di Elio Rindone
«Se i buoi < e i cavalli > e i leoni avessero le mani o potessero disegnare con le mani e compiere opere come quelle che gli uomini compiono, i cavalli simili ai cavalli, e i buoi simili ai buoi dipingerebbero figure di dèi e plasmerebbero corpi come quelli che hanno ciascuno di loro» (Fr. 13).
Duemilacinquecento anni fa Senofane di Colofone contestava con queste parole la religiosità di tipo antropomorfico del suo tempo, ma forse le sue critiche sono valide anche nei confronti della religione cristiana, che ha plasmato le idee e i sentimenti degli europei negli ultimi due millenni. Chi volesse averne una prova, non dovrebbe far altro che osservare ciò che sta accadendo oggi in seguito al diffondersi del coronavirus.
La scienza ha fatto il suo cammino e, ovviamente, non ci sono più, come nel XIV secolo, schiere di flagellanti che percorrono le nostre strade, ma la paura di essere contagiati da un virus che sta provocando nel mondo più di trecentomila morti ha indotto ancora oggi non solo le autorità ecclesiastiche ma anche milioni di fedeli, che forse avevano da tempo abbandonato tale pratica, a ricorrere alla preghiera per chiedere la fine della pandemia. Ciò prova, a mio parere, che il cristianesimo conserva tutt’ora una concezione dei rapporti tra l’umano e il divino di tipo decisamente antropomorfico. Infatti, la convinzione che ci sia una correlazione tra la preghiera e un’epidemia presuppone l’idea che esista una divinità, un Signore onnipotente che può intervenire nelle vicende umane in base a sue libere e per noi imperscrutabili decisioni: sia causando, oltre alle consuete e non piccole sofferenze che accompagnano la condizione umana, un surplus di tragedie per punire una crescente inclinazione a peccare, sia ponendo fine a quel sovrappiù di sofferenza, nel caso riceva un numero sufficiente di preghiere che attestino propositi di pentimento.
Certo, oggi è meno comune l’idea che una pestilenza sia un castigo divino: l’immagine di una simile divinità appare troppo crudele. Ma ancora nel 1987 l’arcivescovo di Genova, il card. Siri affermava con sicurezza che l’Aids è «il primo segno inviato dal cielo per punire l’uomo delle sue deficienze morali e per ammonirlo duramente a ritrovare al più presto la retta via [… si tratta di] una malattia inviata direttamente contro il peccato del sesto comandamento (non commettere atti impuri)» (La Repubblica 24/3/1987).
Questa lettura, che è stata accettata per secoli, non è certamente casuale: essa ha un innegabile fondamento biblico. Stando alla Genesi, infatti, la morte dell’uomo, assieme alla fatica del lavoro, è punizione del suo peccato: «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!» (3,19). E proprio così intende s. Paolo la pagina della Genesi: «a causa di un solo uomo [Adamo] il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte» (Romani 5,12).
In effetti, l’idea della sofferenza come punizione divina per i peccati dell’uomo ricorre frequentemente nella Bibbia: basti accennare alle pagine che descrivono il diluvio universale – «Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre. […] Il Signore disse: “Cancellerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato e, con l’uomo, anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito di averli fatti”» (Genesi 6, 5.7) – o a quelle che fanno il conto dei morti della pestilenza causata da Jahvè – «il Signore mandò la peste in Israele, da quella mattina fino al tempo fissato; da Dan a Bersabea morirono tra il popolo settantamila persone» (2 Samuele 24,15) – o che minacciano l’esilio al popolo ebraico: «voi avete agito peggio dei vostri padri; ognuno di voi, infatti, segue caparbiamente il suo cuore malvagio e si rifiuta di ascoltarmi. Perciò vi scaccerò da questo paese verso un paese che né voi né i vostri padri avete conosciuto, e là servirete divinità straniere giorno e notte, perché non vi farò più grazia» (Geremia 16,12-13).
Ma anche tralasciando l’idea, cara al profeta Amos – «Avviene forse nella città una sventura, che non sia causata dal Signore?» (3,6) – che i mali dell’umanità siano sempre voluti dal Signore, è meno crudele l’immagine di una divinità che esige un’insistente preghiera per porre fine a una calamità fuori dell’ordinario, quasi per far toccare con mano all’uomo la sua fragilità e la sua dipendenza? La fragilità è certamente la condizione propria dell’essere umano, e si capisce come, sin dall’antichità, tutte le volte che si sperimenta in maniera più acuta tale fragilità si ricorra sempre alla preghiera, alla ‘prece’ che, come ricorda l’etimologia, è collegata alla condizione di ‘precarietà’ di chi cerca di ottenere col ‘praecari’, col chiedere, quella consistenza e quella sicurezza di cui avverte la mancanza.
E non c’è dubbio che questa pratica, comune alle varie religioni, trovi per i cristiani il suo fondamento nei vangeli. Più volte, infatti, Gesù invita a chiedere con fiduciosa insistenza al Padre che è nei cieli ciò di cui si ha bisogno: «io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto» (Luca 11,9-10); «tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà» (Marco 11,24).
Ma, a questo punto, ineludibile si pone la questione: si può riproporre ancora oggi la preghiera di domanda? Un cristiano adulto può davvero credere che ci sia una divinità pronta a elargire i suoi favori solo su pressante richiesta di chi si trova in stato di bisogno? Credo che la risposta non possa che essere negativa: nell’ambito della riforma già nel secolo scorso il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), affermava che l’uomo deve puntare sulle proprie risorse per affrontare i suoi problemi, e non attenderne la soluzione da un Dio-tappabuchi che appare sempre più incompatibile con una fede adulta.
Ma qualcosa si muove anche nel mondo cattolico. Infatti, il teologo Carlo Molari faceva notare alcuni anni fa che «quando Gesù diceva ‘Padre che sei nei cieli’ si riferiva a una particolare visione del mondo che ha resistito fino a Copernico. Molti credenti hanno posto resistenze per secoli al cambiamento. Oggi è pacifico che su questo non dobbiamo pensare come Gesù» (Il significato della croce e l’equivoco del sacrificio, relazione tenuta il 30 luglio 2009 alla Settimana di formazione ecumenica del SAE). Se per quanto riguarda la visione cosmologica molti credenti – chiara allusione, con la necessaria cautela, all’autorità ecclesiastica che ha condannato Galilei – hanno opposto resistenza per secoli, come non prevedere una resistenza ancora più tenace, proseguiva Molari, su questioni certamente più decisive come la morte di Gesù, che nell’interpretazione tradizionale «avrebbe compiuto un sacrificio di espiazione, versato il prezzo del riscatto, offerto una soddisfazione proporzionata all’offesa ricevuta, subito la pena del peccato al posto degli uomini o come loro rappresentante»? Infatti, «Questo modo di pensare a livello della pietà popolare è giunto fino al Concilio Vaticano II e in alcuni ambiti ecclesiali resta tuttora». In quali ambiti? Rinunciando a ogni prudenza, direi proprio nell’ambito del magistero e della dottrina ufficiale. Ma ciò non significa che quel ‘modo di pensare’ sia accettabile, e infatti lo stesso Molari pochi anni fa arriva a dichiarare: «Non credo nel Dio che vuole la riparazione del male attraverso la croce di Cristo o per mezzo di coloro che si uniscono alla sua sofferenza. Dio non vuole che gli uomini siano nel dolore» (Il Dio in cui non credo, in rete sul sito della Comunità Pastorale S. Giovanni Paolo II, 18/4/2017).
Non ci sarebbe nulla di strano, quindi, se i cristiani prendessero le distanze non solo da una superata teologia della croce ma anche da una concezione della preghiera che Gesù ovviamente condivideva con i suoi contemporanei ma che oggi appare poco credibile: le sofferenze umane, che sono causate non da una divina volontà punitiva ma, almeno in alcuni casi, da responsabilità umana, vanno contrastate non con la preghiera ma con le risorse della scienza, col rispetto della natura, con un’equa distribuzione dei beni della terra. È quanto ha affermato recentemente anche papa Francesco: «Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati […] di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato» (Momento straordinario di preghiera 27/3/2020).
Ma in quella stessa occasione il papa, apparso da solo sul sagrato di S. Pietro di fronte a una piazza deserta, ha scelto il registro poetico-emotivo per coinvolgere masse di fedeli impauriti e desiderosi di essere confortati: «“Venuta la sera” (Mc 4,35). Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio». E, prendendo spunto dall’immagine di Gesù che rassicura i discepoli spaventati placando la tempesta che minaccia di travolgere la loro barca – «minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e ci fu grande bonaccia» (Marco 4,39) – commenta:«L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio […] Abbiamo un’àncora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore».
Le due prospettive – la necessità dell’impegno umano e l’attesa di un prodigioso intervento divino, di cui però non c’è traccia nell’esperienza attuale, perché non pare che il virus obbedisca a Gesù, come «il vento e il mare» (Marco 4,41) nel racconto evangelico – sono entrambe presenti nelle parole del papa, e non credo che oggi ci si possa aspettare di più dall’autorità ecclesiastica. In effetti, non è facile abbandonare una tradizione plurisecolare, ed è perciò comprensibile che Francesco – che esprime il suo apprezzamento per i movimenti internazionali e locali che attribuiscono all’uomo la responsabilità della devastazione della terra: «L’abbiamo inquinata, l’abbiamo depredata, mettendo in pericolo la nostra stessa vita» (Catechesi in occasione della 50ª Giornata Mondiale della Terra 22/4/20) – vada poi a pregare davanti a un crocifisso considerato miracoloso e che al giornalista, che gli chiede che cosa abbia domandato, risponda con sincera convinzione: «Ho chiesto al Signore di fermare l’epidemia: Signore, fermala con la tua mano. Ho pregato per questo» (La Repubblica 18/3/20). Ed era scontato che alla Lettera indirizzata a tutti i fedeli per il mese di maggio aggiungesse il testo di una preghiera per chiedere l’intercessione di Maria: «implora per noi da Dio, Padre di misericordia, che questa dura prova finisca e che ritorni un orizzonte di speranza e di pace» (25/4/20). Ma è evidente che si tratta di due prospettive incompatibili sicché, anche se muovendosi su due piani riesce a parlare a tutta la vasta comunità cattolica, il papa scontenta, da un lato, chi è legato all’idea della signoria divina sugli eventi naturali in funzione punitiva e, dall’altro, chi considera mitologica quella visione della realtà.
Il registro comunicativo scelto da Francesco, se riesce, ancora oggi, a raggiungere milioni di uomini e donne angosciati per la pandemia, sensibili al fascino dei simboli e dei riti della tradizione e desiderosi di essere confortati, non potrà certo impedire che le chiese continuino a svuotarsi, soprattutto di giovani, ed è facile prevedere che il cristianesimo verrà percepito sempre più come un residuo del passato se i credenti non impareranno a guardare il mondo con maggiore maturità e a distinguere il nucleo della loro fede dai rivestimenti mitologici propri di una cultura prescientifica. In effetti, non è difficile rendersi conto che l’attuale pandemia, che a prima vista presenta il carattere dell’eccezionalità, in realtà è soltanto una delle tante vicende che rendono ogni giorno tragica la condizione umana, e che, spesso volutamente, ignoriamo. Basti un solo esempio: in base ai dati forniti da Save the Children per il 2017, nel mondo muoiono per fame ogni anno più di due milioni e mezzo di bambini, e cioè 7 mila al giorno, 5 ogni minuto. È chiaro, quindi, che se il coronavirus ci preoccupa tanto è perché mette a rischio la nostra vita, mentre se il contagio si diffondesse solo in Paesi lontani dal nostro…
È comprensibile che persone immature si occupino di ciò che le riguarda direttamente, disinteressandosi di ciò che non avviene sotto i loro occhi, e di cui sono forse corresponsabili perché godono di un benessere e sostengono un’economia che sono causa della miseria altrui. Ma se si continua così, non c’è il rischio che sarà sempre più facile trovare dei cristiani solo tra le fasce più immature della popolazione, quelle che si occupano soltanto di se stesse e ricorrono alla preghiera per assicurarsi la protezione divina? E ciò in contrasto proprio col cuore del messaggio evangelico, che chiede di amare il prossimo come se stessi e non di rinchiudersi nel proprio guscio, nella totale indifferenza per ciò che accade fuori.
Maturare, forse, significa avere il coraggio di aprire gli occhi di fronte alla realtà, al mondo di cui facciamo parte. Diventerebbe possibile, allora, superare non solo la prospettiva egocentrica, per cui fa problema soltanto la mia sofferenza e quella dei miei cari, ma anche quella antropocentrica, per cui fa problema tutt’al più la sofferenza umana. La pretesa che l’uomo sia al centro dell’universo, e che tutto perciò debba essere giudicato in funzione della sua felicità, è evidentemente insostenibile dopo Copernico, Galilei, Darwin… Fanno parte dell’ordine della natura gli eventi che chiamiamo catastrofi, perché toccano gli umani, esattamente come quelli che riguardano gli altri viventi. Non c’è differenza, notava Leopardi, tra il ‘picciol pomo’ che cadendo dall’albero «schiaccia diserta e copre» un formicaio, e la lava del vulcano che «confuse e infranse e ricoperse in pochi istanti» le città che si stendevano sulle pendici del monte sino al mare, perché «Non ha natura al seme dell’uom più stima o cura che alla formica» (La ginestra).
Non c’è dubbio, la concezione del mondo e dell’uomo che offre la scienza non è quella dei vangeli, e la riflessione sul rapporto tra la preghiera di domanda e l’attuale pandemia potrebbe costituire una grande opportunità: rendersi conto del fatto che i testi sacri delle varie religioni sono espressione della cultura dell’epoca in cui sono stati composti e vanno letti all’interno di un determinato contesto storico. Sarebbe perciò poco ragionevole, per i cristiani, restare prigionieri di una visione prescientifica: bisognerebbe, piuttosto, non solo liberarsene ma anche riconoscere onestamente che in questo campo le autorità religiose sono state spesso di ostacolo al progresso dell’umanità.
Questo disastroso atteggiamento di chiusura dinanzi a ogni novità è stato causato a mio parere dall’avere preso alla lettera la parola ‘rivelazione’ (del dogma dell’infallibilità del magistero è meglio non parlare!). In effetti, se ci si trova di fronte a una parola divina, non si può che accettarla con fede, senza discutere: è la verità, che non ammette errori, che non può cambiare, che non può essere contraddetta, che va semplicemente accolta e custodita e trasmessa di generazione in generazione. Nessuna argomentazione filosofica, nessuna scoperta scientifica, nessuna esperienza umana possono smentirla, perché l’intelligenza, se procede correttamente, non potrà trovare in essa alcuna contraddizione. Nei confronti della rivelazione, la ragione umana deve quindi assumere una posizione ancillare: potrà favorirne la comprensione, esplicitarne le implicazioni, tentare di mostrarne la ragionevolezza, ma l’ultima parola spetterà sempre alla fede. E questa verità di fede, poiché da essa dipende la salvezza degli uomini, andrà difesa a qualunque costo: sia con la sottigliezza delle argomentazioni che col fuoco dei roghi.
Tutto cambia, invece, se ci si rende conto che ciò che chiamiamo ‘rivelazione’ non è che riflessione umana, come scrivono esplicitamente, ormai da tempo, anche teologi cattolici come, per esempio, Karl Schelkle: «la riflessione critica si domanda se ora in qualche modo la rivelazione avvenga come reale comunicazione di Dio all’uomo o se ciò che viene detto rivelazione sia soltanto riflessione di uomini religiosi» (Teologia del Nuovo Testamento Bologna 1980: 61), uomini quindi che, anche quando elaborano pensieri di particolare profondità, portano sempre il peso dei loro limiti personali e storici [1]. È evidente che, se si accetta questa prospettiva, cambia radicalmente il modo di leggere la Bibbia: non ci si trova più davanti a una parola divina che esclude ogni errore, valida per tutti e per sempre, ma a parole umane, e spesso troppo umane. E diventa perciò ovvio riconoscere, come osserva un teologo contemporaneo, che «il buon libro non è tutto buono. La Bibbia ospita anche insensatezze, banalità e meschinità, insieme a una visione classica delle irrealizzate possibilità del genere umano» (D. C. Maguire, Il cuore etico della tradizione ebraico-cristiana, Assisi 1998: 105).
Se ci si trova difronte a riflessioni di uomini, quindi, il criterio decisivo, ovviamente, non può più essere la fede ma la ragione, secondo l’insegnamento kantiano: «Amici dell’umanità e di ciò che c’è di più santo per essa, accettate pure ciò che vi sembra più degno di fede dopo un esame attento e sincero, sia che si tratti di fatti sia che si tratti di principi razionali; ma non contestate alla ragione ciò che fa di essa il bene più alto sulla terra: il privilegio di essere l’ultima pietra di paragone della verità» (Che cosa significa orientarsi nel pensare 1786). E, se si condivide questa prospettiva, non ci si può limitare a interrogarsi sulla credibilità della preghiera di domanda o della concezione biblica dell’uomo, che stando alla Genesi sarebbe creato a immagine e somiglianza di Dio e sembrerebbe la stessa ragion d’essere della creazione, ma occorre mettere in discussione la stessa idea di Dio che emerge dalle Scritture ebraico-cristiane.
Dio è un termine che usiamo comunemente, dando per scontato che sappiamo di cosa parliamo. Ma se ci fermiamo a riflettere, ci accorgiamo che non è così. Sappiamo bene, per esempio, di quali realtà ci stiamo occupando quando pronunciamo le parole ‘pietra’ o ‘albero’: si può dire la stessa cosa quando parliamo di ‘Dio’? Credo che l’indagine etimologica sia utile per orientarci, perché permette di risalire alle esperienze primordiali che hanno dato origine a un termine usato per millenni dai popoli più diversi. L’italiano ‘Dio’, come il latino ‘Deus’ (e ‘dies’ = giorno) e il greco ‘Zeus’ (Djeus, al genitivo Diòs), deriva dalla radice ariana ‘DIV’, che significa ‘splendere’, ‘brillare’. L’esperienza primaria, variamente elaborata poi dalle differenti tradizioni religiose, è dunque quella della luce: lo splendore del cielo, il chiarore del giorno che dà gioia e sicurezza, liberando dall’oscurità delle tenebre notturne [2]. In questo termine si condensa, dunque, tale stupefacente esperienza, cui si aggiungono, da una parte, l’ammirazione per l’ordine dell’universo e, dall’altra, il timore provocato dalla sproporzione tra le forze della natura e la fragilità umana.
Ma non solo la luce del giorno: anche gli altri elementi che costituiscono il mondo della natura vengono chiamati ‘dèi’, in greco theóι. Il termine theós, la cui etimologia è incerta, sembra che all’inizio indicasse un’esperienza particolarmente intensa, fuori dall’ordinario: «Pronunciare il termine theós equivaleva a dire: ‘Ecco qui, proprio qui c’è Dio’. Originariamente theós, lungi dal designare un’entità, indicava un accadimento. E allora Dio ‘chi’, ‘che cosa’? Appunto: la fonte che disseta, il fiume che lava e trascina, Dio è il mare in cui si naviga, tempestoso, calmo, navigabile, pescoso, ma anche distruttore di navi, soprattutto inesplorato, infinito» (S. Natoli, La salvezza senza fede, Milano 2008: 248) [3]. In quest’ottica, ovviamente, tutti i fenomeni naturali suscitano meraviglia, sono ‘divini’: gli alberi, i monti e soprattutto il cielo, contemplando il quale l’uomo è profondamente compreso di timore, per la sua incolmabile distanza, e di ammirazione, per il moto perfettamente regolare degli astri. E non è un caso che proprio il cielo luminoso sia identificato con la divinità suprema, Zeus: l’esperienza della luce che scaccia le tenebre è appunto quella che, per antonomasia, viene percepita come divina.
Ma poiché alcune esperienze umane possono essere singolarmente intense, emergendo dalla banalità del quotidiano, anch’esse vengono qualificate come divine. Come le sorgenti o i venti, pure la guerra o l’amore, per esempio, sono divinità: Ares e Afrodite. E quanto più l’uomo fa esperienza di sé e della sua specificità, tanto più attribuisce agli dèi caratteristiche personali. Insomma, divina è la natura, la vita nella varietà delle sue forme. Acqua e fuoco, mondo vegetale e animale, uomini e dèi: sono, tutti, espressione di questa inesauribile energia vitale. Anche gli dei, quindi, fanno parte del mondo della natura, ne costituiscono la manifestazione più compiuta, e ovviamente si attribuisce loro ingenuamente la forma umana, privata però dell’esperienza del dolore e della morte: sono beati e immortali.
Originale, per certi versi, è la concezione che la tradizione ebraica ha di Dio, un essere personale, Signore dell’universo – sole e luna, infatti, non sono dèi ma opera del creatore – e attento alla storia dell’umanità e, in modo tutto speciale, di un determinato popolo. Contrariamente a quanto si crede comunemente, però, il monoteismo non si trova al punto di partenza di questa esperienza religiosa: infatti, anche se del politeismo iniziale del popolo ebraico restano solo poche tracce nella Bibbia, essa attesta tuttavia senza ombra di dubbio che c’è stato un processo che va «dal politeismo al monoteismo passando attraverso la monolatria» (H. Küng, Ebraismo, Milano 2012: 49). Il termine ebraico ‘ĕlhōîm, (singolare: ‘ēl; il plurale è usato come segno di devozione), corrispondente al greco theós, è utilizzato per indicare in genere l’essere divino. Colui che stringe un’alleanza col popolo ebraico sarà chiamato: jhwh ‘ĕlhōîm, e significa Jahvé, cioè Dio. Jahvé – questo nome, di cui non si è in grado oggi di determinare con certezza il significato, è entrato nella tradizione israelitica intorno al 1200 a.C. – era chiamato ‘ēl ‘ĕljôn, l’Altissimo, il Signore del pantheon, che superava per potenza tutti gli altri dèi, l’esistenza dei quali originariamente non era messa in discussione: «Chi è come te fra gli dèi, Jahvé?» (Esodo 15,11).
Pur essendo l’indiscusso protagonista dei libri che i cristiani chiamano Antico Testamento, e nei quali gli si attribuiscono i sentimenti più vari e le azioni più sorprendenti, Jahvé resta per gli ebrei un essere misterioso: «Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio d’Israele, salvatore» (Isaia 45,15). Tanto misterioso e inaccessibile che il nome Jahvé non doveva essere pronunciato, sicché comunemente veniva sostituito dal termine Adonai, tradotto in greco con Kyrios, Signore. E del Signore, come di un legittimo padrone, l’israelita si considera servo: «Venne il Signore, stette di nuovo accanto a lui e lo chiamò ancora come le altre volte: “Samuele, Samuele!”. Samuele rispose subito: “Parla, perché il tuo servo ti ascolta”» (I Samuele 3,10). Ma il Signore è chiamato anche da Israele con gli appellativi di sposo, madre, padre: «Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani» (Isaia 64,7). E questa sarà l’immagine [4] usata più spesso, ricorrendo addirittura talvolta non al termine padre ma a quello più familiare di papà, dal Gesù dei vangeli: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Matteo 11,25). E questo padre – il cui volto Mosè non poteva vedere: «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Esodo 33,20) – si rende ora accessibile nella persona di Gesù stesso: «chi vede me, vede colui che mi ha mandato» (Giovanni 12,45). Nelle parole e nelle opere di Gesù, nella sua vita donata senza riserve a servizio degli uomini, i suoi discepoli hanno creduto di sperimentare quella realtà a cui hanno tentato di dare espressione ricorrendo inevitabilmente a termini sempre presi dalla nostra esperienza e da quanto di più elevato essa offre; e cioè un amore-dono che non conosce limiti e non fa divisioni tra giusti e ingiusti: «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (I Giovanni 4,8).
Da questi rapidi cenni credo che si possa ricavare una conclusione: il linguaggio mitico, poetico, sapienziale – comune a tutte le religioni – si serve di immagini, di simboli, di metafore e non può certamente essere preso alla lettera. Un errore, che si è prolungato per secoli, è stato quello di credere che termini come luce o signore o padre ci stessero facendo conoscere la realtà. Oggi va detto con chiarezza che quello metaforico, se è l’unico linguaggio di cui disponiamo per accennare a ciò che oltrepassa il mondo dell’esperienza, non ci permette in alcun modo di sapere di cosa stiamo parlando. Se poi, come ritiene anche la maggior parte dei biblisti cattolici, nella Bibbia non troviamo parole divine ma umane, sarà necessario riconoscere che non l’uomo è stato creato a immagine di Dio [5] ma l’immagine divina è stata plasmata dall’uomo con i caratteri di un essere personale, Signore onnipotente e Padre benevolo. Consapevole della propria superiorità sugli altri esseri viventi e, a un tempo, della propria debolezza di fronte alle soverchianti forze della natura, di cui pure avvertiva l’ordine e la bellezza, l’uomo che vedeva la propria vita in balìa di eventi che non riusciva a padroneggiare e, soprattutto, che faceva esperienza della propria mortalità, era alla ricerca di protezione e salvezza: e quelle immagini rispondevano a tali esigenze e, prese alla lettera sia dalle autorità religiose che dai semplici fedeli, hanno dato consolazione e speranza a generazioni e generazioni di uomini e di donne. Ma oggi?
Oggi penso che sia necessario dire con chiarezza che quelle immagini non ci danno alcuna vera conoscenza, non offrono informazioni oggettive sulla realtà divina [6]. Se il linguaggio delle immagini e dei simboli sarà ancora usato da tanti fedeli [7], bisognerà costantemente ricordare loro che le parole umane sono sempre inadeguate per parlare di Dio. Il valore puramente simbolico delle nostre rappresentazioni di Dio è stato messo efficacemente in rilievo, per esempio, già mezzo secolo fa dal noto teologo protestante Kaufman – ma oggi simili tesi sono comuni anche tra i teologi cattolici – mediante la distinzione di due termini di riferimento per la parola ‘Dio’: uno accessibile, l’immagine costruita dall’uomo mediante le metafore del linguaggio religioso, e uno reale, che resta inevitabilmente misterioso.
È solo grazie al termine di riferimento accessibile che Dio influisce sulla vita dei credenti, mentre «il vero termine di riferimento che corrisponde a ‘Dio’ non ci è mai accessibile, come non è offerto alla nostra osservazione o alla nostra esperienza. Esso deve restare sempre un X sconosciuto, una semplice idea-limite senza contenuto. Ciò consegue dal fatto che Dio trascende la nostra conoscenza secondo modi e forme che non conosceremo mai e di cui non abbiamo neanche alcun sospetto» [8]. Queste idee, che possono sorprendere la massa dei fedeli, in realtà erano già ovvie per i più grandi teologi del passato che, pur imprigionati in una concezione, ormai insostenibile, della rivelazione – grazie alla quale si illudevano di cogliere per fede addirittura la struttura trinitaria della realtà divina – riconoscevano che con le nostre forze non potremmo dire nulla di Dio. Basti qui ricordare, per esempio, le ripetute affermazioni di Tommaso d’Aquino sulla inconoscibilità di Dio: «l’ultimo passo della nostra conoscenza di Dio è nel conoscere che non lo conosciamo» (De Potentia q. 7, a. 5 ad 14m.); «giunti al termine della nostra conoscenza, noi conosciamo Dio come inconosciuto» (In Boëtium de Trinitate q. 1, a. 2 ad lm) [9].
Se, allora, non c’è una rivelazione divina e se la ragione umana non può dire nulla di ciò che trascende il mondo dell’esperienza, non resta altro che l’ateismo? Non credo. Penso, infatti, che affermare che non c’è nulla al di là di ciò che la ragione può comprendere sia una posizione altrettanto dogmatica di quella di chi parla di un essere personale trascendente o di chi identifica il divino con la natura, ritornando alle vecchie concezioni immanentistiche e panteistiche. Se si riconoscono i limiti della ragione umana, credo che si apra uno spazio per la fede, intesa non come accettazione di verità rivelate ma come fiducia, nonostante tutte le smentite della storia, nella possibilità che il mondo e la vita umana abbiano un senso [10]. Perché non rinunciare a ogni dogmatismo, rispettare la plausibilità di diverse ipotesi e vivere e operare ispirandosi a quella in cui ciascuno si sente più a proprio agio, ricordando con Pascal che «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce» (I pensieri 277) [11]? Forse è questa la posizione più ragionevole che i cristiani potrebbero adottare: prendere coscienza del fatto che viviamo in un momento di svolte epocali, che impongono la rinuncia a millenarie certezze: non solo a una serie di dogmi privi di fondamento biblico ma alla stessa immagine di Dio offerta dai vangeli, quella di un Signore onnipotente e Padre misericordioso da cui attendere salvezza e a cui rivolgersi con la preghiera, tema da cui abbiamo preso spunto per questa lunga riflessione.
Credo, perciò, che abbia ragione R. Panikkar quando afferma che, se la nostra epoca non possiede ancora gli strumenti intellettuali necessari per una nuova formulazione di quella che siamo abituati a chiamare esperienza religiosa, è tuttavia certo che non è credibile, «non è sufficiente il Dio delle religioni così come esse ce lo rappresentano, non è sufficiente l’assoluto dei filosofi, né il limite indefinito degli scienziati o l’orizzonte indescrivibile dei poeti» (Il silenzio del Buddha, Milano 2011: 249), e perciò, mentre continuiamo a impegnarci nella ricerca utilizzando tutte le risorse offerte dalla filosofia, dalla scienza e dal ricco patrimonio sapienziale dell’umanità, dobbiamo intanto convincerci «della necessità di una purificazione e riforma dell’idea stessa di Dio. Forse la parola stessa deve essere sostituita» (ivi: 248).
Sì, sarebbe meglio abbandonare la stessa parola, che appare consumata da secoli di fraintendimenti e di abusi, e porre fine alla sterile disputa tra chi crede che ci sia e chi crede che non ci sia qualcosa di cui non sappiamo nulla. Quanto più si diventa consapevoli dei nostri limiti, tanto più sarà facile evitare, da una parte, la riduzione dell’esperienza mistica, testimoniata dalle varie tradizioni religiose, a illusione allucinatoria e, dall’altra, la sprezzante condanna dell’ateismo. Ecco, forse questo oggi ci si può augurare che facciano, in particolare, i cristiani: riconoscendo di avere usato in passato troppe parole, imparare a tacere davanti al ‘mistero’ – del resto questo termine deriva dal verbo myein che significa proprio ‘tacere’ – e impegnarsi ad agire, ispirandosi all’esempio di Gesù di Nazareth, per rendere questo mondo un po’ più umano.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] Ulteriori informazioni su tale problematica in E. Rindone, L’ispirazione della S. Scrittura dal Vaticano I al Vaticano II, Palermo 1982.
[2] Traccia di questa esperienza originaria si trova anche nel Nuovo Testamento: «Dio è luce e in lui non ci sono tenebre» (Giovanni 1, 5) e ancora nel Credo cristiano, che afferma che Gesù è «Dio da Dio, Luce da Luce». Basandosi sull’etimologia del termine, uno scrittore contemporaneo rilegge così il Credo: «Credo in una sola Luce […]. Credo in Gesù Cristo, figlio della Luce» (G. Squizzato, Il Dio che non è “Dio”. Credere oggi rinunciando a ogni immagine del divino, Verona 2013: 54).
[3] Anche Raimon Panikkar afferma che «Theós è semplicemente un nome generico, che indica un evento, un evento divino. Con il diffondersi del cristianesimo, il termine generico – proveniente da ambiente ‘politeista’ – fu attribuito al padre di Gesù di Nazaret, nella versione greca e latina (theós, deus). [E così, col tempo,] il nome comune ‘dio’ finì con l’assumere la funzione di nome proprio di Dio per antonomasia» (R. Panikkar, Il silenzio del Buddha, Milano 2011: 189).
[4] Comune anche ad altre tradizioni religiose: a Roma, per esempio, Iuppiter è il nome latino di Giove, risultante, come il suo corrispondente sanscrito Dyaus-pitar, dai termini dius (giorno) e pater (padre).
[5] Idee simili si trovano anche nella letteratura pagana, senza che mai sia venuto in mente di prenderle alla lettera. In Ovidio, per esempio, leggiamo: «Nacque l’uomo […] plasmato dal figlio di Giàpeto [Prometeo], a immagine di dèi / che tutto reggono, impastando con acqua piovana / la terra recente» (Metamorfosi libro I).
[6] Fuori dell’ambito cattolico si scrive da tempo senza timore, a proposito di Jahvé, che «resta sino alla fine essenzialmente una creazione dell’immaginazione poetica, non controllata da un’analisi critica sistematica. Non c’è quindi da stupirsi che nei miti, negli inni, nelle preghiere, nelle profezie e nelle storie della Bibbia si trovino eccessi e illogicità di ogni tipo; è molto più sorprendente costatare che un discorso così metaforico possa essere preso per la descrizione letterale di un essere divino al quale ci sarebbe domandato di credere» (G. D. Kaufman, La question de Dieu aujourd’hui, Paris 1975: 220, nota 6).
[7] Ancora a lungo sarà difficile rinunciarci, perché l’alternativa di un assoluto silenzio appare temibile ai più: infatti, «se cerchiamo di epurare il nostro concetto di Dio da tutti i predicati che non possono essergli attribuiti con precisione letterale, il concetto stesso tende a svuotarsi di ogni contenuto [… e] per molti e, forse, il più delle volte, per tutti, non potrà assolvere nella vita religiosa a quelle funzioni che erano svolte da analogie e immagini» (F. C. Copleston, Religione e filosofia, Brescia 1977: 124).
[8] G. D. Kaufman, op. cit.: 114. E già un secolo fa il domenicano Sertillanges, riecheggiando una lunga tradizione, metteva in guardia contro il pericolo di scambiare Dio con l’idea che ci facciamo di lui, perché, «divenuto verità in noi, non è più allora il vero Dio, e il pensiero non si indirizza che a un idolo» (A.-D. Sertillanges, Les grandes thèses de la philosophie thomiste, Paris 1928: 68). Secondo J. Pohier, anch’egli domenicano, i credenti dovrebbero perciò stare in guardia: «Proiettare i propri schemi su Dio, progettare un Dio per poterselo appropriare, per poter fare se stessi Dio, ecco ciò che apparirà ben presto come il rischio fondamentale dell’illusione religiosa. [...] Appartiene dunque alla fede lottare perpetuamente contro questa illusione oggettivante del Tutt’Altro» (J.-M. Pohier, Au nom du Père. Recherches théologiques et psychanalytiques, Paris 1972: 34-35).
[9] Anche chi, come l’Aquinate, pensa che, perché l’esistenza degli esseri contingenti non appaia contraddittoria, si debba ammettere un essere assoluto, un Ipsum esse subsistens, sa che di questo essere non possiamo dir nulla, perché totalmente diverso da tutto ciò che conosciamo. La ragione, infatti, può dire che Dio è, non che cosa è (Cfr. Somma teologica I, 12, 12), perché l’oggetto proporzionato alla nostra intelligenza è la realtà sensibile, e quindi i nostri concetti, come ‘bellezza’ o ‘bontà’, e persino la nozione di ‘essere’, riferendosi in senso proprio alle creature, non possono essere applicati a Dio. È vero che quei concetti possiamo usarli in maniera analogica, ma neanche per via analogica, come ribadisce il Gilson, conosciamo Dio: «partendo dall’essere, non si può in effetti arrivare che a dell’essere, ed è ciò che si fa ponendo Dio come l’Essere, puramente e semplicemente. È naturale che degli spiriti non metafisici credano di formarsi con ciò un concetto positivo di Dio, ma poiché noi lo poniamo come supremo in una linea che parte dalla creatura, Essere è ancora per Dio un nome di creatura» (Constantes philosophiques de l’être, Paris 1983 : 207-208). Tommaso, del resto, riecheggia una lunga tradizione. Scoto Eriugena, per esempio, quattro secoli prima di Tommaso scriveva: Dio «si conosce meglio non conoscendolo; l’ignoranza di lui è vera sapienza» (Scoto Eriugena, De divisione naturae I, 510b).
[10] Secondo Carlo Molari, con la parola Dio si vuol significare «la Verità che cerchiamo in ogni nostra conoscenza, il Bene che vogliamo in ogni atto di amore, la Giustizia che perseguiamo in ogni nostra decisione, tutti quei valori, cioè, che sono la ragione costante delle nostre tensioni e che cogliamo presenti nelle situazioni storiche, anche se mai perfettamente realizzati in esse» (C. Molari, La fede e il suo linguaggio, Assisi 1972: 47).
[11] Se quella dell’ateo, che scommette sull’autosufficienza del mondo, è una scelta, lo è anche quella del credente. Ed è una decisione che non riguarda solo la ragione ma investe «l’uomo intero nella sua vitale concretezza di spirito e corpo, ragione e istinti, nella sua ben precisa situazione storica, nella sua dipendenza da tradizioni, autorità, schemi di pensiero e scale di valori, nei suoi interessi personali e nelle sue relazioni sociali» (H. Küng, Essere cristiani, Milano 2011: 94).
______________________________________________________________
Elio Rindone, docente di storia e filosofia in un liceo classico di Roma, oggi in pensione, ha coltivato anche gli studi teologici, conseguendo il baccellierato in teologia presso la Pontificia Università Lateranense. Per tre anni ha condotto un lavoro di ricerca sul pensiero antico e medievale in Olanda presso l’Università Cattolica di Nijmegen. Da venti anni organizza una “Settimana di filosofia per… non filosofi”. Ha diverse pubblicazioni, l’ultima delle quali è il volume collettaneo Democrazia. Analisi storico-filosofica di un modello politico controverso (2016). È autore di diversi articoli e contributi su Aquinas, Rivista internazionale di filosofia, Critica liberale, Il Tetto, Libero pensiero.
_______________________________________________________________