di Luigi Lombardo, Nino Privitera
S. Lucia a Siracusa si festeggia oltre che il tredici dicembre, anche nella prima domenica di maggio. Di questa festa ci parla il Pitrè che la definisce «Graziosa a vedersi la festa delle quaglie che si fa in Siracusa in calen di maggio».
Tale festa è legata, secondo la tradizione, a un miracolo avvenuto in un anno di carestia (il 1646).
Come già la dea Cerere, S. Lucia avrebbe fatto arrivare dal mare navi cariche di frumento onde sfamare il popolo; ma secondo un’altra leggenda la santa avrebbe fatto cadere sul popolo affamato e riunito nella “Platea magna” centinaia di quaglie, immediatamente «afferrate dal popolo plaudente».
Per ricordare questo evento, da quel momento si istituì la cosiddetta festa del patronato, che intendeva ricordare l’evento miracoloso col lancio sulla folla di centinaia di quaglie e colombi.
Certamente questo rituale è antico: anche nella greca Ortigia (il cui significato è “isola delle quaglie”) nelle feste di Artemide in primavera venivano liberati quaglie e colombi, che si consumavano in sacri banchetti in onore della dea.
La festa di maggio è organizzata dalla Deputazione della cappella di S. Lucia, i cui membri si distinguono per il caratteristico cappellino di velluto verde (il verde è il colore caro alla santa e alla città). Oggi tutte le categorie sociali possono portare a spalla il fercolo in processione, ma in passato questo privilegio era esclusivo dei mastri “lignarii”, cioè dei falegnami e mastri d’ascia.
Al grido rituale e di incitamento: «Sarausani, viva santa Lucia», cui faceva seguito quello più antico e classico «Sarausana iè», cioè è siracusana, il fercolo è portato a spalla fuori dalla cattedrale.
Nella splendida luce di maggio, la statua argentea, opera di un orafo palermitano, Pietro Rizzo, risplende e luccica, assumendo delle misteriose dorature.
La statua raffigura S. Lucia nella consueta iconografia: ha in mano la palma del martirio e tutt’intorno è circondata, come novella Demetra, da spighe di grano in argento.
In testa procede il clero col vescovo, segue il campaniddaru o maestro di cerimonia, che impone il ritmo alla processione e le frequenti fermate; dietro al fercolo le autorità col gonfalone verde della città.
Giunto il fercolo nei pressi della chiesa di S. Lucia alla Badia, sempre sulla piazza Duomo, vengono liberati a centinaia piccioni viaggiatori a cura della società colombofila siracusana “Dionisio”. Ma in passato i piccioni, e soprattutto le quaglie, venivano scagliati sulla folla dalle grate della Badia dalle monache, assieme a petali di rosa.
Questa pratica causava vere risse tra i fedeli per appropriarsi di ogni volatile che non riusciva a riprendere il volo. Le autorità a più riprese erano intervenute per proibire la “barbara” usanza, come nel 1854 con una deliberazione decurionale «Contro la costumanza di gettarsi delle colombe nella festa di maggio di Santa Lucia, estratto della delibera decurionale di SR per levarsi l’uso e limitarlo solo al lancio di una colomba per evitarsi lo strapazzamento e lo smembramento di essi uccelli, che si fa dal popolo» (Siracusa 04 Aprile 1854, Archivio di Stato di Siracusa, Intendenza della Valle di Siracusa poi di Noto).
Con le sue fotografie Nino Privitera ci consegna una festa ancora genuina, fatta di gesti e “movimenti” standardizzati, che risalgono indietro nei secoli, volti, braccia, mani di lavoratori e artigiani segnati dal lavoro manuale, con gli ultimi “madonnari popolari”, artisti di strada nel vero senso della parola.
Niente telefonini, niente fotografi assetati di curiosità e stranezze, niente televisioni ossessionate da sponsor e amministrazioni comunali in cerca di notorietà attraverso la festa, ma solo il sentimento del tempo che quasi si ferma, che si fa mito, racconto che rivive nella memoria di tutti.
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate di recente ha pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa (2019); Taula Matri. La cucina nelle terre di Verga (2020); Processo a Cassandra (2021).
Nino Privitera, fotografo professionista dal 1965. Sin dall’inizio pone al centro del suo lavoro l’uomo nei suoi molteplici aspetti (lavoro, famiglia, paesaggio). Nei primi anni ’60 si occupa della nascente classe operaia della zona industriale siracusana. Dal 1971 collabora con Antonino Uccello. Sue foto documentano quasi tutti i lavori dell’antropologo. Tra le sue opere ricordiamo Santi Patroni di Sicilia (con note alle feste di L. Lombardo), e Tradizione e devozione (testi di L. Lombardo e A. Cucuzza). Nel 2000 si reca negli Stati Uniti su invito della Wesleyan University del Connecticut, dove incontra la comunità di emigrati melillesi di Middletown e allestisce una mostra sulle feste patronali di Sicilia. Nel 2001 collabora col giornalista Ron Jenkins del New York Times per un servizio sui Pupi di Mimmo Cuticchio. Ha lo studio fotografico a Melilli, dove vive.
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