettura della società. Egli aveva la capacità di osservare fenomeni sommersi, di far emergere memorie lontane, quasi completamente scomparse: la “residua tradizione orale”, secondo la sua stessa definizione. Un aspetto importante della modalità di approccio di Ferretti alla ricerca, è costituito dal particolare rapporto di intimità che egli riusciva a stabilire con i suoi interlocutori. La sua può essere definita come una “partecipazione emotiva” alle loro condizioni di vita. Quella partecipazione rappresentava in realtà il profondo rispetto che Ferretti riservava ai suoi informatori, il suo coinvolgimento nel loro mondo emotivo. Un altro aspetto che Ferretti sembra avesse compreso in anticipo è l’impossibilità, per il ricercatore, di apparire come una entità del tutto neutra e trasparente, come se non facesse parte della scena.
Ferretti ha raccolto una notevole quantità di materiale, con lucidità ha rintracciato le tessere di un mosaico di cui sembra conoscesse a priori il disegno, perfino nei particolari. Nei suoi scritti si individua, nel tempo, un accostarsi progressivo a differenti impostazioni teoriche: i diversi autori con i quali usava dialogare. Negli scritti del primo periodo si nota la tendenza a una interpretazione dei fenomeni folklorici dominata da un’impronta frazeriana. Le figure mitologiche del mondo agricolo costituiscono, nei suoi studi, presenze attive nel territorio; i santi e i martiri cristiani risultano essere mutazioni di divinità pagane preesistenti. Oggetto delle sue ricerche sono le esili tracce di antichi culti e di riti sacrificali, attenuate dal tempo ma non ancora scomparse del tutto, la memoria degli antichi culti degli alberi e delle rocce, le dimore di antichi dèi e di personaggi mitologici.
Un autore cui Ferretti ha fatto riferimento, più o meno esplicito, è Ernesto de Martino [7]. Nei rilevamenti sulle pratiche scaramantiche, Ferretti rinveniva, in Maremma, historiole nelle quali si può riscontrare un’analogia con quelle rilevate in terra lucana. Nei suoi scritti non mancano riferimenti al Ramo d’oro di Frazer, alle Radici storiche dei racconti di fate di Propp, alle Osservazioni sul folklore di Gramsci. Egli cercava di gettare una luce interpretativa su alcuni riti rilevati nel grossetano, più o meno infiltrati da elementi cristiani, come l’usanza di raccogliere l’umidità della notte da determinate piante a scopi augurali, scaramantici e curativi, o la pratica di “legare le febbri” in un luogo lontano dall’abitato, recitando una formula che le avrebbe “imprigionate”, liberandone la comunità degli uomini. Nelle ricerche intorno al fenomeno collettivo del quale è riuscito a rilevare aspetti oppositivi in diverse località del grossetano, come il carnevale, e in altri scritti dedicati al teatro popolare, o ai riti del fuoco, Ferretti sembra dialogare con autori come Jung, Kerenyi, Propp. Di notevole importanza sono i suoi studi sulla fiabistica, di cui ha individuato tipi e motivi che sembrano collocarsi ai margini della “tassonomia” delineata dagli indici di Aarne e Thompson [8].
La ricerca svolta da Roberto Ferretti in Maremma risulta orientata al rilevamento dell’immaginario che sebbene sia riferito a pratiche del fare, esula dalla magia e dalle azioni stregonesche. L’oggetto della ricerca di Ferretti è il sistema delle conoscenze che potremmo definire “puramente intellettuali”, libere dall’agire pratico [9].
In questo ambito, la novità introdotta da Ferretti è stata quella di accedere a un’ampia gamma di materiali di tradizione orale, dalle vere e proprie leggende alle narrazioni sul vissuto, agli aneddoti, mentre gli studi più accreditati si limitavano prevalentemente alla fiabistica classica e ai testi scritti. Per i suoi studi sulla fiabistica, Ferretti ha potuto accedere a un’ampia gamma di materiali di tradizione orale, andando ben oltre l’analisi dei testi scritti. Ferretti ha raccolto materiali eterogenei, ha documentato i differenti aspetti in cui si esprime la cultura popolare, dai residui di antiche pratiche religiose, come quella dei flagellanti, al millenarismo del movimento giurisdavidico amiatino, all’uso del canto e della poesia popolare; dalle fiabe ai balli tradizionali; dal teatro popolare (i bruscelli, la befanata, la maggiolata, o maggio lirico) alle pratiche magiche e scaramantiche, percorrendo il territorio maremmano, studiando i vari aspetti della cultura nelle loro relazioni con lo sviluppo economico e sociale, con le migrazioni di lavoro, l’assetto agricolo, i rapporti di produzione, la relazione urbano-rurale.
Estro giovanile
Era un tipo estroso, il Ferretti, anche da giovane. Aveva delle idee, le metteva in pratica e riusciva già, da studente liceale, ad avere dei seguaci. Ripetente di una classe del blasonato liceo classico grossetano “Carducci-Ricasoli” di via Mazzini, si trovò in classe con Flavio Fusi, che ne ricorda alcuni tratti, parlando di quel periodo in cui i giovani cominciavano a ribellarsi alle norme imposte dall’ambiente borghese dal quale provenivano, fra le quali la regola della continuità professionale fra le generazioni. Già a quell’epoca si manifestava quel suo spirito di animatore e trascinatore di folle (esigui, per la verità). Aveva dato vita a una sorta di confraternita, i cui aderenti avevano l’obbligo quotidiano di compiere almeno un gesto che fosse al di fuori degli schemi. Riferisce Flavio Fusi:
«A ben vedere un germe di rivolta – in pochi, pochissimi – lo avevamo già sperimentato. E fu la storia, breve ma affascinante, del Club delle Belve. “La belva – recitava lo slogan della confraternita – non va a letto senza aver fatto la sua parte quotidiana”. […] Puro dadaismo, importato nelle aule del liceo da Roberto Ferretti, un ripetente geniale, che attirò nel gruppo altri studenti più o meno ispirati, e qualche giovanottino in cerca dei brividi della provocazione. Le Belve dovevano stupire, dovevano sfidare il conformismo, dovevano compiere ogni giorno almeno un’azione insensata, esporsi alla censura della maggioranza cieca e conformista. Facile a dirsi: eravamo pochi, e restammo pochi. Lo scandalo pubblico era una fatica troppo grande per le nostre anime tremule. In silenzio e in buon ordine le Belve si ritirarono nell’oblio da cui erano emerse» [10].
L’Oriente
Roberto Ferretti era stato più volte in Medio Oriente. Una di queste, forse la prima, risale al 1971, quando aveva 23 anni. Il 18 di luglio scriveva da Salkhade, in Siria, all’amico e compagno di partito Silvano; nella busta c’era l’indirizzo della sede grossetana del PSIUP.
Salkhade 18-7-’71
Caro Silvano,
siamo qui da quasi 10 giorni nel campo di lavoro e va tutto benissimo. Al nostro arrivo in Siria siamo stati accolti con molta gentilezza (seppur un po’ in ritardo dato che il telegramma di Migliardi non era arrivato) ed il partito si è fatto in quattro per tenerci a nostro agio. Abbiamo visitato le maggiori autorità del partito e del Paese e siamo stati intervistati anche alla televisione siriana. Le nostre foto sono apparse sui giornali quotidiani e penso che il nostro arrivo quaggiù a Salkhade rappresenti uno dei maggiori avvenimenti dopo la rivoluzione; ed infatti siamo stati gli unici stranieri a farsi vedere dopo l’occupazione francese. In camera nostra (giacché non dormiamo in tenda) è un continuo via vai di gente che viene a vederci e a parlare e ci è impossibile anche dormire; ogni giorno siamo ospiti di qualcuno in paese, povero o ricco. Domani l’altro ci verrà a trovare il presidente Assad e poi partiremo per visitare le basi fedayn sulla frontiera; intanto abbiamo già visto i campi dei guerriglieri di Al Saika intorno a Damasco.
Il lavoro è abbastanza duro e si tratta di picconare e portare sassi, ma siamo in montagna e il sole, seppur cocente, è sopportabile. Prima di partire siamo passati a Roma presso il partito e i compagni del comitato di solidarietà col popolo palestinese; ci hanno dato materiale e consigli che si dimostrano ora molto utili.
L’unico aspetto negativo è quello della pulizia dato che qui sono tutti molto sporchi, ma per fortuna ieri ci siamo vaccinati contro il colera ed ora pensiamo di essere a posto. Anche il cibo è immangiabile e dobbiamo continuamente ricorrere a scatolette e frutta. A Roma abbiamo chiesto al comitato dei manifesti e ci hanno assicurato che saranno disponibili per una mostra a Grosseto verso settembre. Anche qui ci daranno del materiale per portare a casa e avremo quindi tutto il necessario. Il partito ci ha invitati a rimanere anche ad agosto o almeno una parte di questo mese, gli altri vorrebbero partire appena finito il campo; io non so, vedrò cosa fare, anche perché rimanendo potrei partecipare ad addestramenti con i guerriglieri.
Intanto ti saluto
Roberto
Il contesto siriano nel quale si muoveva Ferretti nel 1971, poco più di mezzo secolo fa, sembra lontano secoli rispetto a quello odierno. La Siria faceva parte dell’Impero Ottomano dal 1516. Alla dissoluzione dell’Impero, nel 1922, la Francia ottenne dalla Società delle Nazioni il mandato sulla Siria e sul Libano, mentre il Regno Unito ebbe il mandato sulla Palestina. Nonostante i diversi tentativi di rendersi indipendente, la Siria restò sotto il dominio francese fino al 1946 e quando Ferretti l’ha visitata, nel 1971, si era da poco insediato il governo di Hāfez al-Asad. Attratto da quello che sembrava prospettarsi come un nuovo corso politico del grande Paese martoriato dalla dominazione e dalle lotte interne di potere, Ferretti sembrava affascinato soprattutto da una civiltà millenaria in cui cercava di rintracciare le origini di molti aspetti della cultura dei Paesi delle coste settentrionali del Mediterraneo. O se non le origini, le peculiarità, i tratti caratterizzanti. Alcune narrazioni raccolte da Ferretti in Maremma, ci portano proprio in Medio Oriente, dove finisce la bellissima ragazza rapita dai corsari [11], o dove volano, con un barchino da pesca, le streghe scoperte dall’eroe culturale Peciocco [12]. Ma l’Oriente è anche l’attrazione di molti giovani del suo tempo. Quindi non più solo il luogo mitico perché evocato dalla narrazione fiabistica, ma il luogo mitico anche nella narrazione del «viaggio in India».
Il giornalismo
Il giornalismo di Ferretti è legato ai suoi studi, alla sua sensibilità, alla sua attenzione ai fatti del mondo, visti sempre attraverso la lente del demologo. Incarnava la capacità di interpretare attraverso lo stesso filtro i fenomeni narrati, e in quanto tali parti integranti della vita delle persone, insieme agli avvenimenti dell’attualità. Perché tanto la festa, quanto le narrazioni, il teatro popolare, l’aspirazione dei giovani all’esperienza esotica, la volontà e la necessità dei butteri di tutelare la propria immagine professionale, sono stati per Ferretti aspetti della realtà da prendere sul serio. Ma pareva necessario allontanarsi, vedere le cose da una certa distanza, confrontarle con quelle nuovamente avvicinate, per poterle interpretare. Originale era il suo modo di osservare i fenomeni sociali, la sua capacità interpretativa di una miriade di fatti, racconti, aspetti singoli di feste più complesse, profili di personaggi storici e il millenarismo religioso che essi rappresentavano, e tutto ciò di cui andava raccontando nelle pagine del quotidiano di cui era diventato collaboratore.
Un artista?
Ferretti fu anche un artista? A suo modo, sembra di sì. È questo un aspetto che mette bene in luce Aurora Milillo, sua relatrice di tesi all’università di Roma, in una relazione dal titolo: “Il binocolo e il magico puma”.
«Rivedo quel giovane quando mi si presentò la prima volta all’Istituto di Storia delle Tradizioni Popolari a «La Sapienza», dove tenevo seminari sulla narrativa di tradizione orale. E lo ricordo non tanto perché mi colpì il suo aspetto gradevole, di una gentilezza tutta toscana, quanto per il piglio e la risolutezza, con cui mi mostrò alcuni suoi disegni (serpenti, fiori, draghi), fra i quali, così mi sembrò, avrei dovuto scegliere. A ricordarlo ora, quest’episodio mi appare come una sorta di emblema della personalità di Roberto, e anche in qualche misura anticipatorio e sinteticamente rappresentativo di quella che sarà la sua attività futura.
Da una parte, indubitabilmente, quei disegni, prodotti sul riascolto e sulla meditazione dei narratori intervistati, testimoniano di una scelta di campo, di un interesse verso la narrativa orale, già chiaramente individuato e privilegiato rispetto ad altre forme dell’esperienza folklorica. Dall’altra, poi, il rarefatto preziosismo del segno e l’ironia (starei per dire «ariostesca»), che fa levitare queste vignette in una dimensione quasi da araldica calviniana, sono, forse, la cifra e la peculiarità della particolare attenzione di Roberto verso quei repertori narrativi e culturali: partecipazione, capacità d’ascolto e desiderio di memorizzazione, ma anche volontà di rinarrare e riparlare quei racconti, sui quali egli voleva intraprendere il suo lavoro di tesi. Aderenza e straniamento, dunque. Ma forse è questo lo strumento fondamentale della demologia: un binocolo con una lente da presbite e una da miope, l’una deve allontanare e l’altra deve avvicinare perché la conoscenza avvenga. E con questo binocolo egli ha cercato e scrutato segni e significati del suo territorio. Nel ripercorrere i suoi scritti appare chiaro come Ferretti avesse già in mente, al momento di proporre la sua tesi di laurea, il percorso di un suo progetto di ricerca» [13].
Un binocolo, quello di Ferretti, che è il binocolo della demologia, con una lente che avvicina le cose al ricercatore, e lo rende partecipe, lo coinvolge nella narrazione, lo incuriosisce e lo conduce lungo il percorso del suo gusto personale; e l’altra lente che allontana, e che quindi pone una distanza, che consente l’interpretazione, il confronto, la valutazione, il completamento di tabelle tassonomiche.
Ma registrare fiabe e altre forme di narrazione, intervistare su argomenti specifici, rilevare maggi, befanate e bruscelli, interrogare la storia recente, sono solo alcuni aspetti della ricerca di Ferretti. L’immagine proposta da Milillo, del binocolo con lenti a doppia focale, ricorda un libro di Lévi-Strauss: De près et de loin è infatti il titolo dell’intervista di Didier Eribon all’antropologo francese, pubblicata in Francia (Éditions Odile Jacob) nel 1988 (la traduzione italiana presso Rizzoli è dello stesso anno). L’anno di pubblicazione di questo libro, il 1988, è stato significativo, per me, per diverse ragioni: l’impegno citato in incipit, la nascita di mia figlia, la conclusione di una stagione di ricerca che ha costituito l’avvio di molte altre [14].
La prossimità e la distanza sono aspetti oppositivi e complementari, non solo nel modo di Ferretti di “osservare” il mondo, ma sono da adottare anche nell’osservare l’opera ferrettiana, come suggerisce Emilio Guariglia a proposito della sua opera grafica:
«È miope chi, da lontano, vede nelle figure di Ferretti un semplice compendio per immagini alle sue ricerche sulle tradizioni maremmane. Ed è presbite chi, da vicino, li scambia per intimi cadeau ad uso dei famigli. Decollano di lì per approdare oltre. Capaci di comporre a modo loro – dai primi abbozzi agli ultimi e sempre più maturi esperimenti – una sorta di poema» [15].
A suo modo poeta
Quella di Ferretti è una poesia che non si esprime attraverso le parole, bensì attraverso i disegni che tendevano a rappresentare (non in maniera “documentaria”, ma “poetica”, appunto) il tradizionale fissato nei nastri magnetici, nelle schede, negli appunti. I disegni di Ferretti costituivano la trasposizione dei documenti folklorici in un proprio sogno, in una sua autonoma interpretazione, che lo allontanasse dalla rigidità del documentare. È forse ridisegnando personaggi, ambienti, situazioni che aveva osservato, documentato, di cui aveva raccolto la narrazione, che Ferretti riusciva a proiettare la tradizione in un futuro possibile.
Per Ferretti l’attività del documentare aveva un aspetto basilare: era necessaria ma non sufficiente. Certo che l’aspetto di base, raccogliere e creare documenti, è indispensabile, anche perché costituisce, fin dalle origini della disciplina, la specifica caratteristica della demologia. Più che raccogliere fiabe, per Ferretti era importante raccogliere narrazioni. E soprattutto egli era interessato a narrazioni poco fiabistiche, perché proprio queste rappresentavano per lui l’anima della collettività. Individuava la variante locale atta a dare senso alla unicità periferica delle comunità. Egli riconosceva nelle narrazioni popolari (come anche nella festa, e in tutte le pratiche riferibili alle tradizioni popolari) una resistenza all’omologazione dei tempi moderni, un tentativo di affermare la propria identità e specificità, non come individui ma come gruppo. E accanto a queste forme di resistenza all’omologazione Ferretti riconosceva sincretismi: la presenza di elementi “propri”, “caratterizzanti”, insieme ad acquisizioni omologanti provenienti dall’esterno.
L’immagine ferrettiana delle comunità
Ritengo che Ferretti, se fosse vissuto più a lungo, avrebbe avuto modo di esprimere la sua teoria sull’interpretazione delle comunità, attraverso la tradizione che contraddistingue ciascuna di esse, che la lega al proprio passato, alla propria modalità d’essere. Descrivere qualcosa che sarebbe potuto accadere, ma per qualche ragione non è accaduto, si indica come “storia controfattuale”: è un po’ come ragionare coi “se” e coi “ma”, che la saggezza popolare dice perfettamente inutili. “Coi se e coi ma non si va da nessuna parte”: quante volte lo abbiamo sentito dire. Eppure io credo che sia almeno stimolante provare a tracciare una storia possibile, benché mai avvenuta. E questa storia riguarda ciò che Ferretti avrebbe potuto dire, fare, essere.
Il messaggio che Ferretti non ha avuto il tempo di esprimere più compiutamente, ma che traspare a una lettura attenta della sua intera opera, è che attraverso la tradizione le comunità designano se stesse, si rappresentano sia al loro interno che verso l’esterno. La tradizione costituisce una sorta di “carta di identità” delle comunità: una identità non è cristallizzata, non è data una volta per tutte, ma mutevole e in continua evoluzione. E Ferretti dimostra con i suoi scritti che questa mutevolezza, questa evoluzione, sta in rapporto al mondo, a ciò che muta e si evolve nel mondo.
Se noi non teniamo conto di questo, sembra volerci dire Ferretti, rischiamo di non comprendere e la tradizione, e la comunità, e la società più in generale. La crisi sociale delle città, dei grandi centri, ma anche di un modello di sviluppo che porta all’alienazione, all’anomia, sta tutta in questa problematica del rischio di perdita dell’identità. Ecco quindi le ragioni e lo scopo per cui Ferretti si rivolge alla registrazione di narrazioni, che non sono solo le fiabe classiche, ma sono le varianti locali, le narrazioni di vita quotidiana, il recupero di personaggi storici o comuni, rimodellati secondo l’esigenza della comunità e del momento; o alla riproposizione di feste e di musiche tradizionali, o l’appropriazione di musiche e testi commerciali, ma che le comunità fanno diventare proprie e quindi reinseriscono nella propria tradizione. Quella tradizione che, di nuovo, le identifica e le caratterizza.
Allora il mio invito è quello di considerare che il discorso di Ferretti non è la raccolta di fiabe e documenti folklorici per un gusto antiquario da collezionista, o la ricerca di forme di vita desuete ma suggestive, rappresentate da vecchie e nuove feste tradizionali: è invece la volontà di comprendere il senso profondo delle comunità che esprimono le proprie narrazioni, che esplicano, perpetuano, trasformano le proprie tradizioni, per opporsi alle modalità svilenti e alienanti del mondo contemporaneo, e per vincere il rischio del perdersi in esso.
La rappresentazione della morte nella ricerca di Roberto Ferretti
Nonostante la brevità della sua vita, la produzione di Ferretti è stata copiosa. Quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario della sua morte, e la morte è stato uno degli argomenti che ha affrontato nel corso della sua carriera di ricercatore. Propongo perciò una lettura della morte incontrata da Ferretti nelle sue ricerche su due fenomeni tradizionali rilevati in Maremma, e di seguito alcune considerazioni di approfondimento.
La morte nella festa
La morte è rappresentata, negli scritti di Ferretti, dal Carnevale di Porto Santo Stefano, con le sue “maschere sciornie”, un carnevale che non ha uguali nel resto del territorio grossetano, e di cui troviamo qualche analogia solo in alcune in forme carnevalesche del sud d’Italia.
«La cosa che stupisce maggiormente ed a prima vista, del Carnevale di Porto Santo Stefano, è il tipo delle maschere e dei travestimenti. Consistono infatti in stracci, vecchi indumenti, abiti di ogni foggia e tipo, che nascondono completamente l’identità dei partecipanti.
Si tratta nella maggior parte dei casi di stracci conservati per l’occasione, lenzuola ricucite alla meglio e preparate appositamente, spesso di veri e propri abiti scambiati per confondere sesso ed età. Vengono soprattutto usati, in grande numero, sacchetti di tela calzati sul volto, forati all’altezza degli occhi, del naso e della bocca, e sopra di essi sono spesso portati maschere, cappelli, foulard, passamontagna di ogni tipo» [16].
Un aspetto, quello delle maschere di Porto Santo Stefano «impressionante», come lo definisce Ferretti, tale da generare un senso di angoscia, nel vedere «goffe creature che si muovono disordinatamente o secondo dei criteri incomprensibili». Per i loro spostamenti usa il termine, adeguato per gli insetti, ma che anche in questo caso rende particolarmente bene l’idea, di “sciamare”: «sciamano a gruppi […] si uniscono e si dividono, importunano i passanti». L’identità dei personaggi è completamente celata, sia dagli “indumenti” (chiamiamoli così) che dal parlare solo in un falsetto che simula una voce non propria e impedisce ogni riconoscimento.
«Le strade si animano soprattutto durante le ore serali e la consueta passeggiata diviene sfilata, esibizione, provocazione, imboscata. Molte maschere sono armate: manganelli, bastoni, altri oggetti che ricordano il comando muto e violento, l’offesa unita alla beffa.
Più spesso si tratta di ammassi di cenci, angosciosi non sense, strani insiemi di rapinatori/monatti/confratelli della «buona morte». Ed è la morte la prima grande protagonista di questa mascherata, con le sue raffigurazioni tragicomiche, le sue schiere di demoni, il suo coincidere con la stagione del buio e del mare grosso, dell’aridità che trionfa e pur non è eterna perché deve cedere al lento arrivo della primavera, alla Pasqua del Cristo che caccia i mali spiriti, alla luce intesa come ordine e ragione sociale.
Come la morte le maschere sono senza volto e senza colore, incappucciate di nero e più spesso di bianco (che è il non colore, lo status cromatico dei fantasmi e dei non viventi, delle larvae pagane); come la morte sono armate, perché essa colpisce e uccide; come la morte appaiono verso sera, quando la luce affievolisce. La morte è una dea che va corteggiata perché i defunti attraverso cui si esprime e di cui è sintesi ultima non nuocciano e non tornino caoticamente a sconvolgere l’esistenza dei vivi» [17].
La festa e la morte
Il “Carnevale Morto” di Marroneto, villaggio di boscaioli prossimo a Santa Fiora, circondato dal bosco di castagni da cui deriva il nome, è una tradizione interrotta nel secondo dopoguerra e ripresa nei primi anni ottanta, secondo quanto riferisce lo stesso Ferretti [18]. Si tratta di una rappresentazione assai complessa in cui, fra i vari personaggi, la Morte gioca un ruolo importante. I suoi aspetti sono stati ampiamente illustrati da Ferretti nel testo indicato in nota e al quale si rimanda per ogni eventuale approfondimento. Mi limiterò qui a una descrizione sommaria. Si tratta di una vera e propria piece di teatro popolare in cui intervengono personaggi fissi e azioni ripetitive, riprodotte sostanzialmente allo stesso modo di edizione in edizione. Fra i personaggi e le azioni compiute, il Carnevale e l’amico Gaudiente, organizzatore della festa, la Quaresima, il Crumiro, la Compagnia dei Gobbi, il Prete, talvolta accompagnato dal Sagrestano, il Notaio, il Dottore, in alcuni casi accompagnato dall’Infermiera. Prendo dal testo di Ferretti le azioni che si svolgono:
- Agonia del Carnevale morente durante l’ultimo ballo;
- Tentativi di cura e pianto per il Carnevale;
- Derisione e intervento della Quaresima;
- Testamento del Carnevale;
- Ballo dei Gobbi giunti a sorreggere la bara;
- Funerale attraverso le vie del paese;
- Punizione dell’uomo che rompe il tabù del non lavorare;
- Sostituzione del Carnevale Morto con un fantoccio;
- Fantoccio bruciato sul rogo o sua impiccagione (bruciatura nell’edizione del 1982);
- Ballo dei Gobbi e festa comune [19].
Al di là dell’estremo resoconto delle azioni e dei personaggi, ciò che mi interessa, ai fini di questo scritto, è un’ultima considerazione sulla morte. Scrive Ferretti:
«Intorno al Carnevale si muovono figure stereotipe tratte dalla ufficialità del paese: il Dottore, il Frate col Chierichetto, il Notaio.
Nel testamento che quest’ultimo legge ad alta voce con grande solennità, è sì contenuta una morale che va a tutto vantaggio della comunità, arricchita di piccoli spunti polemici; di riferimenti locali, di battute scherzose e insieme augurali, ma in pratica – nella finzione teatrale – nulla rimane per i «parenti» più prossimi e per i presenti. Il Carnevale non ha nulla da lasciare, si è mangiato e bevuto tutto e la sua unica eredità è la Quaresima bianca e ascetica che si muove soddisfatta intorno al cadavere. Ecco allora che è abbandonato a terra senza alcuna pietà e si deve solo alla Compagnia dei Gobbi l’estremo e doveroso ossequio alla salma. Alla consueta cantilena funebre, i Gobbi emergono tra la folla che fa corona allo spazio scenico» [20].
Il Carnevale è simbolo della vita, della gioia, del divertimento. La sua morte è ineludibile a Marroneto, ma è anche la metafora di tutto ciò che è caduco su questa terra. Tutto ha un termine, e soprattutto, ha termine la vita umana. Questa è, a mio avviso, la lezione della Morte del Carnevale di Marroneto (cerimonia che però un tempo aveva una più ampia diffusione, non solo fra i paesi dell’Amiata). E non serve il pianto di Gaudiente, convinto dell’eternità del Carnevale, accompagnato dalla laconica musica dell’orchestrina, le sue promesse e i suoi regali, affinché il Carnevale non muoia. Recita il suo triste canto:
Carnevale non te ne andare, t’ho portato un bel cappotto, ogni punto un salsicciotto, Carnevale non te ne andare;
Carnevale non te ne andare, t’ho portato un bel cappello, ogni punto un fegatello, Carnevale non te ne andare…
e poi, come in un pianto:
Oh Carnevale… Non te ne andare… Oh Carnevale… Resta con noi….
Beni essenziali per la vita, quelli “portati” da Gaudiente, abiti per ripararsi dai rigori del freddo montano, e cibo.
E noi, ora, un po’ ricercatori, un po’ studiosi, un po’ appassionati di tradizioni popolari, di feste e di canti, di piazze, di campanili, di storie raccontate, noi un po’ distaccati e un po’ engaged, vorremmo dire:
Oh Ferretti, non te ne andare, t’ho portato un bel libretto, ogni pagina uno scherzetto, o Ferretti non te ne andar…
Oh Ferretti non te ne andare, t’ho portato una canzoncina, ogni nota una mascherina, o Ferretti non te ne andar…
Oh Ferretti non te ne andare, t’ho portato una storiella, la racconta una bimba bella, o Ferretti non te ne andar…
Perché hai vissuto?
A quale domanda stavamo rispondendo Piergiorgio Zotti e io, con quella dichiarazione programmatica? La morte di Ferretti aveva lasciato un vuoto nella città di Grosseto, ma in modo particolare precipitava nello sconcerto la piccola comunità che si era formata intorno a lui. Per questo vorrei provare ad analizzare la condizione che si era venuta a creare, aiutato dal ragionamento di Francesco Campione, uno studioso che si occupa proprio delle problematiche della morte e del lutto.
«Erano passati poco più di tre anni dalla morte di Ferretti. L’elaborazione del lutto era appena all’inizio. Intorno all’Archivio delle Tradizioni Popolari della Maremma, al gruppo che ne faceva parte, si erano aggiunti altri studiosi grossetani e senesi, guidati da Pietro Clemente, con l’obiettivo di realizzare il Museo della Maremma da lui progettato. Cercare Ferretti nella sua opera, anche se lui non c’era più, portarla avanti, contribuire a migliorarla se possibile: era una espressione collegiale del dolore, del senso della perdita, del cordoglio collettivo, che non è una lotta contro la morte ormai già avvenuta, e alla quale non c’è rimedio (tragico destino dell’umano individuo, a differenza delle comunità, che lo trascendono), ma il tentativo di darle un senso come parte della vita stessa. È una forma di elaborazione del lutto, quella del trascendimento: dare senso alla vita umana, accettare la fine di essa purché chi muore ci lasci detto perché ha vissuto. L’elaborazione del lutto non è solo una questione psicologica, ma anche culturale, afferma lo psicologo clinico» [21].
Teorie del superamento della crisi
Si osservano tre fasi nel comportamento di chi ha subìto una grave perdita: dopo una prima ricerca della persona scomparsa, c’è una fase in cui dominano i sentimenti di allarme, rabbia, colpa, depressione, seguiti dall’allentamento dei legami con la persona cara, preludio del formarsi di una nuova identità e dell’istaurarsi di nuovi legami. La psicologia ha formulato tre teorie per l’interpretazione del lutto e del superamento della crisi dovuta alla sopravvenuta assenza di una persona cara: una teoria biologica, una teoria psicoanalitica e una teoria esistenziale.
Secondo la teoria biologica la morte recide il legame e mette a rischio la sopravvivenza del soggetto; il lutto tende a risolvere il problema della sopravvivenza non più assicurata. La persona in lutto si comporterebbe, secondo la teoria biologica, come l’animale che si mette alla ricerca dello scomparso, come per accertarsi della sparizione, cercando però ogni possibile recupero della perdita. Seguirebbe a questo un senso di minaccia e di frustrazione nella sopravvivenza, seguito da una presa di distanza da chi non è più disponibile per gli scopi della sopravvivenza e infine un adattamento alla nuova situazione.
La teoria psicoanalitica invece vede il soggetto alla ricerca della persona scomparsa come la negazione della perdita. Pur nella consapevolezza della perdita, c’è la tendenza alla negazione, la ricerca avrebbe un valore difensivo nei confronti della propria stessa consapevolezza. Come se il soggetto volesse negare a se stesso che sa di aver subìto la perdita. I sentimenti di rabbia, colpa, depressione che subentrano, danno luogo all’individuazione di un bersaglio fuori di sé cui dirigere l’aggressività che ne deriva. La perdita subita, di conseguenza, viene riparata attraverso il far rivivere dentro di sé l’oggetto d’amore perduto, la morte esterna può essere accettata, con l’introiezione della persona cara scomparsa, liberando il soggetto per nuovi investimenti affettivi. «Insomma – afferma Francesco Campione – per la teoria psicoanalitica del lutto, la perdita si supera attraverso la riparazione, quando cioè si fa rivivere dentro di sé […] la persona cara morta» [22].
La teoria esistenziale
«Che cosa dobbiamo fare degli estinti, delle creature che ci furono care e che erano come parte di noi stessi? ‘Dimenticarli’, risponde se pure con vario eufemismo, la saggezza della vita. ‘Dimenticarli’, conferma l’etica. ‘Via dalle tombe’, esclamava Goethe, e a coro con lui altri spiriti magni» [23].
Si dice che il dimenticare è opera del tempo, ma, afferma Benedetto Croce, non si può attribuire un’azione a un essere che non esiste. È infatti nel tempo che le azioni si svolgono, ma non è il tempo che le compie. Siamo noi, continua Croce, che dimentichiamo. E tutti viviamo il dolore allo stesso modo. Francesco Campione, dal cui testo prendono spunto queste considerazioni, cita un passo di de Martino, che a sua volta si rifà a Croce:
«”La diversità o la varia eccellenza del lavoro differenzia gli uomini: l’amore e il dolore li accomuna, e tutti piangono ad un modo. Ma con l’esprimere il dolore, nelle varie forme di celebrazione e culto dei morti, si supera lo strazio, rendendolo oggettivo. Così cercando che i morti non siano morti, cominciamo a farli effettivamente morire in noi. Né diversamente accade nell’altro modo col quale ci proponiamo di farli vivere ancora, che è di continuare l’opera a cui essi lavorarono, e che è rimasta interrotta”. In effetti questo passo del Croce racchiude una esattissima e umanissima verità: per grande che possa essere il dolore di una perdita, sùbito si impone a noi, nella piena stessa del dolore e con tanto maggiore urgenza quanto più siamo prossimi alla disperazione, il compito di evitare la perdita più irreparabile e decisiva, quella di noi stessi nella situazione luttuosa. Il rischio, di non poter oltrepassare tale situazione, di restare fissati e polarizzati in essa, senza orizzonti di scelta culturale e prigionieri di immaginazioni parassitarie costituisce la seconda decisiva morte che l’evento luttuoso può trascinarsi dietro; perciò nella morte della persona cara siamo perentoriamente chiamati a farci procuratori di morte, di quella stessa morte, sia destinando ad una nuova riplasmazione formale la somma di affetti, di comportamenti, di gratitudini, di speranze e di certezza che l’estinto mobilitò in noi finché fu in vita, sia facendo nostra e continuando e accrescendo nell’opera nostra la tradizione di valori che l’estinto rappresenta.
Indipendentemente dalla situazione luttuosa come tale, è appunto questa la varia fatica che ci spetta in ogni momento critico dell’esistenza, che è sempre in attivo far passare nel valore, e quindi un rinunziare e un perdere, un distacco e una morte, e al tempo stesso una opzione per la vita: ma nella perdita di una persona cara noi sperimentiamo al più alto grado l’asprezza di questa fatica, sia perché ciò che si perde è una persona che era quasi noi stessi, sia perché la morte fisica della persona cara ci pone nel modo più crudo davanti al conflitto fra ciò che passa irrevocabilmente senza di noi (la morte come fatto della “natura”) e ciò che dobbiamo far passare nel valore (la morte come condizione per l’esplicarsi della eterna forza rigenerante della “cultura”). La fatica di “far passare” la persona cara che è passata in senso naturale, cioè senza il nostro sforzo culturale, costituisce appunto quel vario dinamismo di affetti e di pensieri che va sotto il nome di cordoglio o di lutto; ed è la “varia eccellenza” del lavoro produttivo e differenziato a tramutare lo “strazio” – per cui tutti gli uomini rischiano di piangere “ad un modo” – in quel saper piangere»[24].
Nell’ottica esistenziale, al di là del fatto che il rifiuto di prendere atto della morte venga connotato come «follia», lo scopo del lutto è dimenticare, piuttosto che adattarsi a nuovi attaccamenti o ripristinare nell’interiorità ciò che è passato nella realtà esterna. È il senso della vita che entra in crisi con la morte: non la vita intesa in senso biologico, né soggettivo, ma quel concetto di vita fornita di senso, edificata culturalmente con la storia e nella storia.
La morte delle persone care deve passare nel valore, i morti non devono essere fatti vivere in noi, ma fatti morire in noi culturalmente.
«Il pianto rituale, i rituali collettivi del lutto avevano, secondo De Martino, proprio questa funzione di far sì che potessimo lasciar morire i nostri morti superando la crisi del senso della storia che essi determinano» [25].
La teoria biologica e la teoria psicoanalitica sono appropriate a questo tempo, mentre la teoria esistenziale raffigura quel tempo in cui si sapeva come “far morire” in noi, culturalmente, i nostri cari. Il rapporto fra le prime due teorie e questa terza rappresenta la contraddizione tra una cultura che tende a non comprendere il problema del senso della vita e un individuo che invece deve porselo, se vuol vivere. L’uomo evocato dalla teoria biologica è un uomo che di fronte alla morte non può dimenticare, perché è sul biologico che basa il suo attaccamento, come se non si accorgesse del tempo, della storia; quello evocato dalla teoria psicoanalitica non può ricordare, perché per lui il passato non è mai passato, ma un eterno riviverlo. Questo individuo percepisce i suoi cari estinti come sempre, lì presenti con lui. Per lui sarà terribile pensare al momento del trapasso, come sarà altrettanto cruda la percezione dell’assenza, perché considera l’estinto sempre presente con sé.
«Poiché l’oggetto d’amore interiorizzato non è un ricordo ma una presenza, dover far rivivere vuol dire precisamente non poter collocare nel passato ciò che è passato, ma rendere il passato presente, restare nel passato, edificare il presente sui morti mai morti che si sono interiorizzati» [26].
Sono sempre più frequenti, afferma Campione, i casi in cui il lutto segue un percorso patologico. In sostanza sono lutti irrisolti. Bisognerebbe dimenticare, ma per questo è necessario un armamentario culturale, perché né biologicamente, né psichicamente, l’uomo è dotato dello strumentario giusto, che invece è culturale. Attraverso la cultura l’uomo dovrebbe ritrovare la condizione non di dimenticare i propri cari, ma di essere nella condizione di poterlo fare, perché i morti non siano più presenti, e possano essere ricordati, cioè collocati nel passato.
Il deserto dello spirito
La ritualità aiuta nella percezione del trapasso, del senso di abbandono che provoca la crisi esistenziale, che si tratti del pianto rituale oppure della mestizia che avvolge il corteo funebre. Questa ritualità ha lo scopo di fissare il punto, di accertare la perdita, ma ha anche un effetto di storicizzazione: fissare l’esistenza di chi è trapassato in un arco temporale, nella storia, prendere atto che si tratta di un tempo. Varie sono le forme di ritualità di fronte alla morte, e si potrebbe dire che ogni comunità adotta la propria: cerimonie religiose si accostano e si oppongono alle cerimonie laiche dei non credenti; mentre in ambito privato, secondo l’interpretazione della teoria psicoanalitica, la conservazione degli oggetti di chi è trapassato o il mantenimento della sua stanza come se ci fosse ancora, pur tendendo a riempire il vuoto lasciato, in realtà perpetua l’assenza, provocando il deserto dello spirito.
«Io credo che la morte di una persona cara lasci in una desolazione che può semplicemente chiamarsi deserto, appunto il deserto del lutto, e determini una crisi profonda nel senso della vita, dalla quale si esce solo aprendo l’orizzonte di nuove speranze di senso per chi pure deve restare nei suoi panni e non rifiutare le sue origini e la sua storia»[27].
Si tratta di strategie per superare il dolore della perdita, per scongiurare il rischio della perdita di se stessi. Plasmare affetti, comportamenti, gratitudine, speranze e certezze che l’estinto mobilitò in noi finché era in vita, o facendo nostra, continuando e accrescendo la tradizione di valori che quello rappresentava.
Ma per dimenticare è necessario un passaggio, una delle tante forme di ritualità possibili. Manipolare gli oggetti che furono i loro, che ci furono lasciati, è una delle modalità, forse la più usata. Completare l’opera, raccogliere l’eredità morale, nella consapevolezza che fra noi superstiti non c’è più il nostro caro, è il passaggio culturale che dà senso alla vita, a quella estinta e a quella che si estinguerà. Affinché ciascuno di noi possa lasciare detto, a chi resta, la ragione per cui ha vissuto [28].
Lo spazio dei morti
Ragionando sugli spazi dedicati ai morti e alla separazione di questi dagli spazi dei vivi, citando Heidegger e Merleau-Ponty, Adriano Favole fissa alcuni punti che mi paiono importanti.
«Nella prima metà del Novecento Martin Heidegger ha sviluppato una serie di interessanti riflessioni intorno alla domanda “che cos’è l’essere umano?”. Per Heidegger l’essere umano è in realtà un esserci (Dasein), ovvero un essere-nel-mondo (in-der-Welt-sein). L’essere umano, in quanto “Esserci” è sempre “spaziale”, nel senso che ha sempre a che fare con dei luoghi (Heidegger, 1927). Questa connessione profonda, inevitabile e radicale, fra gli esseri umani e i luoghi dello spazio (Remotti, 1993), è stata indagata in modo ancor più analitico da Maurice Merleau-Ponty (1965). Lo studioso francese ha osservato che il corpo umano, sia esso vivo o morto, non occupa spazio nello stesso identico senso degli altri oggetti materiali (spazialità di posizione). Il “qui” del corpo non si riferisce mai a una serie definita di coordinate, ma alla situazione del corpo attivo, orientato verso i propri compiti (spazialità di situazione). Se dal punto di vista spaziale il corpo vivo è dunque paradigma di “presenza” nel mondo (l’Esserci), in generale la morte configura la forma più radicale dell’”assenza”: la morte come scomparsa di un Esserci scatena una dolorosa crisi della presenza» (De Martino, 1958) [29].
Se il corpo vivo risponde a una “spazialità di situazione”, che è ciò che lo differenzia dagli oggetti, che invece rispondono a una “spazialità di posizione”, il corpo che non è più vivo si pone in una condizione ancora differente, in qualche modo simile a quella del corpo inanimato, dell’oggetto, ma anche con caratteristiche di spazialità di situazione, perché chi è morto non cesserà mai di restare accanto ai vivi, finalmente storicizzato, in un nuovo e sempre mutevole contatto con i vivi. O per meglio dire, i vivi continueranno ad averlo presente. Ci sarà un luogo fisico in cui risiede il corpo, ma ci saranno anche luoghi diversi, fissi o mutevoli, fisici o non fisici, di una presenza ulteriore.
Pare necessario fissare nello spazio ciò che è avvenuto nel tragico istante del trapasso. Le strade (particolarmente le strade secondarie, non le autostrade) che sono un luogo di morte, sono punteggiate di altarini che ricordano l’evento in cui qualcuno ha perso la vita. C’è evidentemente la necessità di rappresentare l’evento infausto nel luogo in cui ciò si è verificato. In caso di morte violenta, e particolarmente se si tratta di incidente stradale, il luogo in cui è avvenuto (benché in alcuni casi la morte sopraggiunga più tardi, in altro luogo, ad esempio in ospedale) viene segnato.
Questo segno corrisponde a un “altarino”, può essere una semplice croce con il nome, talvolta anche nella forma minima di una croce di legno conficcata nel terreno, e progressivamente oggetti più elaborati e duraturi, fino al manufatto in pietra. In alcuni casi si trovano piccole lapidi, anche con la fotografia, talvolta è riprodotto un piccolo tumulo d’inumazione, come a rappresentare la tomba stessa. È raro che questi “altarini” restino privi di un fiore, o che per lungo tempo non ricevano attenzioni e manutenzione, come invece capita talvolta di notare a proposito delle tombe o dei loculi nei cimiteri.
Un altro luogo dei morti è il sogno. Non si tratta di un luogo fisico, in questo caso, ma di un luogo che sta dentro di noi. Nel sogno i morti ci parlano, compiono con noi i gesti della vita quotidiana, “rivivono” se così si può dire, le esperienze passate insieme a noi, risolvono conflitti o li affrontano senza risolverli. L’esperienza onirica è spesso legata alla presenza dei nostri cari trapassati. Se una grossa fetta dell’analisi psicanalitica è basata sull’esperienza onirica, c’è ancora molto da esplorare, dal punto di vista antropologico, sia rispetto al sogno che rispetto alla morte.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] Mi riferisco, ad esempio, alle iniziative legate al Carnevale degli anni 1979 e 1980. Oltre a documentare questo fenomeno popolare, Ferretti organizzava per i due anni consecutivi, una serie di incontri di studio e di spettacoli di piazza.
[2] Intervista di Michele Graglia ad Alberto Lecaldano del 16 settembre 2018. Era presente Piergiorgio Zotti.
[3] “Il Dramma”, numero 7, anno 46, luglio 1970
[4] Michele Graglia, Frutti precoci e fiori tardivi, in Il 68 in Maremma. Un figlio dei fiori non pensa al domani, Effigi, Arcidosso (GR), 2018: 66.
[5] La maggior parte delle sue tavole, i primi semplici disegni al tratto, le ultime compiute opere pittoriche, sono ora riprodotte in Roberto Ferretti, Il vagabondo delle stelle, a cura di Mauro Papa, Archivio delle tradizioni popolari della Maremma, Grosseto, 2006.
[6] Pompeo Della Posta, La caccia tradizionale con insidie nel grossetano, Comune di Grosseto, Archivio delle Tradizioni Popolari della Maremma Grossetana, 1985.
[7] I principali riferimenti dell’opera demartiniana sembrano essere Il mondo magico (1948), Sud e Magia (1959), La terra del rimorso (1961).
[8] Cfr. Roberto Ferretti, «Dalla fiaba alla leggenda di fondazione. Appunti, esperienze, esempi di ricerca sul patrimonio narrativo orale del Grossetano», in La Ricerca Folklorica, a cura di Lidia Beduschi, n. 12, Grafo edizioni, 1985; e anche Pietro Clemente (a cura di), Due scritti fiabistici inediti di Roberto Ferretti, Università degli Studi di Siena, “Fonti orali” redazione toscana, Comune di Grosseto – Archivio delle tradizioni popolari della Maremma grossetana, 1985. Si rinvia anche a Gabriella Pizzetti, L’avventura di una ricerca, in Fiabe e storie della Maremma nel fondo narrativo di tradizione orale «Roberto Ferretti», Archivio delle tradizioni popolari della Maremma grossetana – Biblioteca Chelliana, Grosseto, 1977: X-XXXVII.
[9] In una nota, egli si poneva il problema della «acquisizione della conoscenza magica». La nota è ora pubblicata in Il cerchio magico. Le figure magiche nella narrativa di tradizione orale, a cura di Paolo Nardini, Effigi, Arcidosso, 2011: 8.
[10] Flavio Fusi, Ogni cosa è illuminata, in Il 68 in Maremma, cit.: 55-56.
[11] Massimo De Benetti, Piergiorgio Zotti (a cura di), I corsari e la Maremma. Storie e leggende delle incursioni barbaresche, Comune di Grosseto, Biblioteca comunale Chelliana, 2010: 53 e segg.
[12] Roberto Ferretti, «La Sultanina», il «volo della capra», «l’albero del pepe di là dal mare», le «maschere degli zozzi». Un contributo alla definizione della cultura tradizionale subalterna nell’area meridionale e marinara del territorio maremmano, in Id (a cura di), Aspetti e problemi di storia dello Stato dei Presìdi in Maremma, Comune di Grosseto, Società Storica Maremmana, 1981: 103 e segg.
[13] Aurora Milillo, «Un ricordo di Roberto Ferretti. Il binocolo e il magico puma», in Carlo Prezzolini, Ennio Sensi (a cura di), Le tradizioni popolari amiatine tra passato e futuro, Quaderno 2 di Amiata Storia e territorio, Supplemento al n. 7 della rivista, anno III, 1990: 14.
[14] La ricerca cui mi riferisco era legata alla realizzazione del Museo della Maremma, già progettato da Ferretti. L’esito non fu esaltante perché a causa di qualche dissidio fra rappresentati delle istituzioni preposte (Regione Toscana, Ente Parco Regionale della Maremma, Comune di Grosseto), il museo non si è mai realizzato.
[15] Emilio Guariglia, Disegni da un viaggio fuori tempo, in Roberto Ferretti, Il vagabondo delle stelle, cit.
[16] Roberto Ferretti, Il Carnevale di Porto Santo Stefano: la morte, la donna, la famiglia, in Id (a cura di), Aspetti e problemi di storia dello Stato dei Presìdi in Maremma, Comune di Grosseto e Società Storica Maremmana, Grosseto, 1981: 119. Cfr. anche Id, Alcuni appunti sul Carnevale nel grossetano: gli «antipodi» di Marroneto e Porto S. Stefano, in Id (a cura di), Dire e fare Carnevale. Temi di ricerca e contenuti, Editori del Grifo, Montepulciano (SI), 1984.
[17] Ivi: 120.
[18] Roberto Ferretti, Morte del Carnevale, in Id (a cura di), Dire e fare Carnevale: 157 e segg.
[19] Ivi: 158. Questa la sequenza del 1982. Nel 2012 ho potuto osservare la stessa cerimonia, che rispetto a quella osservata da Ferretti presentava alcune varianti minime. L’uomo che infrange il tabù del non lavorare viene scoperto all’inizio della festa e non alla fine. Il “Prete” pronuncia una lunga omelia, il “Dottore” è accompagnato dall’”Infermiera”, che lo aiuta a “rianimare” il Carnevale ormai esanime, aiutandosi anche con la “respirazione bocca a bocca” e attraverso ammiccamenti sessuali (sono proprio quest’ultimi a scatenare l’ilarità del pubblico presente, è infatti da notare che sia Carnevale che Infermiera sono impersonati da due giovani maschi adulti).
[20] Ivi: 170.
[21] Francesco Campione insegna Psicologia Clinica all’Università di Bologna, dove coordina il “Servizio di Aiuto Psicologico nelle situazioni di crisi” presso il Dipartimento di Psicologia. È autore di testi sulle problematiche del lutto.
[22] Francesco Campione, Lutto e desiderio. Teoria e clinica del lutto, Armando Editore, Roma, 2012: 32.
[23] Benedetto Croce, I trapassati, in Frammenti di etica, G. Laterza & figli, 1922: 22-24, citato in Campione, cit.: 33.
[24] Ernesto De Martino, Morte e pianto rituale, citato in Campione, cit.: 33-34.
[25] Campione, cit.: 34.
[26] Ivi: 35.
[27] Ivi: 30.
[28] Oggi che sto scrivendo queste note è il 14 di marzo. Quarantatré anni fa moriva mia madre. Aveva 43 anni. L’elaborazione del lutto è stata lunga e dolorosa. Ma è proprio questa la direzione nella quale si è rivolta: raccogliere l’eredità morale e proseguire l’opera interrotta. Questa per lo meno è stata ed è la mia interpretazione, perpetuare la ricerca della verità e del senso di giustizia che lei mi ha insegnato: non c’è giustizia senza bontà, ma anche non si può essere buone persone senza essere giusti.
[29] Adriano Favole, Gianluca Ligi, «L’antropologia e lo studio della morte: credenze, riti, luoghi, corpi, politiche», in RF Ricerca Folklorica, n. 49, anno 2004, Grafo Edizioni, Brescia: 8.
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Paolo Nardini, laureato in filosofia con indirizzo demo-etno-antropologico presso l’Università di Siena, è giornalista dal 2006, scrive per Il Tirreno. Ha pubblicato su Maremma Magazine, il Manifesto e La Nazione. Dal 2015 organizza il Festival e i Laboratori annuali di musica popolare, a Grosseto, in collaborazione con il Circolo ARCI Khorakhanè. Nel 1986 inizia una collaborazione con il Comune di Grosseto per la realizzazione del Museo della Maremma di Alberese, con la guida di Maria Luisa Meoni e il coordinamento di Pietro Clemente. Da allora, e fino a oggi, si occupa dell’Archivio delle tradizioni popolari della Maremma, un centro di ricerca e di riproposizione delle attività tradizionali. Fra le pubblicazioni, tutte edite da Effigi, si segnala: Improvvisar cantando: Atti dell’incontro di studi sulla poesia estemporanea in ottava rima, a cura di, con Corrado Barontini (2009), Monticello Amiata. Una ricerca etnografica intorno alla Casa Museo (2011); Il Cerchio Magico: Atti del convegno sulle figure magiche nelle narrazioni di tradizione orale in Maremma (2011); Don Luigi Rossi e il rifugio Sant’Anna (2013); Il Sessantotto in Maremma: un figlio dei fiori non pensa al domani (a cura di, con Flavio Fusi) (2018); Sant’Antonio Abate. La benedizione degli animali a Castell’Azzara (2019).
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