Quando qualcuno mi chiede cosa sia l’antropologia e cosa faccia esattamente un antropologo, mi trovo spesso – devo ammetterlo – in imbarazzo. Come sintetizzare, infatti, i tratti di un sapere potenzialmente applicabile ai campi più disparati e così riottoso a essere ingabbiato in un’ontologia definita e definitiva? A volte, allora, cerco di uscire dall’impasse ribaltando la questione (cosa pensi sia l’antropologia? – domando) per giungere a una definizione negoziata e dialogica che combini le pre-comprensioni di un profano con l’esperienza di un cultore della materia. Altre volte, invece, parto in quarta sciorinando una pigra definizione operazionale: l’antropologia è lo «studio dell’uomo» e l’antropologo indaga – facendo ricerca sul campo, parlando con la gente, leggendo, analizzando racconti, canti, miti (raccolti da lui stesso o da altri) – i prodotti materiali e intellettuali dell’uomo come membro di una società. Subito dopo, in questi casi, rallento inserendo una prudente precisazione, memore delle parole di Antonino Buttitta al mio primo anno di Università: «affermare che l’antropologia culturale studi l’uomo è una tautologia bella e buona; tutte le scienze, in fondo, studiano l’uomo».
In ogni caso, senza neanche pensarci troppo, tendo sempre a enfatizzare un lato del fare antropologia – l’etnografia, il rapporto diretto con la gente, le ore spese in biblioteca a fare indagine d’archivio – e a trascurarne inevitabilmente un altro – la resa testuale dei risultati della ricerca. Mi concentro, cioè, sui momenti dell’esperienza e dell’interpretazione relegando in secondo piano il loro precipitato, la scrittura: il dark side dell’antropologia, il fantasma – evocato negli anni settanta – che aleggia sulla disciplina minacciandone, secondo alcuni, lo statuto scientifico. Sì, perché da una parte è innegabile che buona parte del lavoro antropologico sia spesa in viaggi, dialoghi e relazioni con altri esseri umani, letture. Tuttavia, dall’altra, l’appartenenza a una comunità scientifica impone che i risultati e le conclusioni delle analisi effettuate siano trasmessi a terze persone (principalmente i colleghi e, in secondo luogo, i curiosi).
Perché, insomma, un’esperienza possa dirsi autenticamente antropologica, quale che sia l’idea di antropologia difesa da ciascuno, essa deve essere tradotta nel linguaggio disciplinare e questo movimento, che rimanda all’etimologia del verbo tradurre (dal latino traducêre «trasportare», «trasferire»), sfocia inevitabilmente nella scrittura. D’altra parte che la testualizzazione abbia un notevole peso in antropologia è testimoniato da un altro elemento: se l’antropologia è un discorso sull’uomo, la pratica che solitamente, pur con tutti i distinguo del caso, l’accompagna – l’etnografia – rimanda direttamente e senza mezzi termini all’atto di inscrivere qualcosa. Termine polisemico, etnografia designa, infatti, tanto il momento della ricerca sul campo – quello che, con Leonardo Piasere (2002), può essere definito in modo molto suggestivo «curvatura dell’esperienza», in altre parole la frattura esperienziale tra la quotidianità dell’antropologo in borghese e il suo lavoro vero e proprio – quanto il prodotto di tale «curvatura»: la monografia. In ogni caso, quello etnografico è un certosino lavoro di trascrizione e rielaborazione: prima nelle confuse note di terreno e poi nell’opera finale.
Il legame tra il discorso antropologico e la scrittura è stato messo in luce da più parti. Nell’immissione dei dati raccolti in un testo pubblico, infatti, acuti analisti hanno rintracciato alcuni tra i più spinosi nodi disciplinari. Michel de Certeau e Clifford Geertz, ad esempio, hanno chiaramente mostrato come il passaggio dal terreno al testo sia un cammino carico di tensione e insidioso. Entrambi si sono soffermati sulla resa testuale dell’incontro etnografico scegliendo, nelle loro riflessioni, di scalare la montagna da versanti differenti: per il gesuita francese la scrittura è il medium grazie al quale l’etnologia si è fatta scienza; per lo studioso americano, invece, la scrittura è il luogo in cui rintracciare sottaciute parentele di una «scienza interpretativa in cerca di significati» più che di leggi.
Secondo de Certeau le radici dell’etnologia europea vanno senza dubbio rintracciate nell’uso della scrittura, intesa come tecnologia in grado di svelare e «portare alla luce» gli universi nativi. Alle origini dell’antropologia, quando a incontrarsi furono scienziati-scrittori e indigeni illetterati (e il progetto etnologico occidentale cominciava a maturare un approccio comparativo), fu proprio tale differenza a marcare i confini della nuova scienza. Come rilevano Silvana Borutti e Ugo Fabietti introducendo al lettore italiano l’opera dello studioso francese, il progetto teorico di de Certeau (interessato, non a caso, ai due principali discorsi sull’alterità prodotti in Occidente: la storiografia come descrizione dell’altro lontano nel tempo e l’etnologia come descrizione dell’altro lontano nello spazio) consiste proprio nel cercare di «scoprire cosa fa un sapere che, al fine di comprendere, trasforma ciò che è vissuto dall’altro in scrittura» (corsivo degli autori). In altre parole, cercare di rispondere a una precisa domanda: «Che cosa fa il sapere occidentale quando scrive l’altro?» (Borutti, Fabietti 2005: IX).
I celebri saggi dedicati alle pionieristiche figure del prete riformato Jean de Léry (1975) e del gesuita Joseph Francois Lafitau (1985) sono animati dal grande interesse di de Certeau per l’epistemologia (e l’ontologia, la politica, l’etica) della scienza europea. Nel Voyage au Brésil di Léry (1578), De Certeau segue i primi passi dell’antropologia, l’opera in cui è possibile assistere alla «scena primaria nella costruzione del discorso etnologico» (de Certeau 2005: 32). Lo status scientifico del proto-etnografo Léry, cioè, riposa nella facoltà di produrre, preservare, coltivare «verità non periture» fissando per sempre, tramite l’operazione scritturale, «un brusio di parole svanite non appena enunciate» (ivi: 32-33). La relazione scientifica con l’altro (leggi: il passaggio dall’esotico all’etnologico), dunque, non può darsi che a partire da una perdita irreparabile (con tutto il carico di implicazioni etico-politiche sulla presa di parola e sul potere di scrivere che ne derivano). È proprio all’inizio di questo saggio, d’altra parte, che de Certeau riflette sullo sguardo oggettivante di quel sapere chiamato etnologia. Quattro nozioni, scrive, sembrano organizzare il suo spazio racchiudendolo in un «quadrilatero etnologico» messo in moto, di volta in volta, dal ricorso alla scrittura.
Riassumendo: sul campo l’etnografo trova (meglio: crede di trovare) un mondo dominato dall’oralità, avulso dalla storia, radicalmente altro e privo di auto-riflessività; grazie all’inscrizione della vita indigena, però, la parola altrui è fissata in un testo scritto, i nativi entrano a pieno titolo nella storia, l’alterità viene trasformata in differenza e ciò che è inconscio esce finalmente allo scoperto (ivi: 29). Analogamente, in Moeurs des sauvages amériquains comparées aux moeurs des premier temps (1724) di padre Lafitau, de Certeau ravvisa la piena istituzionalizzazione dell’approccio etnologico avviato da Léry: grazie alla registrazione della vita nativa nel documento scritto e alla pratica della comparazione trans-culturale che questo rende possibile, si legittima – e da qui diverrà la norma – un doppio movimento che da una parte rende l’esotico un oggetto conoscibile e dall’altra lo inserisce da soggetto protagonista (seppur inconsapevole) nella storia mondiale (de Certeau 2005: 1-28).
Con Clifford Geertz, il rapporto tra antropologia e scrittura si fa, per così dire, più ambiguo. Buona parte della riflessione dell’antropologo americano, infatti, è attraversata dall’analisi testuale dell’archivio etnografico occidentale e da una domanda che riecheggia sottotraccia: quali sono le mosse retoriche impiegate dagli antropologi qui per rappresentare l’alterità concretamente esperita là? Una riflessione che, evidenziando la difficoltà dell’inserimento dell’io antropologico nel testo (difficoltà pari, se non maggiore, a quella sperimentata sul campo per essere accettati dalla comunità studiata), sembra suggerire la natura prevalentemente letteraria di molti nodi epistemologici della disciplina. Ecco allora fare capolino la letteratura, con tutti gli imbarazzi del caso.
Negli anni settanta del XX secolo, in effetti, Geertz scosse il mondo accademico con una celeberrima provocazione: «l’etnografo scrive», sostenne in Verso una teoria interpretativa della cultura (Geertz 1988: 29). Criticando la classica rappresentazione del lavoro antropologico – la concezione «veni, vidi, vici» secondo la quale una ricerca etnografica si possa identificare in toto con l’esperienza di campo fatta di osservazione, registrazione e analisi (ibidem) – portò l’attenzione sul circolo ermeneutico che lega il lavoro sul terreno all’inscrizione dei discorsi sociali (ibidem). Tale linea d’indagine fu spinta più in profondità nel volume Works and Lives (1988) discutendo lo stile letterario di quattro grandi «fondatori di discorsività» in antropologia: Lévi-Strauss, Malinowski, Evans-Pritchard e Benedict. Qui, oltre a rimarcare l’importanza della restituzione testuale dell’attività sul terreno (intesa come momento fondante e non residuale del lavoro antropologico), Geertz poneva l’accento sul carattere «paradossale» del discorso antropologico. Questo sapere, infatti, fonda la propria oggettività su resoconti – le etnografie – del tutto soggettivi, basati cioè su un coinvolgimento totale del ricercatore nel processo di ricerca e segnati da una relazione strettissima col proprio oggetto (Geertz 1990: 17).
L’incapacità degli antropologi, nonostante gli sforzi, di produrre una metodologia granitica in grado di guidare la loro attività etnografica è stata allora bilanciata, sostiene Geertz, da opportune scelte retoriche. L’etnografo, una volta tornato a casa, si ritrova alle prese con la necessità di convincere il lettore che non solo è stato veramente là ma che ciò che ha portato qui è la pura verità. Ed è proprio qui, al culmine di questo processo, che entra prepotentemente in gioco il ruolo della scrittura e, soprattutto, che la monografia etnografica può essere analizzata come, né più né meno, un’opera letteraria. Fiction e non-fiction s’intrecciano perché l’esperienza non si trascrive da sola e lo studioso, davanti al foglio bianco, non può non fare nuovamente i conti con la propria soggettività: essere riuscito ad abitare temporaneamente l’universo nativo, cioè, non garantisce che l’io antropologico possa pacificamente far capolino nel testo finale. Perché ciò avvenga, l’antropologo deve dimostrare doti da scrittore e inserire i dati raccolti in un prodotto coerente e convincente che ha non pochi legami con la narrativa (ibidem).
La storia dell’antropologia, sostiene allora Geertz ricorrendo a Michel Foucault e Roland Barthes, è segnata dallo sforzo frustrato di avvicinarsi alle scienze dure nascondendo la sua vergognosa parentela con la letteratura. Secondo le sue fulminanti parole (Geertz era davvero uno scrittore brillante), gli antropologi si sono sempre comportati come il mulo del folklore nord-africano che parla costantemente del fratello di sua madre – il cavallo/la scienza – e mai di suo padre – l’asino/la letteratura (ivi: 16). Sempre Geertz, del resto, definì (e dopo di lui quest’uso divenne una costante) le etnografie come «finzioni» (dal latino fictio, «finzione»/costruzione») paragonabili, in un certo senso, alla Madame Bovary di Gustav Flaubert (Geertz 1988: 24). L’etnografia è per lui una finzione/costruzione perché non fotografa perfettamente una realtà culturale indipendente dall’atto della rappresentazione. È una finzione/costruzione perché si origina dal reciproco e intersoggettivo coinvolgimento ermeneutico tra oggetto (che poi, nelle scienze umane, è sempre un soggetto) e soggetto intenzionalmente conoscente (l’antropologo). È una finzione/costruzione perché è animata dalla costante dialettica tra essere là e ritornare qui.
Le suggestioni scaturite dalle argomentazioni di De Certeau e Geertz hanno ispirato una profonda revisione della storia e dello statuto scientifico dell’antropologia. Gli studi sempre più mirati sulle mosse retorico-letterarie della scrittura etnografica, lavorando sulla duplice temporalità in cui s’inserisce il lavoro antropologico, hanno affrontato le implicazioni epistemologiche, etiche e politiche della rappresentazione dell’altro. Il dibattito originatosi dopo la pubblicazione di Writing Cultures (1986) di Clifford e Marcus, in particolare, ha svelato il carattere performativo della scrittura antropologica e il nesso tra poetiche e politiche dell’etnografia (compresa quella di Geertz…). Ha, inoltre, spinto le nuove generazioni di antropologi a codificare stili di scrittura alternativi – di volta in volta definiti dialogici o polifonici – in grado di staccarsi dalle sicurezze fondazionaliste della monografia classica e di meglio fissare su carta la processualità della ricerca e la relazione ricercatore/informatore. Ciò, accanto ad acritici entusiasmi, ha inevitabilmente generato la paura che, avvitandosi nella critica meta-antropologica dei testi etnografici, la disciplina si allontanasse dal suo nucleo scientifico (comprensione degli altri) dando ragione a quegli scettici che ne hanno sempre denunciato la fragilità. Tale reazione, quando non si è tradotta in una resistenza neo-scientista di retroguardia, ha prodotto degli approcci che, per quanto interessanti e acuti nel cogliere le criticità dell’antropologia post-modernista, hanno reagito appiattendosi troppo sul lato dell’esperienza ed espungendo dall’analisi il versante della rappresentazione.
In un volume che analizza il discorso sul metodo prodotto dall’antropologia nel corso della sua storia, Roberto Malighetti e Angela Molinari (2016) hanno esaminato, tra le altre, le posizioni di alcuni indirizzi deliberatamente disinteressati al problema scritturale. L’antropologia cognitiva, le antropologie del corpo e l’ecologia culturale di Tim Ingold ad esempio – pur nelle stimolanti argomentazioni avanzate per guidare il ricercatore sul terreno (concetto di risonanza, apprendistato etnografico, compartecipazione, incorporazione, pratica dell’abitare) e nella reazione a un’agenda disciplinare sempre più dettata dall’accademia americana e fondata su un logocentrismo dal sapore vagamente etnocentrico – finiscono con l’eliminare la restituzione delle esperienze dal novero dei quesiti antropologici. Lasciano intendere, cioè, che il compito e le difficoltà del ricercatore si esauriscano una volta giunti al pieno inserimento, sul campo, tra i nativi e che la monografia finale, in tale quadro, verrà da sé in modo relativamente a-problematico. Omettono che il fine dell’impresa antropologica è «ricostruire un mondo di significati trasmissibili ed enunciabili pubblicamente» (Malighetti, Molinari 2016: 245). Dimenticano, cioè, che l’antropologia resta un sapere discorsivo in cui gli studiosi parlano con i propri interlocutori per raccontare qualcosa ad altre persone [1]. Se è vero che sul terreno non tutti i dati sono colti attraverso parole e dialoghi, bensì attraverso il corpo e l’educazione all’attenzione, il punto resta sempre come dirli, come comunicarli (ivi: 246).
La carne sul fuoco è allora veramente tanta. Si era partiti, con De Certeau, dalla scrittura come medium indispensabile per fare dell’etnologia una scienza e si è finiti, con Geertz, con l’avvicinarsi pericolosamente alla letteratura. Forse, però, è il caso di rivedere approcci troppo rigidi alla questione. Le due riflessioni, infatti, sono più intrecciate di quanto si possa credere in prima battuta e colgono, da prospettive differenti, la complessità della scrittura: tecnica di registrazione (φάρμακον della memoria alla maniera di Platone) ontologicamente fondata su un certo grado di distorsione.
Qualche anno fa, in un testo molto denso e carico di suggestioni, Alberto Maria Sobrero ha tentato di far dialogare antropologia culturale e scienze della mente per affrontare in modo più profondo la relazione tra campo e scrittura in etnologia. Il problema, scrive lo studioso italiano, non sta tanto (non solo) nel che cosa narriamo e nel come lo narriamo bensì, seguendo il neuro-scienziato Antonio Damasio, nel riconoscere il fatto che narriamo: «le scienze della mente […] ci dicono che non potremmo fare altro che narrare e, anzi, che il narrare storie precede e condiziona il nostro conoscere ed è il dispositivo fondamentale non solo della nostra crescita individuale ma di tutta l’evoluzione» (Sobrero 2009: 16). La dicotomia che vede l’atto di “raccontare storie” (letteratura) opposto alla ricerca del “vero” (scienza) si rivela, allora, fuorviante e il modello andrebbe rivisto:
«Alla radice troviamo l’attitudine al NARRARE (magari scritto con tutti i caratteri maiuscoli) e poi, nel cespuglio che ne origina, i diversi generi della narrazione: la narrazione mitica, religiosa, scientifica, sentimentale, estetica, letteraria, quotidiana, festiva e in primo luogo la narrazione, più o meno silenziosa, fra sé e sé; ognuna intrecciata alle altre, eppure ognuna con i suoi caratteri specifici, ognun in grado di narrare un aspetto del nostro mondo. Ognuna (e ogni disciplina nel suo particolare) obbligata a fare i conti con letteratura, come dispositivo generale della vita e della conoscenza» (ibidem).
Questo ovviamente non significa che tra i diversi generi non vi siano confini e che, se tutto è narrazione, un resoconto antropologico possa anche fondarsi su pure invenzioni: c’è, per quanto non facile da definire, un quid che rende immediatamente riconoscibile una monografia etnografica rispetto a un reportage giornalistico o a un romanzo (Dei 2000). Vuol dire, piuttosto, che le strategie discorsive (scientifiche e retoriche; scientifiche perché retoriche?) attraverso le quali l’antropologia seziona il continuum dell’esperienza umana mettendo in forma il proprio oggetto vanno lette, con le loro peculiarità, all’interno della più generale tendenza umana a narrare e, al fine di evidenziare sezioni e livelli del reale di volta in volta differenti, di servirsi di stili diversi (a volte di ibridare questi stessi stili) per farlo. Riconoscere il peso della scrittura e la parentela con la letteratura, allora, dovrebbe spingere gli antropologi a lavorare sulla carica immaginativa delle proprie rappresentazioni cercando, mantenendo la specificità del proprio linguaggio, di attingere criticamente alla vitalità delle descrizioni tipica della grande narrativa [2].
Il fatto che, come scrive ancora Sobrero (2009: 35), «i romanzi stanno lì sfidarci» non è, allora, la desolata ammissione della nostra esclusione dal consesso degli scienziati ma il riconoscimento del particolare contributo dato dalla nostra disciplina al discorso dell’uomo sull’uomo. Steven Feld ha usato delle parole molto efficaci per descrivere la ricerca di campo: «un’etnografia è il resoconto di un’esperienza unica. […] qualcosa che è, al tempo stesso, empiricamente brutale e interpretativamente sottile» (Feld 2009: 21). Ecco perché, a mio avviso, l’attenzione alla retorica e alla poetica è più viva e sentita in antropologia che in altre scienze sociali: l’esperienza etnografica (dove, quando, in che modo, con chi) e la riflessione antropologica sull’attività umana, infatti, chiedono adesione completa al ricercatore e lo mettono nella scomoda posizione di dover tradurre efficacemente in parole scritte il fluire inarrestabile della vita degli altri. L’antropologo non detiene certo l’esclusiva del racconto e certamente non è l’unico a scrivere di ciò che esperisce; tuttavia è forse il solo scienziato che nello studiare il suo oggetto, di solito, non predispone setting distanzianti e che decide, piuttosto, di immergersi completamente nella quotidianità dei suoi interlocutori avendo nient’altro che la sua persona, le sue teorie e le sue parole per orientarsi, riportare qualcosa indietro e comunicarlo.
Scrivere è un atto dalle grandi valenze simboliche: uno dei momenti fondanti l’identità dell’antropologo. Trascrivere qualcosa (un fatto, un’azione, un comportamento, un detto, una storia di vita, un racconto) è una mise en intrigue mai neutra, mai banale, semmai sfuggente. Un atto che, inevitabilmente, decontestualizza ciò che annota trasformandolo «da avvenimento fugace, che esiste solo nell’attimo in cui si verifica, in un resoconto che […] si può consultare» (Geertz 1988: 28). È nel paradosso di perdere alcune cose per acquistarne altre che, come già sostenuto da de Certeau, riposa il suo potere. Si acquisisce e si fissa qualcosa su carta (il detto del parlare) proprio perché si smarrisce qualcosa (l’evento del parlare). Anche Paul Ricoeur, con Aristotele, l’aveva capito bene: la scrittura è ποίησις e restituisce una realtà che ha un certo grado d’indipendenza dall’esperienza che intende registrare. Attraverso l’azione di «configurazione» il racconto integra i dati dell’esperienza in modo tale che l’inevitabile dispersione episodica sia inserita in un quadro coerente e necessario (Ricoeur 1986: 233).
Ecco perché (in)scrivere è un’azione forte che investe l’autore di enormi responsabilità (le quali non possono essere scaricate mimeticamente solo sulla realtà a lui esterna). Responsabilità che, in antropologia, hanno inevitabili implicazioni epistemologiche (costruzione dell’alterità), politiche ed etiche (uso della diversità). Ciò che è testualizzato, infatti, fa parlare qualcuno attraverso la penna di qualcun altro, a volte anche altrimenti da come il parlante avrebbe fatto (de Certeau 2005: 30), e non può che essere l’esito delle scelte operate dalla figura che, nel caso specifico, ha il potere di scrivere. In questo senso, non ci sono testi antropologici trasparenti: sia le classiche monografie assertive alla Meyer Fortes sia i più arditi esperimenti di scrittura alla Crapanzano e Dwyer sono saturi d’autore, percorsi come sono dall’io etnografico e dall’io autobiografico [3]. Specularmente, è impossibile seguire certa antropologia post-moderna nell’elevazione degli informatori al rango di co-autori: a mettere la firma, infatti, è sempre l’antropologo. In ogni caso, l’atto di scrivere sta, al pari di altri momenti, al centro della scena antropologica, non come gesto autonomo ma come passaggio ineludibile per la creazione di un archivio e la trasmissione del sapere. Se non si può enfatizzare a dismisura il ruolo del testo scritto finendo col sostenere che l’etnologia sia la sua scrittura non si può, allo stesso tempo, negare che la rappresentazione testuale, dicendo e contemporaneamente tacendo, ne rappresenti l’inevitabile precipitato. Un problema in più di cui tener conto quando si dice l’altro, dunque, più che un dato da assumere acriticamente.
Le griglie interpretative approntate dai vari indirizzi disciplinari aiutano i ricercatori a inscrivere i fatti sociali (e, a monte, anche a vederli e ordinarli…) secondo determinate norme accettate, in un dato momento storico, dalla comunità di riferimento. Tuttavia non è raro che gli studiosi manifestino disagio e frustrazione e che desiderino scrivere diversamente cercando di fuggire le restrizioni di un rigido linguaggio oggettivante e di parlare più al singolare che al plurale. A volte, quando si descrive una determinata realtà, le parole non si trovano. A volte sembrano non bastare. A volte si preferisce non scrivere. O scrivere altrimenti. O scrivere nascondendo. O non scrivere affatto. Che cosa dire, allora, dei silenzi etnografici? Degli avvenimenti non detti/non scritti nelle monografie? E delle monografie mai scritte? Che cosa dire delle esperienze che non si traducono in racconto? Bisognerebbe forse scrivere un’antropologia delle etnografie non scritte per valutare da altra angolazione quanto la scrittura determini il discorso antropologico?
Questo gli antropologi l’hanno capito da tempo, anche se non sempre ne hanno scritto. Lévi-Strauss consegnerà l’inquietudine del suo percorso etnologico e della sua architettura strutturalista a un capolavoro ibrido, Tristi Tropici. Frustrato in quello che aveva inteso come un movimento nello spazio per tornare indietro nel tempo, l’etnologo francese sperimenterà la paradossale impossibilità di conoscere veramente il proprio oggetto: vuoi perché troppo corrotto per poterlo ancora osservare, vuoi perché troppo altro per arrivare a capirlo realmente. Alla fine del viaggio, poco prima di tornare in Europa, smetterà i panni analitici e riciclerà i taccuini per buttar giù la sceneggiatura di un’opera letteraria, L’apoteosi di Augusto, ambientata nella Roma imperiale e dominata da una drammatica relazione tra natura e cultura (Lévi-Strauss 1960: 321-337).
Malinowski annoterà nel suo diario (1967) le enormi difficoltà del soggiorno trobriandese: dalle velleità letterarie all’influenza dei romanzi nella sua formazione intellettuale; dalla voglia di abbandonare quei luoghi selvaggi e, citando il Kurtz di Joseph Conrad, «uccidere tutti i bruti» al dovere e all’ambizione di essere un buono scienziato. Negli Argonauti di tutto ciò non resterà traccia.
E l’hanno capito, forse con più lucidità, gli scrittori quando, scrivendo di antropologi, hanno evidenziato il loro rapporto contraddittorio con la scrittura. Il Fred Murdock di Jorge Luis Borges, dopo la permanenza presso «certe tribù dell’Ovest», rifiuterà di scrivere la sua dissertazione di Dottorato per condurre una tranquilla vita da bibliotecario a Yale. Non perché legato da un giuramento fatto agli indiani bensì perché, dopo l’esperienza etnografica, «la scienza, la nostra scienza, mi sembra nient’altro che futile».
Il Marcel Appenzzell di George Perec, dopo aver vagabondato cinque anni nelle foreste di Sumatra alla vana ricerca degli Orang-Kubu, brucerà tutti i suoi appunti per sparire nel nulla. La sua triste vicenda sarà ricostruita solo grazie a un quadernetto zeppo di note confuse che un gruppo di studenti dell’Istituto di Etnologia di Parigi riuscirà a salvare dalle fiamme.
Nella scrittura antropologica, allora, convergono molti dei dilemmi della rappresentazione culturale: dall’aggancio empirico delle descrizioni, al candore teoretico; dalla messa in forma dell’alterità, agli usi della diversità; dalla creazione di un corpus di conoscenze (da cui parte e cui torna ogni produzione disciplinare) alla ricezione del testo scritto da parte delle comunità oggetto di studio. E questo perché fare antropologia non è una cosa semplice, bensì una pratica straniante che lascia l’antropologo, anche quando crede di aver capito, spaesato come il signor Palomar di Calvino. Davanti e dietro Palomar/l’antropologo sta il mondo, il quale non si può che cogliere attraverso lo sguardo – parziale, contingente, storicamente situato – di Palomar/l’antropologo stesso. Il quale, a sua volta, sta dentro il mondo, per quanto finga di starne momentaneamente fuori, quando l’osserva, l’analizza e cerca di dargli un senso. Inevitabilmente raccontandolo e scrivendolo.