di Eugenio Imbriani
Incompiuto
Un giovane non ancora ventenne, ma ben dotato di studi, attratto dagli antichi classici e dalla letteratura contemporanea, che ha maturato una decisa avversione al fascismo, si guarda allo specchio e nel riflesso vede un altro se stesso, simile a lui, riconoscibile, ma anche diverso, il quale ha la strana pretesa di farsi raccontare. Rocco implora il suo alter ego, Ramorra, di lasciar stare, ma quello insiste: «Beh, senti, io voglio un romanzo da te. Io te lo dico che sei adatto, perché sai ricevere e conservare per disperdere a tempo. Devi parlare di noi due amici inseparabili che non ricordiamo più quando la nostra amicizia incominciò» [1]. Ramorra ritiene che sia necessario un simile atto narrativo, che può rappresentare il concludersi di un ciclo, quello della giovinezza, e consentire l’accesso a nuovi percorsi da intraprendere: «Mi sono fermato in un punto», spiega. «Numerose strade mi chiamano. Io resto al bivio ostinato a non mettermi per nessuna di quelle strade, se il ciclo della mia gioventù prima non si conclude e non resta documentato, glorificato» [2].
Il breve apologo immediatamente successivo alimenta ulteriormente il tema del doppio (lo specchio, il bivio, la dissociazione) fulmineamente presentato dallo scrittore: un giovane camminava sulla riva di un fiume, trovò un osso, poi un altro, forse di cavallo; vide una giubba trasportata dall’acqua e un uomo a cavallo sulla cima di un monte; tornò indietro e rivide il cavaliere, la giubba e gli ossi: andare e tornare sono la stessa cosa? Lo chiese a un vecchio che incontrò lungo il tragitto: sempre ritornando, dove posso arrivare? Quello gli rispose con un’altra domanda: sempre andando avanti, io dove vado a finire? Il testo non offre soluzioni, pone questioni, e colpisce la lucidità e la cattiveria con cui il giovane scruta dentro di sé.
L’autore della storia di Ramorra, come si sarà capito, è Rocco Scotellaro. Il testo, insieme ad altri racconti, fu pubblicato a cura di Carlo Levi nella raccolta Uno si distrae al bivio, nel 1974. Vi confluirono anche delle annotazioni tratte dai quaderni dell’Uva puttanella. Ma qui conviene fare un passo indietro, per recuperare qualche informazione che aiuti a rendere più chiaro il filo di questo discorso.
Rocco morì a Portici improvvisamente il 15 dicembre 1953, quando aveva appena trent’anni; aveva trascorso una vita molto intensa, sia nel campo dell’attività politica che in quello dell’organizzazione e della produzione culturale. Purtroppo, non riuscì a portare a compimento e a pubblicare le opere a cui stava lavorando: la raccolta poetica, alla quale aveva in realtà dato una forma definita, il memoriale (o romanzo) L’uva puttanella, e la ricerca, molto significativa, sebbene a uno stadio iniziale, sul mondo contadino meridionale, Contadini del sud.
Il volume delle poesie, con il titolo È fatto giorno, a cura di Carlo Levi, uscì nel 1954; lo scrittore piemontese, amico di Scotellaro e custode delle sue carte, modificò il piano dell’opera, intervenne nella disposizione e nella scelta dei testi, come gli studi successivi hanno dimostrato, presentandola come un canto contadino di rivendicazione [3]. Il libro ottenne il premio Viareggio e divenne occasione di un dibattito politico molto sostenuto che vide coinvolti, oltre agli intellettuali, i dirigenti dei maggiori partiti della sinistra. Il tema principale riguardava la visione leviana di una realtà contadina autonoma, peraltro non condivisa da Scotellaro, mentre già Gramsci aveva spiegato che l’esistenza del mondo popolare non poteva essere separata dalla relazione con la classe egemone; sull’altro versante della polemica si ribadiva il ruolo di guida politica spettante alla classe operaia [4].
Levi aveva elaborato una sua idea del mondo contadino lucano, in cui sacro e profano si mescolano in modo indistinguibile e gli uomini stessi partecipano di diverse nature, sono anche spiriti, o animali; in Cristo si è fermato a Eboli Aliano è un paese di morti, la gente vive in una civiltà immobile, esclusa dalla storia, dallo Stato, dai saperi avanzati e dall’istruzione elementare, dalla salute, dalla religione, il mito governa pensieri e percezioni. Per descrivere questa condizione Ernesto de Martino userà l’espressione “miseria psicologica”, concetto che proviene direttamente da Il mondo magico: è una società in cui la coscienza non è saldamente costituita, in cui si manifesta, nelle ricorrenti situazioni di crisi, quell’io variopinto e molteplice che il pensiero razionalista ha cercato di ridurre all’unità. Ecco, per Levi, Scotellaro è il cantore di quella separatezza, di quella autonomia, o, almeno, tale vuol presentarlo, seppure con alcune forzature. È il rischio che si corre a morire troppo giovani, per giunta in modo repentino: gli scritti di Rocco, le annotazioni, gli appunti, i materiali più meno organizzati, spesso allo stato di abbozzo, vengono manipolati da altri, diventano oggetto di interpretazione, e tutto acquista interesse, comprese quelle pagine che uno non avrebbe immaginato di rendere pubbliche.
Anche l’operazione filologica più accurata, compiuta sugli inediti, ha in sé un tratto di infedeltà, perché non può tener conto dei ripensamenti, dei pentimenti che possono spingere un autore, lo sappiamo bene, a intervenire sul testo fino all’ultimo momento utile. Alberto Cirese lo ha sottolineato per l’opera forse più controversa di Scotellaro, Contadini del Sud, che uscì nel 1954 con una prefazione di Manlio Rossi Doria [5]: «E quando si è di fronte ad un lavoro non condotto a termine (nel quale cioè non si sono proposti esplicitamente tutti i problemi e tutte le prospettive, e non si sono compiute le eliminazioni e le scelte richieste dal concreto crescere dell’opera) è facile vedere più o meno di quanto in realtà ci sia; è facile soprattutto dare come definitive certe intenzioni che invece appaiono solo allo stato frammentario, e concepire come unificati, e unificati verso taluni obbiettivi, degli orientamenti che sono ancora vaghi e imprecisi» [6].
Levi percepisce e presenta Scotellaro, fin dalla raccolta dei racconti, come uno scrittore fatto e finito: «È un’opera completa,» scrive nella prefazione, «a suo modo perfetta, un capolavoro di sincerità, di lingua, di pienezza espressiva» [7]. Egli vede nel suo giovane amico una bella capacità di affrontare lucidamente questioni e problemi, di entrare in empatia con i suoi interlocutori, particolarmente con i lavoratori, una concretezza nell’agire che si manifestava anche nei piccoli gesti, nell’abitudine di prendere appunti, annotare ogni cosa anche su minuti pezzetti di carta, sulla scatola di cerini, sui pacchetti di sigarette. Tutto ciò è vero senz’altro [8], ma Scotellaro nei suoi scritti rivela anche le proprie incertezze e presenta se stesso come persona incompiuta; ed è proprio questo carattere che lo accomuna ai suoi contadini, come egli stesso afferma, malgrado sia innegabile la distanza che ha marcato con i suoi viaggi, la formazione, l’esperienza di vita, l’amore per la letteratura, l’impegno politico.
Ramorra è l’altro sé che sta al bivio e ha bisogno di esistere nella narrazione, in una biografia purché sia; Rocco si guarda allo specchio e tutto sommato non trova quello che vorrebbe, un dispositivo che gli consenta di superare la fase della prima giovinezza, ora che ha delle decisioni da prendere; il padre non può essergli d’aiuto, se ne è andato troppo presto, e il dialogo con i morti è tutt’altro che agevole, perché dipende dalla loro buona disposizione: «Il 1942, quando moristi, volevo sapere da te, dall’altro mondo, che dovevo fare […]. Certo che parlo di me, e di chi dovrei parlare? – dissi ad alta voce al serpente appena lo scorsi. Si girò indietro e scappò via» [9]. Suo padre, egoisticamente, taglia la corda, ma ormai appartiene a un altro mondo; ha ragione, Francesca, la moglie, a non voler andare nella vigna per paura di incontrarlo: «mamma non vuol venire mai sola perché ti incontra vestito da serpente o ti ode borbottare sotto le fabbriche» [10].
Rocco confessa il suo disordine e la sua asistematicità: «Gli appunti presi sono stati un esercizio qualunque di calligrafia e di pittura del momento. Ripetendoli qui, essi hanno la forza fredda degli ossi, dispersi, nemmeno legati in scheletro. L’ordine che non c’è non lo troverete» [11]; da qui la nota metafora dell’uva puttanella, i cui grappoli hanno, tra quelli di dimensioni normali, acini più piccoli, privi di semi, ma dolcissimi, che hanno faticato a trovare spazio per farsi toccare dal calore del sole: allo stesso modo il mio paese fa parte dell’Italia, dice: siamo piccoli, pronti a dare il succo che abbiamo, ma con un limite che non aiuta certo a immaginare, a costruire il futuro, siamo gli acini che non crescono e non hanno semi: «Nella mia Uva puttanella non è questione di puttanismo politico, fenomeno comune ai capi e ai gregari delle chiese e dei partiti e a tutti gli uomini. Si tratta, invece, di una rinuncia all’essere, di riluttanza al divenire maturi e grandi […]. C’è gente che studia e deve arrivare, arriva ed è contenta. C’è persone che vogliono sposarsi e si sposano. Io non so che fare, forse mi ucciderò: sarà l’unico gesto normale, di cui spero che sia capace» [12].
L’attivismo di Rocco, il suo frenetico muoversi, viaggiare, la partecipazione al dibattito politico, in anni in cui è tutto da costruire, e culturale, il fatto di essere un punto di riferimento per gli studiosi, i fotografi, i cineasti che nel secondo dopoguerra si recavano in Basilicata per le loro inchieste, tutto ciò sembrerebbe contraddire la percezione che egli ha di sé, ma poi è intervenuta la morte a dargli ragione. Le sue opere più importanti, come dicevamo, sono rimaste in effetti incompiute e si sono consegnate in mani altrui, con i rischi che ne derivano, dalle letture inappropriate alle distorsioni del pensiero e delle parole, alla loro cristallizzazione in forme che l’autore, magari, non avrebbe approvato. Per questo motivo, in un libro di qualche anno fa, ho inserito Scotellaro tra le figure che sono state governate da un destino ironico: succede a molti di noi, ma il suo mi pare un caso davvero esemplare [13].
Approssimarsi
Nel suo recente libro dedicato a Scotellaro [14], Marco Gatto considera il rapporto tra lo scrittore e il mondo popolare nei termini della mediazione, dell’avvicinamento; in questo modo individua, nel suo percorso politico e letterario, una direzione opposta a quella che la critica gli ha normalmente attribuito. La nuova pista interpretativa vede Scotellaro muoversi verso il mondo popolare attraverso una mediazione tra le istanze squisitamente letterarie e il realismo che si presenta come strumento necessario. Questa mediazione si configura altresì come regressione da un modello intellettualistico al recupero di una prossimità con quella realtà subalterna così complicata e composita che egli conosce direttamente, di cui si sente parte, tra allontanamenti e ritorni. Tale oscillazione, secondo Gatto, produce un ampliamento delle possibilità di produzione letteraria, ed è la via per la ricerca costante di una interlocuzione con l’universo contadino di Tricarico.
Su questo terreno Scotellaro trova Verga e Gramsci. La narrazione verista, per Verga, in Vita dei campi e I Malavoglia, particolarmente, richiede uno sguardo distante, una ricostruzione intellettuale, non una partecipazione agli eventi; certo, preliminarmente bisogna documentarsi, ma egli ritiene che quanto meno la visione è vicina, tanto più risulta vera. La mediazione verghiana tende alla lontananza, mentre quella di Scotellaro tende alla prossimità. Rimane la forza delle immagini: l’ostrica attaccata allo scoglio ritorna nelle annotazioni per l’Uva puttanella, e ne costituisce una variante marinara: «L’uva puttanella sono gli amici miei ed io, ostriche attaccate a un masso che non vedono e non sanno il segreto delle barche, delle petroliere, delle portaerei…» [15]. Verga si propone, quindi, come inevitabile termine di confronto.
Già Giovanni Battista Bronzini ha insistito molto su questo aspetto; secondo lo studioso, sono numerosi i motivi che si rincorrono tra I Malavoglia e l’Uva, e il dialogo delle corrispondenze appare molto serrato; addirittura segnala un «archetipo dello schema narrativo» che si condensa nella sporta di Ntoni e nella borsa di Rocco, accessori del viaggio, simboli della partenza e dello spaesamento cercato. Ancora, c’è il motivo della vigna, luogo nello stesso tempo del lavoro e del mito, in cui si incontrano i vivi e i morti. Come abbiamo visto, Rocco vi incontra il padre, che adesso ha la forma di un serpente, il quale non vuole, o non può, rispondere al figlio e scappa via. Bronzini, a questo proposito, scopre, o gliela attribuisce, la vocazione mitopoietica di Rocco: «Nella economia e simbologia contadina la vigna è la coltura più ambita e ancestrale perché dà prosperità e abbondanza, in quanto legata al regno dei propri morti. Non a caso Rocco vede il padre morto aggirarsi operoso tra le viti. Lì, ogni zolla è la sua tomba» [16]. Bronzini trova degli antecedenti biblici che citano la vigna come simbolo del legame con gli antenati; e continua: «L’andare o meglio il ritornare alla vigna per la strada che mena al Cimitero conferma il significato antropologico di ritorno al proprio antenato per la connessione delle due mete (vigna e cimitero) con il culto dei morti: “lì stanno i nostri morti nudi”, scrive il narratore, congiungendo con la loro la sua nudità simbolica» [17]. Riguardo al motivo della vigna, il confronto con I Malavoglia si riduce all’ultima sosta di Ntoni che, sul punto di andar via, siede sul muricciolo della vigna di massaro Filippo. Ma l’andirivieni tra personaggi e unità narrative tra le prose dei due scrittori continua.
Se si ragiona su questo piano, al rapporto tra Levi e Scotellaro, così stretto eppure problematico, va riconosciuta una stringente continuità. Bronzini sembra attestarsi su questa posizione, ma ne riconosce anche i limiti e una chiara contraddizione interna: «la linea Levi-Scotellaro, che la maggioranza dei critici ha abiurata perché sospetta di levismo, rimane, a mio avviso, la più incisiva per analizzare, per via antropologica […], il rapporto di Rocco con la cultura contadina, che va inteso non nel senso della continuità o di un riecheggiamento del messaggio contenuto nel Cristo si è fermato a Eboli, tanto meno di una, certo innegabile ma non determinante, influenza di Levi su Scotellaro, bensì proprio in virtù di una comune ricezione e riappropriazione di riflessi e simboli del mondo contadino lucano: riflessi e simboli che assumono nell’opera dei due scrittori forme e significati in pochi casi uguali, in prevalenza diversi» [18]. Nella appropriazione dei simboli quindi, seppure con esiti diversi, risiederebbe la continuità tra i due.
Rispetto a questo schema, Marco Gatto prova a fare un passo di lato: Tra Verga e Scotellaro inserisce Gramsci e de Martino, proponendo un altro allineamento di autori che può aiutare a meglio comprendere il perfezionamento formativo dello scrittore. Gli scritti di Gramsci, che cominciano ad essere pubblicati dal 1947 (le lettere) e dal 1948 (i quaderni), presentavano molti elementi di riflessione sui rapporti tra intellettuali e mondo popolare, e hanno offerto materia preziosa anche per i decenni a venire, tanto che ancor oggi risultano attuali, ma la loro interpretazione non è stata sempre univoca, anzi, ha dato luogo a ulteriori dibattiti. Lo stesso de Martino negli ultimissimi anni del decennio rinnova radicalmente il suo approccio metodologico alla ricerca etnologica (Il mondo magico, opera da tavolino, esce nel 1948), volgendola sul terreno concreto dell’esperienza etnografica che non casualmente ha inizio in Basilicata e a Tricarico, con l’obbiettivo dichiarato di scrivere un’opera di scienza che abbia la stessa forza del Cristo.
Né possiamo trascurare, lo abbiamo già ricordato, che la Lucania, dopo l’uscita del Cristo e la fine della guerra, diventa un polo attrattivo per visitatori professionali provenienti da mezzo mondo [19]; Scotellaro e Rocco Mazzarone erano diventati dei punti di riferimento inevitabili per molte di queste figure. In un turbinio di avvenimenti, comprese le Assise per la rinascita del Mezzogiorno e l’occupazione delle terre, per fare qualche esempio; numerosi personaggi si incontrano e si scontrano in uno scenario in evoluzione. Trovi un affastellarsi di esperienze, alcune delle quali estreme e sgradevoli, nella scrittura di Rocco; tra queste il carcere, ovviamente, e la brutta consapevolezza di essere un bersaglio delle mafie politiche, uno da eliminare, con i mezzi più squallidi, il montaggio proditorio di accuse palesemente false; c’è un tratto epico nella biografia di Scotellaro, ed è un merito di Levi averlo colto e sottolineato; non fosse che per questo, opporrei resistenza alla totale delevizzazione di Rocco.
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Note
[1] Rocco Scotellaro, Uno si distrae al bivio, con una prefazione di Carlo Levi, Matera, Basilicata editrice, 1974: 2-3.
[2] Ivi: 4.
[3] Si confronti l’edizione leviana di È fatto giorno (Milano, Mondadori, 1954) con quella riveduta e integrata da Franco Vitelli (Mondadori, Milano, 1982). Cfr. inoltre Rocco Scotellaro, Tutte le opere, a cura di F. Vitelli, M. Dell’Aquila, S. Martelli, Milano, Mondadori, 2019.
[4] Su questi temi ormai la letteratura è amplissima; una ricostruzione accurata è in Marco Gatto, Rocco Scotellaro e la questione meridionale. Letteratura, politica, inchiesta, Roma, Carocci, 2023; ricordo anche il n. 13, 2023 della rivista «L’ospite ingrato», con la ricca sezione di apertura dal titolo 1923-2023 Rocco Scotellaro, presente e futuro, a cura di Marco Gatto e Lorenzo Pallini; e, inoltre, tra gli interventi più recenti, Pietro Clemente, Scotellaro. Una eredità incorporata, in «Dialoghi Mediterranei», n. 62, 2023.
[5] Bari, Laterza, 1954.
[6] Alberto M. Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe. Note su Verga, Deledda, Scotellaro, Gramsci, Torino, Einaudi, 1976, p. 51. Cfr. anche Nicola De Blasi, «Infilo le parole come insetti». Poesia e racconto in Scotellaro, Venosa, Osanna, 2013.
[7] Carlo Levi, Prefazione, in Scotellaro, Uno si distrae…, op. cit.: V-XI: V.
[8] Esempi di un lavoro decisamente disciplinato di Scotellaro, per dirlo con Alberto Cirese, sono l’allestimento delle relazioni per il Piano di sviluppo della Basilicata per conto dell’Osservatorio di economia agraria di Portici e il saggio Scuole di Basilicata, apparso in due parti su «Nord e Sud», nel 1954 (n. 1: 67-95) e nel 1955 (n. 2: 73-101).
[9] Rocco Scotellaro, Uno si distrae…, op. cit.: 120.
[10] Id., L’uva puttanella – Contadini del Sud, Roma-Bari, Laterza 2002: 6.
[11] Id., Uno si distrae…: 105.
[12] Ivi: 110.
[13] Eugenio Imbriani, Sull’ironia antropologica, Bari, Progedit, 2014.
[14] Cfr. n. 4.
[15] Scotellaro, Uno si distrae…, op. cit.: 109.
[16] Giovanni Battista Bronzini, L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro con Inediti scotellariani, Bari, Dedalo, 1987:129.
[17] Ivi: 130.
[18] Ivi: 58.
[19] Cito solo, in una ricca bibliografia, Francesco Faeta, Vi sono molte strade per l’Italia. Ricercatori e fotografi americani nel Mezzogiorno degli anni Cinquanta, Soveria Mannelli, Rubbettino 2022; Ferdinando Mirizzi, a cura di, Da vicino e da lontano. Fotografi e fotografia in Lucania, Milano, Franco Angeli, 2010.
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Eugenio Imbriani, è professore associato di Antropologia culturale e Storia delle tradizioni popolari presso l’Università del Salento (Lecce). I suoi interessi sono orientati allo studio del folklore, ai temi della cultura popolare, della scrittura e dell’esperienza etnografica, ai rapporti tra memoria e oblio nella produzione dei patrimoni culturali e delle identità locali. Ha prodotto numerose pubblicazioni, monografie, saggi apparsi su riviste, in volumi collettanei, atti di convegni; è direttore della rivista “Palaver”; dirige la Sezione etnografica del Museo Civico di Giuggianello (Le). Ha conseguito l’abilitazione nazionale alla prima fascia della docenza.
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