di Cinzia Costa
È passato ormai più di un anno da quando, nel febbraio 2015, concludevo la mia etnografia sui migranti stagionali a Rosarno [1]. La scelta del campo di indagine fu legata, a suo tempo, ad un interesse generico per il tema delle migrazioni e dello sfruttamento del lavoro, unito alla curiosità e alle conoscenze, altrettanto generiche ed approssimative, che avevo acquisito su Rosarno, in seguito agli scontri tra gli stagionali di origine africana e i rosarnesi avvenuti nel gennaio 2010. In quell’occasione, infatti, il paese, che mai aveva richiamato l’attenzione della stampa se non per sporadici episodi legati alla criminalità organizzata[2], saliva agli onori della cronaca come esempio del conflitto sociale tra immigrati e autoctoni, rivelando, nella violenza degli scontri, la punta di un iceberg che poggiava le sue basi sull’impossibilità di convivenza e l’inconciliabilità tra i due gruppi, ponendo l’accento ora sull’intolleranza e sul razzismo dei rosarnesi, e ora sulla retorica dell’invasione dei clandestini.
Sebbene il nome di Rosarno abbia ormai raggiunto una certa fama nel corso degli ultimi anni, e oggi, ancora una volta, sia tornato alla ribalta dopo la tragica morte di Sekiné Traoré, giovane maliano rimasto ucciso in uno scontro con le forze dell’ordine l’8 giugno 2016, è bene, in questa sede, fare qualche passo indietro, per presentare un quadro generale del contesto, diventato ormai simbolo dello sfruttamento dei lavoratori stagionali immigrati, che non si soffermi solo sulle informazioni più sensazionalistiche e, perciò, diffuse, ma che cerchi di restituire un’immagine complessiva e, per quanto possibile, completa, del fenomeno del lavoro stagionale agricolo nella Piana di Gioia Tauro e del contesto economico e sociale all’interno del quale questo fenomeno è nato e si riproduce, ormai da decenni.
Il paese di Rosarno è sito nella parte estrema della provincia di Reggio Calabria, all’interno della Piana di Gioia Tauro [3] appartenente alla cosiddetta Calabria Ulteriore. Sebbene nelle cronache si faccia generalmente riferimento al solo paese di Rosarno, è importante sottolineare che il fenomeno del lavoro bracciantile nella stagione agrumicola [4] si estende a molti paesi della Piana, e che la tendopoli a cui si fa spesso riferimento, istituita in seguito agli scontri del 2010, ricade sul territorio del limitrofo paese di San Ferdinando. Il territorio della Piana di Gioia Tauro, e Rosarno in particolare, si sono caratterizzati come polo di accentramento di manodopera agricola a partire dai primi decenni del Novecento; l’affermazione degli agrumi sul mercato nazionale rivitalizzò l’economia della piana di Rosarno e trasformò la cittadina in un punto di raccolta delle classi meno abbienti dell’entroterra calabrese [5]. Il nome con cui veniva appellata Rosarno nei primi anni del Novecento, Americanedda, piccola America, rende particolarmente bene l’idea delle opportunità, reali o immaginate, che il territorio offriva ai lavoratori. Alcuni documenti testimoniano come le modalità di reclutamento dei lavoratori, già nei primi anni del Novecento, fossero legate ad un sistema di caporalato che vedeva i braccianti “fare la piazza” nella speranza di essere scelti dal padrone [6 ] per la giornata di lavoro.
Nel corso degli anni molti di coloro che erano arrivati a Rosarno come braccianti riuscirono ad acquistare, e a lavorare poi, piccoli appezzamenti di terreno che, ammortizzando i costi della manodopera attraverso l’impiego dei familiari e di qualche lavoratore giornaliero, riuscivano a sostentare le necessità familiari. Il settore agrumicolo «fino agli anni 60 dava redditi decorosi ai piccoli e medi proprietari che sono i soggetti sociali prevalenti sul territorio» (Lavorato, 2010: 11).Quando lo sfruttamento dei piccoli appezzamenti di terreno non fu più in grado di garantire un reddito considerato adeguato all’adempimento di un certo tenore di vita e, di conseguenza, cominciarono le prime migrazioni al Nord dei figli di molte famiglie, si iniziò a registrare una mancanza di “braccia” necessarie per il lavoro agricolo stagionale. Ai primi degli anni 80 entrarono in campo le cooperative che si occuparono di reclutare i lavoratori per le piccole aziende, ed è proprio a questo periodo che risalgono le prime migrazioni da parte di migranti provenienti inizialmente dall’Europa dell’est. Tuttavia è agli anni 90 che si datano i flussi più consistenti di manodopera immigrata, di origine anche africana [7].
L’ingresso delle cooperative nel mercato agrumicolo costituì, a dire di alcuni dei rosarnesi intervistati nel corso della ricerca, un momento di svolta nelle dinamiche economiche della Piana, in quanto è proprio in concomitanza con questo fenomeno che cominciarono a registrarsi i primi casi di truffe alla Comunità Europea, diventati, nel corso degli anni, una prassi molto diffusa tra i cittadini della Piana. La più diffusa azione fraudolenta messa in atto dai produttori è nota con il nome di “arance di carta” e si tratta di dichiarazione false sulla quantità di prodotto raccolto; esiste anche un altro tipo di frode piuttosto diffusa ancora oggi (non solo in Calabria) che viene però attuata ai danni del sistema di previdenza sociale e che consiste nel dichiarare una falsa professione. Vengono infatti registrati dei contratti di lavoro a nome di alcuni cittadini italiani, mentre a lavorare sono i migranti; dopo il minimo di attività lavorativa prevista per legge (52 giornate, nel settore agricolo) gli intestatari dei contratti potranno ricevere un’indennità di disoccupazione per i sei mesi successivi alla scadenza del contratto, ai quali dovranno sottrarre la quota relativa ai contributi che versano al datore di lavoro. I braccianti, veri lavoratori, ricevono, nel frattempo, un salario giornaliero di gran lunga inferiore al minimo sindacale [8]. Questo meccanismo di finanziamenti e sussidi a pioggia, protrattosi per molti anni e trasformatosi in un vero business, ha disincentivato la raccolta, tanto da abbassare anche la qualità del prodotto e da lacerare il settore alle sue fondamenta nel momento in cui le truffe sono venute a galla. «Negli ultimi anni i pilastri del sistema hanno ceduto. (…) Oltre alle “arance di carta”, sono sparite cooperative, associazioni di produttori, magazzini e aziende di trasformazione» (Associazione SUD, 2011: 47). Al di là del sistema di frodi e raggiri, divenuti tratto distintivo del settore agricolo locale, ciò che ha indebolito ulteriormente l’agrumicoltura nella Piana di Gioia Tauro è la posizione di svantaggio nella quale i piccoli e medi produttori si sono trovati rapportandosi alle grandi industrie della trasformazione.
A tal proposito ulteriori elementi di analisi economica torneranno utili in questa sede per comprendere in modo approfondito dove abbiano avuto origine alcune dinamiche che non hanno smesso ancora oggi di ripercuotersi sull’andamento del mercato agrumicolo della Piana. Ne La guerra delle arance, Mostaccio propone una delle analisi economiche più complete che circolino al momento sul mercato delle arance nella Piana e sulle dinamiche del mercato globale che hanno influito sul contesto locale. Secondo il sociologo economico due sono gli elementi che hanno concorso nel tempo a marginalizzare l’economia locale: l’affacciarsi sul mercato di piccoli e piccolissimi produttori privi di un buon livello tecnico di produzione (ciò che ha favorito una importante frantumazione del settore agrumicolo calabrese) e la totale dipendenza dall’esterno dell’apparato economico locale (cfr. Mostaccio, 2012: 60-1). Gli agrumi prodotti sul territorio, sono infatti, oltre alle clementine, principalmente arance da succo che, dopo la raccolta, vengono rivendute a grandi aziende, anche multinazionali, le quali acquisiscono il prodotto imponendo prezzi di acquisto molto bassi [9].
La migrazione stagionale dei lavoratori si inserisce in questo contesto economico, già di per sé precario e svantaggiato, che vede i produttori agricoli in situazioni di grande difficoltà: il prezzo corrisposto per le arance si aggira intorno ai 5-6 centesimi al kilogrammo, un margine di guadagno così basso da non permettere neanche di coprire le spese di produzione; essendo inoltre la forza lavoro l’ultimo anello della catena dello sfruttamento, essa costituisce l’unica variabile su cui è possibile tagliare i costi di produzione. La manodopera bracciantile, in particolare nel settore della raccolta degli agrumi, si caratterizza, inoltre, per bassa specializzazione e alta flessibilità, legata sia alla stagionalità della raccolta che ai cambiamenti climatici, requisiti cui i migranti frequentemente rispondono. Il meccanismo del lavoro stagionale in Italia è già da anni piuttosto noto; esistono diversi studi e reportage [10 ] che hanno descritto gli spostamenti dei migranti al seguito delle diverse stagioni di raccolta: in primavera in Piemonte, nella zona di Saluzzo, per la raccolta della frutta, d’estate in Puglia, nel foggiano, per i pomodori, poi la vendemmia e la raccolta delle olive in Sicilia e in inverno la raccolta agrumicola nella Piana di Gioia Tauro. Queste sono solo alcune delle mete dei braccianti che molti reportage annoverano tra i “nuovi schiavi”. In tutti questi posti, seppur con le dovute differenze, si registrano situazioni di pesante sfruttamento lavorativo [11], spesso con forme di ingaggio che passano attraverso la figura dei caporali – stranieri e italiani – ed insediamenti (di diversa natura) che presentano condizioni igienico-sanitarie molto al di sotto della soglia di decenza e vivibilità.
Queste sono le premesse che, unite ad un clima di tensione e ostilità di cui i migranti erano vittime [12], nel gennaio 2010 hanno portato all’esplosione di proteste, in alcuni casi violente, da parte dei lavoratori di origine africana, rese note con il nome di “rivolta di Rosarno”. Alla protesta dei migranti è seguita una controprotesta dei rosarnesi, autoctoni, che, spaventati o agguerriti, si sono lanciati alla difesa delle proprie famiglie, a volte anche con azioni molto più violente di quelle che avevano intenzione di contrastare. Al momento dell’esplosione della Rivolta gli stagionali impegnati nella raccolta si trovavano per la maggior parte alloggiati presso le fabbriche dismesse dell’area industriale di San Ferdinando, l’ex Opera Sila e l’ex fabbrica Rognetta, che non erano attrezzate di alcun tipo di servizio: né acqua corrente, né luce, né servizi igienici. A parte il sostegno di alcune associazioni locali, durante il periodo della raccolta, i braccianti vivevano nella totale indifferenza da parte della cittadinanza. Dopo la rivolta le fabbriche vennero sgomberate e alcune anche demolite e la quasi totalità dei migranti presenti sul territorio si allontanò da Rosarno, attraverso mezzi messi a disposizione dalle Forze dell’ordine o tramite mezzi propri o anche con l’aiuto di alcuni cittadini della Piana, considerato soprattutto il fatto che la tensione che si respirava in quelle ore metteva a rischio l’incolumità di chiunque avesse la pelle nera, diventato bersaglio di aggressioni da parte dei più furenti tra i rosarnesi.
L’anno successivo alla Rivolta e, in realtà, anche prima, il fenomeno del lavoro stagionale si ripresentò nella Piana come se nulla fosse successo, con gli stessi meccanismi di ingaggio e sfruttamento del lavoro; le uniche differenze furono relative alle sistemazioni alloggiative. Nel febbraio 2011, infatti, attraverso i contributi della Regione Calabria e del Comune, venne costruito un piccolo campo container, che chiaramente non fu bastevole a contenere tutti i braccianti; nel gennaio 2012, con il contributo del Ministero dell’Interno, venne allestita una prima tendopoli, contenente circa 250 posti letto, poi rastrellata e sostituita da una seconda tendopoli che ancora oggi ospita la maggior parte dei migranti durante il periodo della raccolta, arrivando fino ad “accogliere” oltre 1000 persone (avendo però, al suo interno, solo 400-450 posti). Oltre a questi insediamenti “istituzionali”, di natura provvisoria ma diventati ormai strutturali, vanno annoverate le baracche che ogni anno ciclicamente i migranti costruiscono all’interno della tendopoli con i materiali di risulta più disparati (legno, sacchi della spazzatura, teloni plastificati, etc.) e i casolari abbandonati, sparsi per le campagne utilizzati come dormitori da moltissimi braccianti. Anche in questo caso le condizioni igienico-sanitarie sono veramente difficoltose, tanto da causare spesso l’insorgenza di disturbi alla salute, fisica e psicologica, dei migranti.
Quello che ho appena descritto è lo stesso scenario che ancora oggi, nel giugno 2016, ha visto un migrante stagionale finire vittima della violenza; questa volta, però, il drammatico episodio si è concluso con la morte di Sekiné Traoré, che, a stagione finita, alloggiava ancora nella tendopoli, come molti migranti fanno in attesa di spostarsi per altri lavori. Secondo le testimonianze di alcuni migranti, l’8 giugno, all’interno della tendopoli si sarebbe generata una lite per delle sigarette che Sekiné voleva gli fossero concesse gratuitamente, senza pagarle; a causa di questa lite il ragazzo maliano si sarebbe innervosito e avrebbe iniziato a scagliarsi con un coltello su alcuni presenti. A quel punto uno dei presenti avrebbe avvisato le forze dell’ordine affinché, recatisi sul luogo, calmassero le acque. Da questo momento in poi diventa più complicato ricostruire il reale andamento dei fatti, poiché le versioni riportate dalle forze dell’ordine e dai migranti (ma anche tra i migranti stessi), sono differenti. Le uniche notizie certe sono relative al fatto che Sekiné ha cominciato a discutere con i carabinieri e ne ha ferito uno vicino l’occhio; in seguito a questa colluttazione sarebbe partito un colpo di arma da fuoco che ha colpito mortalmente il giovane. I dettagli della vicenda rimangono molto vaghi [13], seppure le forze dell’ordine parlino apertamente di legittima difesa. Al drammatico episodio è seguita una manifestazione di protesta dei migranti davanti la sede del comune di San Ferdinando.
Non mi soffermerò in questa sede sulle precise dinamiche del seppur tragico episodio, poiché, al di là delle responsabilità individuali delle persone direttamente coinvolte in questo avvenimento, che verranno comunque chiarite, ci sono delle cause e delle condizioni preliminari, che hanno portato a questo, ahinoi, prevedibile epilogo, al cui concorso nessuno può davvero sottrarsi né sentirsi estraneo. La volontà mediatica e politica di raccontare l’eccezionalità di Rosarno, in quanto luogo esemplare di dinamiche economiche e sociali sempre al limite dell’emergenza, tanto da riportarla alla ribalta dello scenario nazionale solo all’occorrenza dell’ennesima tragedia, ha due effetti principali. Il primo è appunto quello di presentare Rosarno come una eccezione, all’interno di un più ampio contesto in cui le relazione economiche e sociali tra italiani e migranti sono pacifiche, aproblematiche ed in continua evoluzione, al contrario della cittadina calabrese viziata dalla criminalità, dal razzismo e da un arcaismo insito nei luoghi e nelle persone che non permettono all’economia di progredire [14]. Il secondo effetto, strettamente collegato al primo, è quello di mostrare Rosarno come la causa dei suoi problemi. Ciò che sostengo è che è esattamente il contrario: Rosarno è l’esito periferico di problemi che hanno la loro origine nel centro dell’Italia e del potere.
Ciò che fa di Rosarno un posto eccezionale, come alcuni altri, è la prospettiva privilegiata da cui si possono osservare i problemi di tutto il Paese, e non solo. Tutt’altro che arcaica o fuori dal nostro tempo, Rosarno si presenta invece come uno spazio periferico in cui si concretizzano le dinamiche globali, dove diventano ancora più visibili che al centro; la periferia è, inoltre, ancora prima che un luogo, una prospettiva, un punto di vista da cui osservare fenomeni e dinamiche che spesso il centro occulta. La scelta di concentrarsi sull’osservazione della periferia per capire le dinamiche del centro non è di certo nuova all’antropologia, ed in questo senso è molto interessante la riflessione di Riccardo Ciavolella in merito alla sua ricerca presso l’etnia dei Fulaaƥe:
«sul piano della retorica politica, l’élite politico-economica tende a spiegare la marginalità delle masse come i Fulaaƥe attribuendo loro la responsabilità di una marginalità passata, di un’incapacità culturale e tradizionale di integrarsi nello Stato, e più generalmente nella modernità. L’importante è infondere una buona dose di fatalismo nello spiegare la povertà in cui vivono ancora le masse: essa non è causata dalla disuguaglianza socio-politica, ma dal destino o dalla colpa incorporata dei poveri stessi, che il potente si propone peraltro di lenire di tanto in tanto con qualche atto populista di carità» (Ciavolella, 2013: 254).
È nei margini, dunque, che nascono e si riproducono con maggiore visibilità le principali dinamiche di conflitto sociale, ed è proprio per questo motivo che essi sono spesso dei preziosi laboratori e cantieri di esperienze e occasioni che è necessario tenere d’occhio. Sempre Ciavolella afferma: «L’esperienza dei Fulaaƥe appariva appropriata ai miei fini di ricerca scientifica: volevo partire da una popolazione subalterna, in quelli che sembravano i margini del mondo, per comprendere in quale misura i suoi membri acquisissero coscienza della loro condizione di marginalità e per indagare nella possibilità che tale coscienza si traducesse in una mobilitazione politica» (Ciavolella, 2013: 23). Quello che ho osservato nel corso della mia ricerca sul campo a Rosarno, oltre alle enormi difficoltà del territorio, sono infatti svariate esperienze di azione e interventi operosi che hanno l’obiettivo di riqualificare il territorio da diversi punti di vista. Contrariamente all’immaginario di immobilità che spesso viene rappresentato su larga scala, esiste invece un forte dinamismo: proposte locali per problemi globali, di cui Rosarno costituisce il perno.
In questo senso sono quattro le esperienze che meritano menzione, e che presenterò a titolo esemplificativo. In primo luogo, segnalo un’iniziativa molto significativa che si è tenuta nel mese di febbraio del 2016 proprio a Rosarno, organizzata da alcune associazioni, alcune delle quali appartenenti al tessuto locale ed altre esterne: SOS Rosarno e Il frantoio delle idee, rispettivamente di Rosarno e Cinque Frondi, e MEDU e il Ponte di Archimede Produzioni. L’iniziativa, intitolata “Rosarno città aperta” [15], ha portato nella piazza centrale di Rosarno, Piazza Valarioti, alcuni musicisti proveniente da diverse esperienze geografiche e musicali, al fine di organizzare una grande festa per tutti i cittadini e i lavoratori – italiani e stranieri – del paese. Tra i musicisti, Sandro Joyeux, artista italo-francese, la cui musica ha molte contaminazioni africane, variando dal reggae all’afro-beat, e che da anni ormai organizza l’Antischiavitour, portando la sua musica in giro per i luoghi dello sfruttamento, dal Gran ghetto di Rignano, a Saluzzo, a Boreano, a Palazzo San Gervasio. L’obiettivo dell’iniziativa era appunto quello di offrire un pomeriggio di incontro tra migranti e italiani e proporre un’occasione di dialogo attraverso la musica, strumento privilegiato per la creazione di uno spazio di condivisione. Altro obiettivo di grande rilevanza è stato quello di portare i migranti in città, dentro il nucleo abitato, per rompere l’invisibilità all’interno della quale essi vivono. Tra le associazioni promotrici della manifestazioni le due più note ed attive sul territorio sono MEDU ed SOS Rosarno. La prima delle due associazioni, Medici per i Diritti Umani, pur essendo un’organizzazione allogena, opera ormai sul territorio da tre anni attraverso un progetto, Terragiusta, che si occupa di offrire assistenza sanitaria ai migranti direttamente nei luoghi dello sfruttamento lavorativo. Nel periodo della stagione di raccolta un team, composto generalmente da un medico, un mediatore culturale e dal coordinatore del progetto, si sposta con una clinica mobile tra i vari insediamenti della Piana (tendopoli di S. Ferdinando, casolari abbandonati, fabbrica occupata, etc.) per offrire assistenza sanitaria e diffondere informazioni relative ai diritti dei lavoratori. Sebbene la maggior parte del lavoro dell’organizzazione sia appunto quello di promuovere interventi che facciano da tampone alla situazione di emergenza [16], anche se in questo caso si può parlare di un’emergenza strutturale, molto del lavoro svolto dagli operatori di MEDU consiste nel compiere azioni di advocacy sul governo e sulle amministrazioni locali, sottoscrivendo appelli e pubblicando periodicamente reportage che descrivono la situazione nella Piana: l’ultimo comunicato stampa, risalente ad aprile si intitolava “Piana di Gioia Tauro/ Raccolta agrumicola: un’altra stagione all’inferno” [17]. La seconda associazione menzionata, SOS Rosarno, costituita ufficialmente da cittadini pianigiani insieme ad alcuni migranti stanziali nell’aprile del 2012, ma attiva già negli anni precedenti, si occupa di promuovere il lavoro regolare nel settore agricolo. Fondando la propria azione su basi fortemente politiche l’associazione si inserisce in una rete di militanza, il cui scopo è sostenere i braccianti agricoli immigrati che, su tutto il territorio nazionale, non solo a Rosarno, versano spesso in condizioni di grave sfruttamento lavorativo.
Un discorso a parte meritano due associazioni locali, nate dalla spontanea iniziativa di cittadini rosarnesi, e non solo, che non operano strettamente nel campo dei migranti o del contrasto allo sfruttamento lavorativo, ma che hanno un ruolo cruciale nell’impegno all’autodeterminazione di un territorio che, sebbene sia sempre in continua perdita di risorse, a causa dell’emigrazione di molti giovani, ha ancora molta voglia di farsi sentire e di agire. Tra queste associazioni Nuovamente, costituitasi nel 2009 con l’obiettivo di sviluppare progetti di valenza culturale e sociale, con i rosarnesi e per i rosarnesi, mantenendo una totale indipendenza da qualsiasi potere, sia politico che economico. Il nome dell’associazione rimanda, infatti, all’impegno rinnovato per la città e alla volontà di approcciarsi all’azione con Mente Nuova. Le iniziative proposte dagli organizzatori spaziano dal teatro popolare alla ripulitura di spazi pubblici, alla promozione di attività e giochi per i bambini del paese allo scopo di rinnovare l’interesse per il bene comune e di creare spazi di socializzazione che diano valore alle potenzialità positive del territorio. Le azione proposte vedono una grande partecipazione da parte di cittadini di diverse fasce d’età.
L’ultima delle esperienze che intendo raccontare è quella di A di Città, associazione che si occupa di Riqualificazione urbana, aggregando studenti e professionisti provenienti da tutta Italia. Costituitasi nel 2012, l’associazione nasce con l’intento di rafforzare le relazioni di comunità e di mettere a confronto esperienze e territori lontani da Rosarno. Nello stesso anno i ragazzi fondatori dell’esperienza, tra cui una giornalista e uno studente di architettura andato a studiare fuori sede, organizzano il primo festival della Rigenerazione Urbana proprio a Rosarno, richiamando giovani studenti, docenti universitari, artisti e curiosi in un luogo noto principalmente solo per una triste fama, una immagine negativa che durante i giorni della manifestazione viene spazzata via dall’entusiasmo dei partecipanti e dall’accoglienza delle famiglie che li ospitano nelle proprie case. Da questa esperienza e da altri laboratori proposti sul territorio nasce un prodotto unico nel suo genere: “Kiwi. Deliziosa guida – Rosarno ulteriore”. Kiwi è un libro di comunità che sarà a breve edito per la casa editrice Via industriae che l’associazione ha prodotto attraverso una campagna di crowd-funding lanciata in rete. Il libro nasce attraverso la costituzione di una piccola redazione locale che lavorando insieme ha prodotto sì una guida turistica, che raccoglie in sé la descrizione dei luoghi di interesse storico e culturale, ma anche una guida simbolica dei luoghi socialmente ed emotivamente importanti per chi questo paese lo vive tutti i giorni, e non solo quando ne parlano i telegiornali. Una geografia sentimentale, che racconta anche i luoghi apparentemente “anonimi” in cui invece è accaduto qualcosa che per i rosarnesi merita di essere ricordato. Anche il titolo scelto per il libro, Kiwi, manifesta la volontà di far conoscere gli aspetti più concreti e meno noti del territorio; in pochi sanno, infatti, che quella del kiwi è la nuova coltivazione a cui stanno puntando gli agricoltori locali per sopperire alla grave crisi agrumicola che opprime il territorio. Rosarno non è più solo arance, ma anche kiwi. Un ultimo aspetto di grande rilevanza riguarda il fatto che i promotori dell’iniziativa hanno pensato di ospitare all’interno del libro, non solo le voci dei cittadini, ma anche quelle di amici che hanno visitato la città e che di essa portano il ricordo, tra questi le autorevoli firme di Salvatore Settis (a cui Rosarno ha dato i natali), Franco Arminio e Antonella Agnoli, ma anche alcune firme meno prestigiose, come quella del CollectifEtc (da Strasburgo), Josephine Condemi e anche la mia.
L’eccezionalità di quest’ultima esperienza che ho voluto raccontare consiste, a mio avviso, nel ricondurre il nucleo del discorso alla necessità di creare connessioni tra persone e punti di vista, nel ricomporre un bagaglio collettivo di competenze ed idee, e nel ricordare a tutti che Rosarno non è solo dei rosarnesi, ma, con tutti i suoi problemi e le sue potenzialità, essa costituisce un patrimonio comune per gli italiani, nordici e meridionali, ma anche per gli stranieri, che, nonostante tutte le difficoltà, Rosarno continua ad accogliere ormai da decenni. È nell’immensa difficoltà di costruire un percorso significativo, tra le situazioni di grave sfruttamento lavorativo – la disoccupazione, l’emorragia di giovani, la criminalità, l’avvilimento della dignità delle persone – che i volti, bianchi e neri, arrabbiati e sorridenti, di molte delle persone che ho avuto il piacere e l’onore di incontrare durante la mia breve esperienza etnografica, e di vita, si fanno strada per affermare la propria voce.
Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
Note
[1] Tra il novembre 2014 e il febbraio 2015 ho vissuto per circa tre mesi a Rosarno per condurre una ricerca etnografica per redigere la mia tesi di laurea, poi intitolata Migranti stagionali a Rosarno. Subalternità e azione.
[2] Un episodio particolarmente noto è quello relativo all’uccisione, nel giugno del 1980, del militante, appena eletto sindaco di Rosarno, Giuseppe Valarioti, per mano della ‘ndrangheta.
[3] Quando si parla della Piana di Gioia Tauro, si fa riferimento a un comprensorio costituito da ben 33 Comuni, tra cui, quelli compresi nell’area di osservazione sono: Palmi, Polistena, Rizziconi, Rosarno, San Ferdinando e Taurianova (cfr. Mostaccio 2012:117-118)
[4] Più o meno nel periodo compreso tra novembre e marzo.
[5] Questo elemento lascia traccia ancora oggi nel nome di uno dei quartieri di Rosarno, “Baracche”, dove ho abitato anche io. Un’altra traccia dell’immigrazione interna sono i cognomi di derivazione esogena; come riferito anche da un’informatrice, «non esiste il rosarnese doc»: basta risalire ad una o due generazioni precedenti a quella attuale per scovare la discendenza da un avo originario di un altro paese, trasferitosi a Rosarno per trovare lavoro.
[6] I termini “fare la piazza” e “padrone” sono utilizzati ancora oggi dai migranti stagionali che vengono ingaggiati nella raccolta degli agrumi.
[7] I primi furono i maghrebini (ancora presenti sul territorio, ma con sistemazioni alloggiative e lavorative differenti rispetto agli altri migranti), seguiti dai subsahariani che oggi costituiscono un gruppo molto consistente di lavoratori.
[8] Che si aggira intorno ai 40 euro per un massimo di 6 ore e 40 minuti al giorno; la paga più diffusa tra i migranti si aggira invece intorno ai 25 euro al giorno per un minimo di 8 fino ad un massimo di 12 ore al giorno, oppure a cottimo: 1 euro a cassetta, per le clementine, 0,50 per le arance.
[9] Un’inchiesta prodotta dalla rivista britannica The Ecologist e resa pubblica nel marzo 2012. Nella fattispecie l’articolo del giornalista Andrew Wasley, divulgato in Italia attraverso una traduzione della rivista Internazionale, denunciava le condizioni lavorative dei braccianti immigrati della Piana di Gioia Tauro, ponendo «l’attenzione sul ruolo svolto dalle multinazionali dei succhi d’arancia e, in particolare, su quello della Coca-Cola» (Mostaccio 2012: 79). Nel suo articolo Wasley denuncia la politica economica della grande multinazionale che impone prezzi iniqui e che determina, di conseguenza, la condizione di forte disagio dei produttori e dei lavoratori (cfr. Wasley, 2 marzo 2012). Secondo Mostaccio questa inchiesta poneva l’accento su aspetti rimasti occultati fino a quel momento. Venivano infatti sottolineati per la prima volta elementi come il conferimento di paghe al di sotto del minimo sindacale, di fatto conseguenza «di una filiera produttiva distorta» e si denunciava il fatto che le grandi multinazionali avevano un ruolo decisivo nel determinare l’andamento dei prezzi nel mercato (cfr. Mostaccio, 2012: 80).
[10] Tra questi Angelo A., Vecchie baraccopoli e nuove resistenze, in “Dialoghi Mediterranei”, n.10, novembre 2014; Brovia C., Sous la féruledes caporali. Lessaisonniers de la tomate danslesPouilles, in Etudesrurales, 2008/2 – n° 182: 153 à 168, Éditions de l’EHESS; Leogrande A., Uomini e caporali. Viaggio tra gli schiavi nelle campagne del Sud, Mondadori, Milano 2008; Osservatorio Placido Rizzotto (a cura di), Agromafie e caporalato. Secondo rapporto, EDIESSE, Roma 2014; Pugliese E. (a cura di) , Immigrazione e diritti violati. I lavoratori immigrati nell’agricoltura del Mezzogiorno, EDIESSE, Roma 2013; Rovelli M., Servi. Il paese sommerso dei clandestini al lavoro, Feltrinelli, Milano 2009.
[11] Se questa osservazione è vera in primo luogo per i braccianti stranieri, che si trovano nella posizione di accettare condizioni di lavoro fortemente degradanti e usuranti, è d’obbligo, però, ricordare che a queste condizioni di grave sfruttamento, con dinamiche molto simili, sono sottoposti anche italiani; basti ricordare il caso di Paola Clemente, morta il 13 luglio 2015 ad Andria nella campagna dove lavorava come bracciante per 27 euro al giorno. In questo caso la modalità di ingaggio era avvenuta tramite la mediazione, legale, di una agenzia interinale.
[12] La Rivolta scaturì, infatti, in seguito all’ennesima aggressione – per tutti gli anni 2000 si registrarono aggressioni o incidenti con omissioni di soccorso ai danni di migranti – subìta da una coppia di ivoriani, AmokoAdjei e SadaAhebib (anche se le fonti discordano sulla precisa trascrizione dei nomi), che vennero gambizzati mentre rientravano dal lavoro nei campi. All’aggressione seguì la diffusione della falsa notizia della morte di uno dei due, che fece esplodere la rabbia della comunità di lavoratori che, partendo dalle fabbriche dismesse in cui alloggiavano, si riversarono sulla via Nazionale sradicando segnali stradali, rovesciando cassonetti della spazzatura e colpendo alcune delle autovetture incontrate lungo il percorso, fino a raggiungere il centro di Rosarno. Veri scenari di guerriglia urbana.
[13] Per maggiori informazionihttp://www.internazionale.it/notizie/annalisa-camilli/2016/06/10/rosarno-migrante-ucciso e anche http://www.huffingtonpost.it/2016/06/09/migrante-ucciso-braccianti-protestano_n_10371036.html
[14] In questo caso mi riferisco nel dettaglio alle accuse perpetrate ciclicamente nei confronti dei produttori agricoli e dei caporali che attuano delle strategie lavorative inique e illegali. Sebbene queste accuse siano fondate sulla carta, ciò che gli accusatori omettono spesso di dire è che anche i produttori sono vittime di un sistema economico vessatorio e che anche coloro che volessero attribuire le paghe previste dai contratti sindacali non riuscirebbero a pagare il dovuto a causa degli infimi prezzi di acquisto degli agrumi, imposti dalla grande distribuzione. Inoltre, l’esistenza dei caporali che attuano forme di taglieggiamento anche gravi nel confronti dei migranti, non potrà mai essere debellata fino a quando non saranno previste delle forme legali di mediazione per l’ingaggio di lavoratori stranieri che non capiscono la lingua dei produttori agricoli e dei trasporti a disposizione dei braccianti i quali non si troverebbero così costretti a pagare anche prezzi molto alti per raggiungere il luogo di lavoro.
[15] http://www.mediciperidirittiumani.org/th_event/rosarnocittaaperta/
[16] In questi campi, peraltro, MEDU non è la sola associazione ad operare: nel settore dell’assistenza sanitaria opera sul territorio anche EMERGENCY che possiede un ambulatorio fisso nel comune di Polistena, e nell’assistenza e nella tutela dei diritti dei lavoratori è impegnata anche la FLAI CGIL, che attraverso operazioni di sindacalismo di strada affianca i braccianti e diffonde informazioni utili ai migranti.
[17]http://www.mediciperidirittiumani.org/piana-di-gioia-tauro-raccolta-agrumicola-unaltra-stagione-allinferno/
Riferimenti bibliografici
Associazione SUD (a cura di), Dossier Radici/Rosarno. Monitoraggio autunno-inverno 2010/2011, rete RADICI, 2011
Ciavolella R., Antropologia politica e contemporaneità. Un’indagine critica sul potere, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni (MI), 2013
Lavorato G., “Rosarnesi aprite gli occhi: è la ‘ndrangheta che ci infanga”, in Stopndrangheta.it e associazione da Sudonlus (a cura di), Arance insanguinate. Dossier Rosarno, 2010: 11-4
Mostaccio F., La guerra delle arance, Rubbettino, Catanzaro 2012
Stopndrangheta.it e associazione da Sudonlus (a cura di), Arance insanguinate. Dossier Rosarno, 2010
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Cinzia Costa, dopo aver conseguito la laurea in Beni demoetnoantropologici all’Università degli Studi di Palermo si è specializza in Antropologia e Storia del Mondo contemporaneo presso l’Università di Modena e Reggio Emilia con una tesi sulle condizioni lavorative dei migranti stagionali a Rosarno, focalizzando l’attenzione sulla capacità di agency dei soggetti. Si occupa principalmente di fenomeni migratori e soggettività nei processi di integrazione.
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