di Michela Buonvino
Scrivere il patrimonio. Etnografia di pratiche discorsive e forme di testualizzazione intorno alla memoria culturale di Vita Santoro (Bari, Edizioni di pagina, 2023) è un libro che si posiziona all’intersezione tra scrittura, antropologia e studi sul e del patrimonio culturale. Vita Santoro effettua un’analisi delle pratiche discorsive e delle forme di testualizzazione attraverso cui il patrimonio viene individuato, documentato, salvaguardato e trasmesso. Attraverso un approccio etnografico, l’autrice esamina il ruolo della scrittura nella definizione delle politiche culturali, presentando quattro diversificati casi di studio che riguardano alcuni elementi culturali immateriali (la Storica Parata dei Turchi di Potenza, un saper fare artigianale di Latronico, un merletto artigianale dell’Alagoas, la festa di San Domenico Abate di Cocullo), esplorandone le retoriche, gli immaginari, i relativi processi di costruzione di etero e autorappresentazioni, in una sola espressione, esaminandone quelle che Vita Santoro chiama le “scritture del patrimonio”, che hanno lo scopo dichiarato di conferire legittimità, di autenticare le tradizioni.
Difatti, la scrittura, in quanto pratica di rappresentazione del patrimonio, gioca un ruolo cruciale nella definizione e nella legittimazione delle tradizioni culturali e questa centralità solleva interrogativi importanti sulla sua efficacia in termini di trasmissione della memoria e sull’impatto delle politiche e delle retoriche istituzionali, sul processo stesso di costruzione e di redistribuzione, a vari livelli, di queste narrazioni.
Il volume è articolato in due sezioni principali. Nella prima parte l’autrice fornisce un quadro concettuale dettagliato delle teorie della patrimonializzazione, della testualizzazione e delle pratiche discorsive. Si affrontano temi come l’influenza delle agenzie internazionali nella definizione del patrimonio e il ruolo delle comunità locali nella sua costruzione e trasmissione. Il concetto di “scrittura del patrimonio” è analizzato in quanto processo sociale, culturale e politico che struttura il riconoscimento e la valorizzazione di determinati elementi rispetto ad altri, come pratica al contempo inclusiva ed esclusiva. Nella seconda parte Santoro presenta i quattro casi etnografici che coprono diverse realtà socioculturali, comunità italiane e contesti del Nord-Est del Brasile, analizzando da una prospettiva cautamente comparativa le modalità di formalizzazione della memoria culturale. Attraverso la documentazione di esperienze specifiche, l’autrice mostra come le comunità negoziano continuamente il proprio ruolo nel processo di patrimonializzazione e in che modo la testualizzazione del patrimonio influenza la percezione e le modalità di trasmissione degli elementi patrimonializzati, evidenziando le tensioni tra standardizzazione dell’immaginario e reinterpretazione locale.
Uno degli aspetti più innovativi del lavoro di Santoro è l’attenzione ai linguaggi e alle modalità di scrittura impiegate sia nei documenti ufficiali sia nei materiali prodotti dalle comunità. L’analisi testuale rivela come la scrittura del patrimonio non sia mai una pratica neutrale, bensì il risultato di negoziazioni complesse e posizionamenti ideologici che influenzano il modo in cui un determinato “bene” viene percepito e presentato. In altre parole, l’autrice dimostra come la testualizzazione sia un atto performativo. La scrittura diviene uno strumento attraverso cui i gruppi sociali negoziano la propria identità culturale e ridefiniscono la propria relazione con il passato. Inoltre, Santoro mette in evidenza la relazione tra memoria orale e memoria scritta, ponendo interrogativi sulle possibilità e sulle modalità della loro coesistenza e sui rischi di omogeneizzazione delle narrazioni locali.
Questo libro non soltanto apporta elementi importanti al dibattito relativo ai processi di patrimonializzazione, ma apre anche nuovi percorsi di riflessione sulle implicazioni sociali e politiche della scrittura del patrimonio. L’approccio etnografico, unito a una solida base teorica, fa di questo libro un punto di riferimento negli studi sui processi di patrimonializzazione, offrendo validi strumenti analitici per interpretare e problematizzare le pratiche di documentazione e di valorizzazione del patrimonio culturale immateriale nel mondo contemporaneo. Il libro riesce a fare emergere chiaramente la natura transnazionale dei processi di produzione della località (Appadurai 1995), l’intimo legame tra un livello locale, un livello nazionale e un livello globale.
La scrittura di Vita procede tenendo bene a mente questi diversi piani che interagiscono continuamente nella sua narrazione. La produzione della documentazione scritta del patrimonio è sempre un processo di natura glocale che coinvolge una vasta ed eterogenea pluralità di attori: istituzioni locali, nazionali e transnazionali, ma anche le cosiddette “comunità patrimoniali”. L’esplorazione delle pratiche di testualizzazione si rivela necessaria al fine di comprendere l’approccio tassonomico, decontestualizzante, cristallizzante, reificante di molte pratiche appartenenti a uno specifico regime patrimoniale autorizzato che produce e che è il prodotto di poetiche globali eurocentriche, che mediano specifiche rappresentazioni estetiche nonché determinate gerarchie globali di valori (Herzfeld 2004). In un’analisi capillare di questi processi Vita Santoro lascia esprimere tutta la complessità di un panorama conflittuale che disegna arene patrimoniali.
Santoro ripercorre i momenti principali di un dibattito teorico ed epistemologico che ha dato vita a diverse controversie intellettuali, suggerendo tra le righe il percorso per l’individuazione di una definizione “stipulativa” di certe categorie accademiche ma anche proprie del linguaggio delle istituzioni, abbracciando una epistemologia processuale del rituale. Santoro fa luce su una serie di questioni relative a usi e disusi delle nozioni di “comunità” e di “partecipazione”, con lo scopo di mostrarne i limiti, il carattere il più delle volte normativo, essenzializzante, che rischia di offuscare la ricchezza e la densità del patrimonio culturale immateriale. L’autrice sceglie dunque di prestare attenzione all’agency comunitaria, alle diverse posture patrimoniali (Iuso 2022) legate alle pratiche di valorizzazione e salvaguardia dei patrimoni culturali, muovendosi nella direzione di una responsabilizzazione dei soggetti appartenenti alle cosiddette “comunità patrimoniali” (Clemente 2016; Padiglione, Broccolini 2016). A tal fine, Santoro prende in considerazione le diverse frizioni esistenti tra i gruppi implicati, soffermandosi sulle loro aspirazioni, esplorando anche le molteplici forme di mediazione di queste stesse aspirazioni.
Partendo dalle posizioni di Jack Goody, l’autrice indaga le forme di potere che investono la pratica della scrittura, in un duplice senso: anzitutto, esplora il potere delle culture dotate di scrittura rispetto a quelle considerate orali; in secondo luogo, il potere che la scrittura può attribuire a certi elementi, quindi la sua capacità di generare asimmetrie di potere, relative anche alla (im)possibilità di controllare i mezzi di comunicazione. Detto altrimenti, il potere della scrittura di fissare in un canone, di conferire autorevolezza, di disciplinare, altro termine chiave ricorrente nel testo di Vita Santoro.
Cruciale si rivela l’attenzione che l’autrice dedica alle forme di riconoscimento del patrimonio nello spazio pubblico, e questo chiama direttamente in causa il rapporto tra il patrimonio e i gruppi o le comunità patrimoniali (categoria che spesso si rivela un dispositivo che rende agevole l’applicazione di certe normative, nonché l’esercizio di un controllo sociale). Quella di Vita Santoro è sì un’analisi delle retoriche ufficiali, dei regimi discorsivi autorizzati e della loro genealogia, ma anche delle contese relative alle pratiche discorsive e scrittorie, che lasciano emergere chiaramente la natura parziale delle politiche e delle poetiche ufficiali; Vita esamina, difatti, anche il mondo delle scritture non istituzionali, ordinarie, sottolineando la natura socialmente e culturalmente diseguale e asimmetrica della produzione della scrittura, fatto che non può essere ignorato, perché soltanto mediante l’esplorazione di queste dinamiche possiamo giungere alla comprensione dei nessi esistenti tra testi scritti, significati, valori e norme di comportamento, dei nodi sapere-potere.
Un’altra dimensione esplorata da Vita Santoro è quella definita dal processo di attribuzione valoriale nella sfera pubblica che molto ha a che vedere con la questione della mediazione delle rappresentazioni simboliche, operata, nel caso dell’analisi di Vita, dalla scrittura. Durante le mie ricerche ho osservato queste stesse dinamiche attraverso la lente delle performance culturali corporee marocchine, indagando il nesso tra performance culturali statali, politiche dell’identità e processi di formazione della sfera pubblica islamica nel Marocco contemporaneo. In particolare, le ambivalenze poetiche e politiche della patrimonializzazione dell’immateriale in Marocco – questioni su cui rifletto da anni – mi sembra possano entrare in risonanza con le tematiche discusse da Santoro e mettere in evidenza alcuni aspetti della sua analisi che mi sembrano di grande interesse. Il processo di istituzionalizzazione della cultura in Marocco ha radici nel periodo del Protettorato francese, con la creazione nel 1912 del Service des antiquités, beaux-arts et monuments historiques. Questa istituzione, ispirata a un modello conservativo, ha gettato le basi per la gestione del patrimonio culturale del Paese, inizialmente limitata al patrimonio materiale e artistico.
Dopo la conquista dell’Indipendenza (1956), il Marocco ha sviluppato una strategia in materia di politiche culturali incentrata su una concezione evoluzionistica della cultura. L’integrazione del patrimonio immateriale nella politica culturale marocchina è stata lenta e ha incontrato resistenze concettuali e istituzionali. Fino agli anni 2000, la gestione statale ha privilegiato la conservazione del patrimonio materiale, mentre il patrimonio immateriale ha ricevuto sicuramente una minore attenzione e spesso è stato oggetto di processi di folklorizzazione e reificazione. La politica patrimoniale marocchina è stata caratterizzata da lacune normative e da un approccio emergenziale. Diversi esperti del patrimonio culturale marocchino hanno evidenziato le criticità nella gestione del patrimonio immateriale, denunciando l’assenza di meccanismi di tutela e la tendenza all’uniformazione culturale nazionale a scapito delle espressioni locali (cf. Skounti 2004, 2009).
Solo con la ratifica della Convenzione UNESCO del 2003 si è assistito a una maggiore formalizzazione delle pratiche di conservazione del patrimonio immateriale. Negli ultimi quindici anni l’interesse per il patrimonio immateriale è cresciuto notevolmente, con l’inserimento di diversi elementi del patrimonio culturale nazionale nella lista dell’Ich. Tuttavia, permangono problemi strutturali di coordinamento tra istituzioni e una scarsa interazione con le comunità locali. Il processo di patrimonializzazione delle performance culturali presenta numerose criticità. Dal 2003, l’UNESCO ha iniziato ad ampliare energicamente la Ich list, segnando un’accelerazione significativa nel processo di istituzionalizzazione delle politiche internazionali in questo ambito. Tuttavia, com’è noto, tale riconoscimento implica complesse negoziazioni con le comunità e gli Stati, che spesso danno vita a fenomeni di stereotipizzazione e folklorizzazione. Come testimoniano ormai molti casi di studio, i candidati devono acquisire competenze tecniche specifiche per dimostrare che le loro pratiche rispettano i valori dell’UNESCO, uniformandosi almeno nominalmente a un determinato ideale di autenticità e a una certa gerarchia globale di valori, partecipando a processi di (auto) essenzializzazione identitaria.
Il Festival des Cerises di Sefrou, evento che seguo da diversi anni, è entrato ufficialmente a far parte della Ich list nel 2012, dopo un tortuoso iter di candidatura avviato nel 2010, segnato da complesse negoziazioni tra attori locali e istituzioni nazionali e internazionali. Come ho tentato di dimostrare in altra sede, il processo di patrimonializzazione ha rivelato ed esasperato profondi conflitti interni e divergenze di opinione tra associazioni e amministratori locali relative alle traiettorie della valorizzazione dell’elemento (cf. Buonvino 2024). Centrale si è rivelata la questione della memoria storica del festival. L’avvio del processo di patrimonializzazione UNESCO ha dato vita a un dibattito (ancora aperto) su come conciliare archivio e repertorio, ovverosia documentazione scritta e trasmissione vivente della tradizione, a cui si ricollega anche la difficoltà incontrata dai compilatori e dall’Unesco nel tentativo di inserire il festival in una delle categorie del dossier di candidatura. La tendenza a leggere i rapporti tra archivio e repertorio in termini sequenziali, e/o in termini di verità e falsità, e/o di primordiale e moderno pervade tuttora i discorsi di molti membri della pubblica amministrazione sefrioui. L’ingresso del Festival nella Ich list ha dato il via a fenomeni di oggettivazione culturale, nonché di essenzializzazione identitaria; le qualità culturali, come l’“autenticità”, la “tradizionalità”, la “tipicità” del Festival, della comunità che lo celebra e della ciliegia, sono divenute a Sefrou risorse di «un’economia simbolica dell’immaginario» (Palumbo 2010: 67), dando vita alla produzione di memorie patrimoniali scritte autoesotizzanti. In particolare, ciò favorì l’introduzione di nuove forme di espressione essenzializzata del rapporto tra la città di Sefrou e il suo principale evento festivo, fondate su un certo grado di teorizzazione dell’identità e sull’astrazione dalle storie particolari in nome delle categorie di “identità collettiva” e di “memoria collettiva” che necessitavano di essere non solo prodotte, ma anche fissate in una forma scritta.
Il campo memoriale, così come quello patrimoniale, si rivela contrassegnato da azioni plurali, da conflitti e da negoziazioni. Nel caso di Sefrou, i rappresentanti delle autorità locali, esigendo come indicato dall’UNESCO l’istituzione di un archivio del festival, si sono di fatto appropriati nominalmente del discorso UNESCO che impone, anche quando non esplicitato, il trasferimento dal repertorio all’archivio, in nome dell’equazione scrittura=memoria che, come affermava Jacques Derrida, ossessiona il discorso europeo (Derrida 2008). Nel caso di una performance culturale come quella di Sefrou, contrassegnata da una tensione dinamica e creativa tra continuità e innovazione, si mette in scena la memoria incorporata, ovverosia i gesti, le espressioni orali, i linguaggi corporei, che compongono un repertorio di conoscenze non riproducibili a volte imprecisamente dette “effimere”. La ragione dell’utilizzo diffuso di questo termine fuorviante deriva dal fatto che le epistemologie occidentali si fondano sul primato della scrittura rispetto all’incorporazione e tale separazione si riflette nella dicotomia tra «archivio di materiali» e «repertorio di conoscenze», tra una memoria d’archivio e una memoria di repertorio, ancora, tra una memoria immunizzata contro l’alterità (De Certeau 2006) perché in grado di separare «la fonte del sapere» da «colui che sa» (Taylor 2019: 51) e una memoria che, al contrario, richiede la presenza di agenti che partecipano a tutti gli effetti alla (ri)produzione e alla trasmissione stessa del sapere. Una tale visione dicotomica nasconde la natura mediata di entrambi i sistemi di trasmissione, frutto di processi di selezione, memorizzazione, introiezione e di trasmissione specifici, e per di più, questi coesistono e interagiscono generando, nel caso in cui si presenti la necessità di patrimonializzare secondo tassonomie “estranee”, impasses significative. Salma, giovane architetto che lavora presso la Direzione Regionale della cultura di Fès-Meknès, ha affermato, a tale riguardo:
«La richiesta di patrimonializzare, ma anche soltanto di presentare, di descrivere, la nostra stessa ricchezza culturale ci ha causato non pochi problemi. Tutte le procedure di archiviazione, d’inventariazione, d’iscrizione del patrimonio, sono recenti. Le culture occidentali danno più importanza a queste ultime. E questo retroagisce e allora anche noi ci rendiamo conto, in un certo senso. Dicono di essere preoccupati della trasmissione di questi “saperi immateriali” alle generazioni future. Anche noi lo siamo! Crediamo che sia proprio questo il vero patrimonio da tramandare. La volontà c’è! È solo che, capisci, è un po’ come tentare di guardarsi il naso. Noi patrimonializziamo inconsapevolmente. Quando ci troviamo di fronte alle categorie dell’Unesco, noi rimaniamo schiacciati» (Intervista a Salma, realizzata il 29/06/2022).
Una lettura antropologica di questi processi deve considerare il patrimonio in modo dinamico e flessibile, in quanto «mondo di azioni plurali» (Clemente 2011: 14). Senz’altro il rapporto tra Stati-nazione e l’UNESCO solleva numerosi problemi legati al funzionamento burocratico delle politiche di salvaguardia del patrimonio culturale. Secondo Berardino Palumbo il processo di patrimonializzazione produce spesso uno stiracchiamento dei simboli e può generare conflitti identitari (Palumbo 2003, 2010). Nei contesti maghrebini e musulmani, dove il patrimonio è storicamente legato alla produzione intellettuale islamica, il modello UNESCO incontra resistenze per la sua impostazione eurocentrica, giacché richiede di conformarsi ai valori occidentali, legati all’individualismo, all’identità e alla monumentalizzazione della tradizione. Questo processo si inserisce nella lunga storia di occidentalizzazione iniziata con i Protettorati, che è alla base della costruzione e della persistenza di una certa dipendenza politica e culturale, che bene si esprime nei tentativi di inventariazione e di riorganizzazione del patrimonio culturale marocchino secondo logiche statali e globali “importate” (Badie 1992), questioni che hanno generato non poche resistenze interne.

ntervista alle merlettaie produttrici di singeleza, Ipioca – Alagoas, BR. 2015 (ph. Adriana Guimarães)
Nelle pagine di Vita Santoro troviamo un’analisi critica delle pratiche testuali e discorsive che sono alla base della produzione della burocrazia occidentale relativa alla creazione del patrimonio; allo stesso tempo l’autrice lascia emergere le frizioni creative, dalla fase di ideazione, alla fase di scrittura, al momento in cui determinati attori tentano di declinare uno standard internazionale adattandolo alle diverse legislazioni nazionali. Ne risulta un’avvincente esplorazione critica dei quadri di governance e delle politiche culturali che si incentra sulle interazioni tra regimi patrimoniali e processi partecipativi (Bindi 2019).
La scrittura del patrimonio emerge in quanto operazione che oscilla tra la volontà di preservare e di innovare, tra il bisogno di fissare e il dinamismo della vita culturale che rifugge ogni cristallizzazione. Lo sguardo etnografico di Vita Santoro restituisce un’idea delle pratiche di scrittura del patrimonio come campi di forze; la scrittura ordina, struttura, istituzionalizza, ma al contempo sfida, negozia, reinventa. Scrivere il patrimonio è un processo di tessitura simbolica, uno “specchio magico” (Turner 1982) le cui deformazioni generano la “riflessività” delle pratiche discorsive e di scrittura e la possibilità stessa che queste possano suggerire nuovi modi di autocomprensione dei gruppi implicati. Ai margini della testualizzazione istituzionale si insinuano altri discorsi, altre scritture che resistono alla reificazione. Vita Santoro ci conduce al cuore di queste dinamiche con un’attenzione profondamente critica ed epistemologicamente riflessiva. Il suo lavoro ci invita a interrogarci sulle condizioni di “enunciabilità” della memoria scritta e sulle sue implicazioni politiche e sociali. Il patrimonio emerge, dunque, come orizzonte di possibilità e processo in continua ridefinizione, fatto di gesti, parole, silenzi, segni, cancellature, di narrazioni dominanti e di voci marginali che cercano e a volte trovano spazio, giacché patrimonio è anche ciò che si osa riscrivere.
Dialoghi Mediterranei, n. 7, marzo 2025
Riferimenti bibliografici
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Michela Buonvino, antropologa culturale, è attualmente assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi del Molise e si occupa di patrimoni bioculturali e di rigenerazione territoriale delle aree interne a partire dal lavoro a base culturale, di processi di patrimonializzazione e di festivalizzazione della cultura. È docente a contratto di Antropologia del mondo globale contemporaneo presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia (SIE) e di Antropologia dei patrimoni presso l’Università degli Studi del Molise. È dottoressa di ricerca in M-DEA/01 (Sapienza Università di Roma). Dal 2018 conduce una ricerca sul campo a Sefrou e a Fès (Marocco). La sua tesi di dottorato concerne le relazioni tra performance culturali, politiche dell’identità e processi di formazione della sfera pubblica islamica nel Marocco contemporaneo.
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