di Letizia Bindi
Saluti obliqui
In una celebre scena de Il grande dittatore (1940), Chaplin nei panni di Adenoid Hynkel, dittatore dell’immaginario, ma riconoscibilissimo Stato della Tomania si incontra con l’altrettanto riconoscibile Bonito Napoloni, dittatore della Batteria, Stato sodale che allude ovviamente all’Italia alleata. Il saluto tra i due dà origine a una esilarante gag in cui il saluto romano viene declinato nelle sue molteplici varianti, altezze, estensioni diventando una delle prime occasioni di tensione competitiva tra i due che non arrivano ad accordarsi in merito alla gestualità convenuta e coerente.
La “slapstick comedy gag” che ne deriva fonda la comicità di Chaplin sul semplice ed efficacissimo linguaggio dei corpi facendola diventare un cruciale strumento di critica corrosiva all’assurdità dei poteri e delle guerre di ogni età in un momento – come ebbe modo di commentare al riguardo lo stesso Chaplin – in cui gli Stati Uniti si affacciavano appena sull’orrore della Guerra e non erano ancora pienamente consci dell’enormità degli orrori della Shoah.
L’immagine mi è saltata alla mente dai ricordi dell’ultima re-visione di quel capolavoro straordinario, quando mi sono trovata a leggere nelle scorse settimane il dibattito a tratti preoccupante altrove lezioso e persino ridicolo sulle intenzioni palesi e latenti dei gesti di Elon Musk alla convention di presentazione della nuova Presidenza Trump e le riflessioni seriose che se ne facevano derivare.
«Durante il discorso per la seconda inaugurazione di Donald Trump, Elon Musk ha battuto la mano destra sul petto, con le dita aperte, per poi estendere il braccio destro in avanti con decisione, ad un angolo verso l’alto, con il palmo rivolto verso il basso e le dita unite – si legge sulla biografia dell’originale imprenditore oggi molto vicino alla nuova presidenza Trump su Wikipedia – ha poi ripetuto il gesto verso la folla dietro di lui dicendo alla folla: “Il mio cuore è con voi”, prosegue la pagina biografica in questione. Immediata l’accusa a Wikipedia di fare dell’inutile propaganda proveniente dagli ambienti vicini e dallo staff di Musk e la replica del fondatore della stessa Jimmy Wales che ha asserito sulla stampa “Elon non è contento che Wikipedia non sia in vendita”».
Al di là della polemica tra giganti della comunicazione sui social network e nel Web, appare con forza da questo piccolo, grande esempio e dal gran rumore scatenatosi intorno ad esso nei giorni successivi a livello globale, il sempre maggior peso della gestualità e del linguaggio non verbale nel public speaking e nella comunicazione globale di questi nostri anni.
Il gesto di Musk è stato accompagnato tra l’altro da una mimica facciale – altro aspetto non trascurabile di quel messaggio corporeo – particolarmente intensa e in certo modo violenta. La bocca tesa in una smorfia, lo sguardo determinato, da guerriero – se si pensa anche a quel battersi il petto a mano aperta che l’ha preceduto, tra Leonida e il Gladiatore – una violenza espressiva che in parte contrasta con un suo atteggiamento più spesso irrisorio, da trickster di un potere muscolare portato con disinvoltura, quasi scherzosamente.
Il dibattito si è avvitato – come già nella celebre gag cinematografica – intorno all’inclinazione del saluto, alla ‘reale’ valenza ideologica, nostalgica del gesto, quasi che un’altezza o ampiezza diversa dell’arco del braccio potesse cambiare la natura profonda di richiamo delle folle, di incitazione all’appartenenza ideologica. A poco servono i correttivi, le contro-denunce di ideologismo: la convention di presentazione del nuovo mandato del Presidente Trump si è trasformata in uno show colorito e a tratti cupo, con proclami, editti, proscrizioni e balletti in una mescola straniante tra minaccia e farsa che in certo modo finiscono per proporre una nuova estetica politica in un tempo dominato dalla vittoria quasi globale delle destre neo-liberiste estreme e suprematiste.
La preminenza della mano destra
In un celebre testo del 1909, La preminenza della mano destra (2017) Robert Hertz – tra i primi allievi di Durkheim, precocemente scomparso durante la Prima Guerra mondiale – metteva in evidenza la diversa rilevanza simbolica e pratica della mano destra sulla sinistra per i diversi popoli e metteva in luce le complesse valenze antropologiche, sociologiche e storico-religiose di questo principio di classificazione simbolica binaria che determinano atteggiamenti e condizionamenti ancora attivi nell’immaginario sociale e religioso delle comunità native così come di quelle tardo-industriali. Dunque la ‘naturalizzazione’ della destra come parte preminente sarebbe il frutto di una educazione culturale che si incorpora così profondamente da ‘sembrare naturale’, mettendo in discussione la delicata e sempre ambivalente relazione tra natura e cultura.
In un tempo di ritorno delle destre estreme, questa preminenza simbolica della mano destra viene in certo modo risignificata anche e proprio in ragione dell’accento speciale che i gesti e la corporeità sembrano avere nella comunicazione politica di questa stagione. Il lavoro di Hertz oltre al pretesto puntuale del riferimento all’uso della mano destra come attività preminente, ha il merito di puntare l’attenzione etnoantropologica su altri due aspetti: il valore cruciale dei gesti e del corpo nella prassi politica, nella propaganda e nel simbolismo dei poteri.
Al gesto più o meno frainteso di Musk fanno eco altri gesti, altri movimenti messi in atto dal Presidente Trump, durante e oltre la campagna elettorale. Anche Trump, infatti, cura in modo particolare – come non farlo? – l’uso del corpo e della propria immagine nella gestione del consenso. La voce, la postura, lo sguardo di sfida fanno parte di questo suo uso del corpo per catturare un consenso sempre più basato su messaggi semplici, elementari, univoci. Colpisce, ad esempio, la scelta dei suoi gruppi di supporters di utilizzare come manifesto elettorale la foto segnaletica scattata in occasione del suo arresto ad Atlanta il 25 agosto del 2023 (Today, 25/10/2023; Vanity Fair, 18/1/2025) per aver tentato di contestare il risultato del voto in Georgia del 2020. L’immagine propone un profilo del tutto fuori cliché: un ritratto da vicino, anziché del consueto mezzobusto quasi a stabilire una connessione diretta maggiore con l’elettorato.
Lo sguardo che ci giunge dalla fotografia scelta è torvo, il volto è arrabbiato, l’occhio a destra di chi guarda più aperto e minaccioso, la luce irreale che lo illumina a creare un pathos quasi cinematografico. La prima volta in cui una foto presidenziale viene estrapolata da un carnet di foto segnaletiche di un carcere. Un significato potente di ribaltamento, di risignificazione che inverte il sorriso di ordinanza della foto ufficiale 2017 e preannuncia una impostazione della nuova legislatura di cui stiamo già avendo segni evidenti. Accanto all’immagine ufficiale, un’altra, ambivalente e interessante gestualità è quella che Trump ostenta in molte situazioni pubbliche quando intende incitare l’elettorato o festeggiare particolari risultati. In quelle occasioni, infatti, Trump improvvisa un balletto quasi infantile di trionfo con i pugni stretti e i gomiti piegati a portare le mani all’altezza delle spalle e muovendosi in un piccolo passo di danza atteggiando il volto in una smorfietta tra la stizza e il vezzo. Anche questo uso del corpo determina una risignificazione della comunicazione non verbale nella propaganda politica: riporta la sfida politica a un registro più prossimo alla tifoseria e allo sfottò generazionale, una apparente leggerezza e spensieratezza del corpo del capo che contrasta con la serietà del ruolo e del momento e trasforma un gesto di forza e di resistenza come il pugno chiuso in un gesto quasi adolescenziale di sfida e di autogratificazione.
Corpi suprematisti, corpi guerrieri
Una corporeità estrema occupa le diverse scene della competizione politica e dei conflitti nazionalisti. Nel gennaio 2021 un gruppo di sostenitori di Donald Trump occuparono, come sappiamo, Capitol Hill nel momento del passaggio dei poteri tra la prima presidenza Trump e l’insediamento di Biden. È negli occhi di tutti l’immagine quasi grottesca del cosiddetto ‘sciamano’, quel Jacob Chansley con il copricapo di pelliccia e le corna da bisonte, la pelliccia a ricoprire il corpo seminudo. Ne ricordiamo il grido scomposto, bestiale a riassumere la violenza per molti versi grottesca e inespressa di quel momento dimostrativo. Il gruppo di manifestanti che si insinuò con la forza a Capitol Hill era molto prossimo all’ex-Presidente e quel registro espressivo, un misto di goliardia e aggressività incontrollata, grottescamente atavistico. Quell’esibizione per molte ragioni estrema e preoccupante, racconta di un imbarbarimento della comunicazione politica in cui significati semplicistici, rudi e del tutto lontani dall’argomentazione prevalgono rispetto a ogni altra forma di confronto democratico. Il registro indecidibile del grottesco e del goliardico – come già negli esempi di Musk e Trump – sembra così costituirsi come uno strumento consapevole del linguaggio politico suprematista in cui corpo, segni, stereotipi come quelli dell’eroe vichingo quasi animalesco concorrono alla costruzione di un immaginario politico giocato sui registri della guerra, della dominazione, della prevaricazione.
Corpi soldati
Sono anni di conflitti crescenti su fronti plurimi. Uno di quelli più lunghi e intensi è stato e continua ad essere sicuramente quello del conflitto russo-ucraino. Anche su questo fronte la rappresentazione delle parti avverse si struttura in maniera molto intensa su icone forti, su corpi parlanti prima ancora che si esprimano nella parola.
Zelenski ci ha abituato in questi anni di guerra alla sua maglietta verde oliva – come ha avuto modo di osservare criticamente una commentatrice attenta come Vanessa Friedmann (New York Time, 21/03/2022) – che ha iniziato a indossare dall’inizio del conflitto facendone una vera icona della nuova essenzialità imposta dal tempo di guerra, simbolo della forza e del patriottismo del popolo ucraino, livrea di propaganda persino che si associa anche a un altrettanto marcato codice gestuale fatto di mani sul cuore e braccia alzate, di informalità e rudezza dei saluti contro il formalismo degli abiti classici di Putin e il protocollo rigido degli incontri ufficiali del governo russo. Una dialettica dei poteri in campo che si struttura attraverso segni sintetici, codici corporei e cromatici, registri di interazione pubblica.
Corpi, poteri, rappresentazioni
È ricchissima la letteratura scientifica prodotta sugli intrecci simbolici tra corpo e potere e si fa forte di apporti multidisciplinari molteplici: la filosofia politica e l’antropologia, la sociologia e la storia delle mentalità passando per autori come Carl Schmitt, Michel Foucault, Marc Bloch in primis o ancora per Arnold Gehlen e Jean Baudrillard per menzionarne solo alcuni. La prima nozione è quella del corpo politico che fornisce rappresentazioni e metafore del potere, dello Stato e della sovranità. La seconda nozione è quella di un corpo politico che subisce i condizionamenti dei biopoteri contemporanei.
Come nel celebre racconto de La colonia penale di Franz Kafka commentato da Michel Foucault, i corpi divengono tele su cui scrivere la pena che il potere ha deciso di comminare ai reclusi, nella comunicazione politica contemporanea, forse in modo meno tragico e più scanzonato, i corpi divengono pagine su cui scrivere e attraverso cui rappresentare le frizioni e i conflitti della contemporaneità.
Corpi sacralizzati – mistici e naturali – che alludono alla forza del comando, corpi del re o del sommo leader religioso come nel celebre lavoro di Ernst Kantorowicz (1989). Corpi politici dei nostri giorni stritolati nella morsa della significazione mediatica. Corpi sacralizzati e poi replicati e desacralizzati nella circolazione totalizzante dei media contemporanei rispetto ai quali si apre tutto il tema della replicabilità dell’immagine e la perdita di quell’aura su cui già ebbe modo di portare l’attenzione l’osservazione di Walter Benjamin e che oggi nell’universo complesso dei media digitali finisce per essere esposto al massimo della desacralizzazione.
Su tutto questo, sul volto corrugato di Trump, sui giochi da trickster e i gesti (poco) equivoci di Musk, sulla corporeità violenta dello sciamano di Capitol Hill, sul corpo-soldato di Zelensky così come su molte altre immagini di questo potere improntato per lo più sull’opposizione e lo scontro assai più che sulla autorevolezza e il dialogo, interviene la lettura trasversale e sottile degli studi di genere e post/de-coloniali, la sempre più frequente interlocuzione e reciprocità con le dimensioni del post-umano, del mondo animale e vegetale, del radicale e molteplice sguardo anti-specista e multispecie che sempre più spesso e intensamente sembrano invitare a un ripensamento critico radicale dei poteri e delle rappresentazioni aprendoci a uno sguardo meno inficiato da antiche gerarchie del valore, dell’essere e dell’apparire. Qualcuno ha iniziato a parlare a proposito di questa nuova piramide di potere dell’immaginario e sull’immaginario di “manosphere”: uno spazio di esercizio della politica delle rappresentazioni sempre più segnato dalla presenza e dalla complicità maschile.
Questa viratura maschile delle rappresentazioni e dei gesti del potere, muscolare e del tutto priva di ironia, sembra tra l’altro negare esplicitamente i tanti percorsi fatti dalle donne per stemperare la violenza e l’asprezza intrinseca delle metafore maschili del potere: sottomissione, domesticazione, predominio traslatamente sessuale, violenza ‘maschia’ come rassicurazione del persistere di una solidità del potere. A questo rimanda questo tempo di MAGA (Make America Great Again), di messaggi suprematisti, di conflitti neo-nazionalisti: un nesso tra “nazione e narrazione” (Bhabha 1987) che sembra ancora una volta farsi discorso al maschile, nonostante il lungo lavorio decostruttivo della critica femminista e post-femminista.
Ci invita a un esercizio ulteriore di sguardi questo nuovo machismo istituzionale, muscolare e orgoglioso in cui sono rintracciabili tratti di un nuovo messianismo maschile che sembra rivendicare una centralità virile in uno spazio pubblico logorato sul piano simbolico da un decennio di #metoo e di cancel culture, una nuova “energia mascolina” – come l’ha di recente definita Marc Zuckerberg – capace di sovvertire le vecchie regole, quasi che un cambiamento in chiave decisionista della politica possa passare solo per una rinnovata preminenza della componente maschile, dominante. Della mano destra, per l’appunto. Ovvero della destra tout court.
Dialoghi Mediterranei, n.72, marzo 2025
Riferimenti bibliografici e sitografici
Bhabha H., 1990, Nation and Narration, New York, Routledge.
Bombino S., “La foto ufficiale di Trump è uguale a quella del suo arresto, ecco perché”, Vanity Fair, 18.01.2025,https://www.vanityfair.it/article/foto-ufficiale-trump-perche-uguale-arresto-segnaletica-messaggio
Friedman V., “The Man in the Olive Green Tee”, The New York Times, 21.03.2025, https://www.nytimes.com/2022/03/21/style/volodymyr-zelensky-t-shirt.html
Hertz R., 2017 [1909], La preminenza della mano destra. Studio sulla polarità religiosa, Milano, Mimesis.
Jablonka I., “Trump’s agenda is driving a masculinist counter-revolution”, Le Monde, 16.02.2025, https://www.lemonde.fr/en/opinion/article/2025/02/16/ivan-jablonka-historian-trump-s-agenda-is-driving-a-masculinist-counter-revolution_6738220_23.html
Kantorwicz E., 1989, I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino, Einaudi.
Redazione, “Perché la foto segnaletica di Donald Trump è già nella storia”, Today, 23.10.2023,https://www.today.it/mondo/trump-foto-segnaletica.html
Redazione, “Saluto romano, scontro Musk-Wikipedia: «Diffonde propaganda». «Non siamo in vendita”, Il Sole 24 ore, 23.01.2025, https://www.ilsole24ore.com/art/saluto-romano-scontro-musk-wikipedia-diffonde-propaganda-non-siamo-vendita-AGciseUC
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Letizia Bindi, docente di discipline demoetnoantropologiche e direttore del Centro di ricerca ‘BIOCULT’ presso lo stesso Ateneo molisano. Presidente dell’Associazione “DiCultHer – FARO Molise” per la piena attuazione della Convenzione di Faro nel territorio regionale molisano. Si occupa di storia delle discipline demoetnoantropologiche, di rapporto tra culture locali e immagini della Nazione nella storia italiana recente e sulla relazione più recente tra rappresentazione del patrimonio bio-culturale e le forme di espressione digitale. Su un fronte più strettamente etnografico ha studiato negli scorsi anni i percorsi di integrazione dei migranti, alcuni sistemi festivi e cerimoniali, la relazione uomo-animale nelle pratiche culturali delle comunità rurali e pastorali, la transumanza dinanzi alle sfide della tarda modernità e della patrimonializzazione UNESCO. Visiting Professor in varie Università europee, coordina alcuni progetti internazionali sui temi dello sviluppo territoriale sostenibile e i patrimoni bio-culturali (EARTH – Erasmus + CBHE Project con Università Europee e LatinoAmericane) e il Progetto ‘TraPP (Trashumancia y Pastoralismo como elementos del Patrimonio Bio-Cultural) in collaborazione con le Università della Patagonia argentina.
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