Non sappiamo se sono gli uomini che parlano la lingua o – come sostiene Roland Barthes – è la lingua che parla gli uomini. Non sappiamo se esiste il mondo solo in quanto costruito dalle categorie linguistiche. Probabilmente è un mito tutto hegeliano l’idea che i segni che stanno per le cose siano essi stessi le cose in sé, ovvero che la realtà sia soltanto quella che pensiamo, organizziamo e articoliamo nelle forme del linguaggio. Sappiamo però che la lingua costituisce per eccellenza il logos, lo strumento che ordina e struttura il cosmos, il luogo di sedimentazione e di evidenza fisica dei fenomeni mentali e delle rappresentazioni culturali. In quanto tale la lingua che adoperiamo è una spia implacabile del nostro tempo, una cartina di tornasole del nostro stile di vita, se è vero che il modo in cui ci esprimiamo, certi tic verbali, certi usi lessicali, certe formule ricorrenti, rivelano molto più del semplice carattere di un individuo, molto di più della identità di persone o gruppi, interpretando e veicolando lo spirito collettivo di intere comunità, il senso comune di una società, il milieu di un’epoca.
Chiarito il senso del rapporto esistente tra lingua e società, un rapporto al tempo stesso speculare e formativo del linguaggio rispetto al pensiero, si può comprendere meglio il nesso che passa tra capacità semantica e vita civile, si può meglio spiegare perché tra la lingua che parliamo e la realtà che abitiamo esiste un inestricabile ordito di corrispondenze, di analogie, di simmetrie. L’una e l’altra appaiono avviluppate in un corpo a corpo di reciproche influenze. Se la lingua non è solo rappresentazione ma anche produzione di realtà, non sua semplice descrizione ma anche veicolo, proiezione e costruzione di una visione del mondo, allora la sciatteria linguistica che oggi imperversa sulle nostre forme del comunicare è segno inequivocabile dell’approssimazione e della sciatteria culturale che domina le nostre relazioni sociali, le nostre abitudini quotidiane, le nostre ideologie e i nostri pensieri. Lo spread non è soltanto economico ma soprattutto culturale, linguistico. L’italiano slabbrato e zoppicante che articoliamo in una sintassi sempre più grigia e opaca è altro e non meno significativo indice della generale decadenza civile e culturale della comunità nazionale.
Almeno tre libri si segnalano in questi ultimi anni per aver posto all’attenzione la questione del degrado linguistico quale malattia sociale e culturale che opprime il nostro Paese. Si tratta di piccoli pamphlet che nel sottolineare le degenerazioni del lessico politico ci dicono che la crisi che attraversiamo comincia da qui, dall’impoverimento delle nostre facoltà linguistiche, dal pigro e passivo ripiegamento verso gli esiti di una lingua omologata e standardizzata, una medietà senza qualità con cui ci siamo rassegnati a convivere. Gianrico Carofiglio è autore del saggio La manomissione delle parole (Rizzoli Milano 2010), in cui si riflette su alcune parole chiave del vocabolario civile, oggi logorate e manipolate, usurate e tradite, nel loro significato originario. La stessa operazione compie Gustavo Zagrebelsky in Sulla lingua del tempo presente (Einaudi Torino 2010), il quale passa in rassegna una serie di luoghi comuni linguistici che imperversano attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Graziella Priulla, infine, ha pubblicato Riprendiamoci le parole (Di Girolamo Trapani 2012), un’analisi puntuale e partecipe del sistematico oltraggio e della violenta torsione esercitata sul linguaggio da parte del potere politico.
«Le parole sono come le persone: fragili e preziose. Anche loro possono ridursi all’anoressia, svuotate dall’assenza di elaborazione, o gonfiarsi nella bulimia, ingozzate di significati perversi». Così scrive la Priulla, consapevole che le parole definiscono l’orizzonte nel quale viviamo, dal momento che noi siamo le parole che usiamo. C’è una forte connessione tra le qualità delle forme di comunicazione e la qualità della cultura politica di un Paese. Se l’estetica è la cartina di tornasole dell’etica, lo stato di salute della lingua è indizio delle concezioni etiche ed estetiche di tutta una comunità. Più il brutto diventa consueto, usuale, quotidiano, meno sembra brutto: vale per i paesaggi e vale per i discorsi. Ci siamo abituati alle battute al posto dei ragionamenti, alle invettive al posto della dialettica civile.
Come in uno specchio rovesciato la moralità è scambiata per moralismo, la laicità per laicismo, la giustizia per giustizialismo, il rispetto delle regole è assimilato a ingenuo buonismo, la libertà si confonde con il più selvaggio liberismo. E così molte parole del lessico politico sono oggetto di manipolazione, di distorsione e di inquinamento: la parola “popolo”, per esempio, diventata sinonimo di telespettatore, consumatore, coincide con la platea dell’Auditel. Gli elettori sono clienti da adescare con la logica del marketing e la comunicazione politica adotta i modelli degli spot pubblicitari. Le campagne elettorali assomigliano ai consigli per gli acquisti. In questa interpretazione populistica della parola è perfino possibile inventare l’esistenza di un popolo immaginario, quello padano.
A guardar bene, non sono i forestierismi a minacciare l’integrità della lingua italiana, non sono le debolezze nell’uso del congiuntivo quanto l’abuso delle frasi fatte, delle formule stereotipate, di quella peste del linguaggio da cui ci metteva in guardia già negli anni Ottanta Italo Calvino, quando scriveva che «l’italiano sta diventando una lingua sempre più astratta, artificiale, ambigua: le cose più semplici non vengono mai dette direttamente, i sostantivi concreti vengono usati sempre più raramente. Questa epidemia ha colpito per primi i politici, i burocrati, gli intellettuali, poi si è generalizzata con l’estendersi a masse sempre più larghe d’una coscienza politica e intellettuale». Oggi si corre il rischio che tra ciò che si dice, ciò che si pensa e come stanno realmente le cose si apra una stridente e insanabile dissociazione. Carofiglio ci ricorda che «la progressiva perdita di aderenza delle parole ai concetti e alle cose è un fenomeno sempre più diffuso, in forme ora nascoste e sottili, ora palesi e drammaticamente visibili». Da qui l’imbarbarimento del linguaggio pubblico, la corruzione e la manipolazione dei significati, l’invenzione di una neolingua acriticamente accettata che finisce con l’esercitare una sorta di “dittatura simbolica”.
Quando diventa politicamente corretto «il dileggio, l’aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità, la semplificazione, fino alla banalizzazione, dei problemi comuni» (Zagrebelsky), allora è in tutta evidenza compromessa alla radice la nostra stessa democrazia, il vivere civile, l’elementare dialettica della comunicazione. Il potenziale totalitario delle parole può produrre un uso della lingua come randello, clava da brandire, arma da scagliare. Le parole possono lenire ma possono anche ferire. Si pensi, per fare un solo esempio, alla parola “rottamazione”, entrata recentemente nel lessico politico, che evoca in sé non tanto la legittima critica alle idee ma il disprezzo e l’aggressione alle persone. «La lingua unn’avi ossa ma rumpi l’ossa» ci ricorda un vecchio proverbio siciliano. Le parole sono atti e i vocaboli non sono mai neutri né innocenti. La verità è che la democrazia si regge su un’architettura linguistica la cui la grammatica è garanzia di equilibri da rispettare e di responsabilità da assumere. Alla base di qualsiasi ordinamento democratico ci sono infatti la libera circolazione delle idee e il più ampio e corretto possesso degli strumenti della comunicazione.
«Il numero di parole conosciute e usate – ha scritto Gustavo Zagrebelsky – è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia. Più parole si conoscono più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica». In fondo, quando non troviamo le parole per dire quello che pensiamo, quando il lessico è prosciugato e depauperato, è perché il pensiero è prosciugato e depauperato. «Quando manca la capacità di nominare le cose e le emozioni, manca un meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e sui noi stessi» (Carofiglio). I giovani che soffrono di afasia, che abitano la lingua con disagio e disamore, sono quelli che più frequentemente ricorrono alla violenza fisica.
La democrazia è dialettica e confronto e lo strumento privilegiato di questo dialogo sono le parole, che sono essenziali risorse pubbliche, beni comuni, perché – ci ricorda Graziella Priulla – «sulle parole e sul loro retto uso si fonda la nostra forma di convivenza sociale, la democrazia». Un popolo che parla una lingua inaridita da slogan o retoriche è un popolo senza diritti e senza polis. In quanto prezioso patrimonio culturale e civile le parole come le piante vanno dunque coltivate, come le persone vanno curate, come i monumenti vanno restaurate. Con l’amore e la pazienza degli artigiani, per restituire senso a quello che diciamo e dignità a quello che pensiamo. Perché «l’uomo non ha che le parole per dire anche quello che le parole non sanno dire» (Labou Tansi).