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Sebastiano Tusa, la memoria del mare

Sebastiano-Tusa

Sebastiano Tusa

di Ninni Ravazza

Con Sebastiano Tusa la Sicilia ha perduto un suo ambasciatore nel mondo della cultura. Pensando a lui mi vengono in mente Leonardo Sciascia, Nino Buttitta, Vincenzo Consolo. Perdite enormi. Nel caso di Sebastiano ancor più tragica perché aveva ancora una vita davanti.

Non sono la persona giusta per magnificarne le doti di scienziato dell’archeologia a tutto tondo, ma su un aspetto particolare della sua carriera professionale ritengo di poter dire qualcosa. Scontata certamente, banale forse, ma spero in grado di aggiungere un tassello alla sua vita ricca di scoperte e successi.

Mi piace qui ricordare il Sebastiano sommozzatore, armato di bombole e pinne per andare a vedere personalmente i tesori conservati dalle profondità marine, per studiare in loco i resti degli antichi naufragi, per verificare direttamente senza il tramite delle foto e dei filmati le sue teorie. E dove non poteva scendere di persona per l’alta profondità, mandava giù un robot teleguidato che restituiva in diretta le immagini riprese sul fondo a 80, 100, 150 metri …

È stato così che Sebastiano Tusa ha scritto le pagine più belle della sua avventura professionale, la scoperta del luogo preciso dove nel marzo del 241 a.C. si combatté la battaglia navale più famosa dell’antichità, quella tra Romani e Cartaginesi. Perché Sebastiano era sì un grande archeologo, ma soprattutto un grandissimo amante dell’universo-mare, studiato, investigato, ascoltato per sentirne le storie. Vincenzo, suo padre, fu il massimo protagonista dell’archeologia nella Sicilia occidentale quando ancora le Soprintendenze isolane erano due e si dividevano il territorio, una a oriente e una a occidente; Sebastiano è stato il Soprintendente unico del Mare, fondatore di una inedita esperienza scientifica e amministrativa, un uomo a capo della ricerca sottomarina nei fondali della nostra Isola.

La Soprintendenza del Mare, la decima in Sicilia, fu una sua creatura, desiderata, voluta, fors’anche imposta a una politica spesso a disagio davanti alle innovazioni. Ci voleva un subacqueo archeologo per darle vita. Credo si tratti di una istituzione unica in tutte le regioni italiane. Una perla regalataci da Sebastiano. Speriamo che la sua morte non la trasformi in vetro senza valore.

1Io ho conosciuto il futuro soprintendente del mare tanti e tanti anni fa. Eravamo a Trapani davanti alla torre di Ligny, ultimo baluardo della terra sicula protesa verso il tramonto. Credevo di essere un esperto di ancore romane in piombo perché ne avevo viste tante sott’acqua nelle mie ricerche di cernie e saraghi; mi chiese se per caso avessi visto degli astragali nelle loro marre. Capii subito che di ancore io non ne capivo niente.

Era giovanissimo allora Sebastiano. Anche io, avevamo la medesima età, nati nel 1952 entrambi. Sbattermi in faccia la mia ignoranza non me lo rese particolarmente simpatico. Anni dopo ci incontrammo ancora a San Vito lo Capo per una serata dedicata a relitti pirati affondati nel 1526 davanti alla spiaggia, e non fu tenero con me che con le mie fotografie avevo invaso le stanze del suo piccolo museo del mare ospitato nei locali del Comune. Aveva pienamente ragione, ero stato poco corretto non chiedendogli il permesso. Forse era anche un poco rammaricato del fatto che i sommozzatori della Guardia di Finanza avessero chiamato me, giornalista e fotografo sub, per la cronaca del recupero, e non piuttosto un archeologo vero. Così le fotografie di cannoni, munizioni, petriere da mascolo, spade e pugnali le ebbi solo io. Lui partecipò alle ricerche successive, al ritrovamento di elmi e altro materiale.

Passò del tempo, lui si apprestava a divenire il punto di riferimento dell’archeologia subacquea mondiale e io continuavo a inseguire le cernie e a imbattermi casualmente in ancore e anfore antiche. Probabilmente per Sebastiano restavo il pirata che sott’acqua cercava l’arca perduta e in sua assenza si accontentava di un collo d’anfora.

Poi, pian piano, i nostri mondi cominciarono ad avvicinarsi. Lui cresceva come scienziato della storia e diventava ogni giorno più bravo ad andare sott’acqua, io piano piano crescevo quale appassionato studioso delle cose che il mare mi mostrava. Cominciammo a incontrarci sempre più di frequente in occasione di conferenze e convegni. Il trait d’union fu la bravissima Valeria Li Vigni, sua moglie, antropologa e già direttrice di splendidi musei come il D’Aumale di Terrasini e il Pepoli di Trapani.

Ritengo che la comune passione per le immersioni sia stata fondamentale per trasformare l’iniziale diffidenza in affetto e stima reciproci.

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Sebastiano Tusa e uno dei rostri ritrovati

Sebastiano Tusa sapeva benissimo che alla base di quella che credo sia stata la sua scoperta più eclatante – il luogo della battaglia delle Egadi – ci fosse in fondo l’attività piratesca dei primi grandi subacquei siciliani, il palermitano Cecè Paladino e il marettimaro Nitto Mineo, che agli inizi degli anni ‘60 dello scorso secolo a ridosso delle falesie dell’isola di Levanzo ritrovarono una quantità enorme di ceppi di ancora in piombo: l’ancoraggio della flotta romana agli ordini di Caio Lutazio Catulo, in attesa delle navi cartaginesi che si erano fermate all’isola di Marettimo al comando di Annone.

L’intuizione del Soprintendente, coniugata con l’esperienza dei pescatori trapanesi che a nord ovest dell’isola di Levanzo appellarono “mare ‘quartare” (“quartara” = brocca, vaso, recipiente per liquidi) quella zona ove era facile recuperare tra le reti anfore e vasellame antichi, e corroborata dall’impiego dei Rov, i mini sommergibili teleguidati, portarono alla individuazione del luogo dell’epica battaglia navale. Così la storia fu riscritta da Sebastiano Tusa, che confermò le cronache di Polibio: non in mezzo alle isole Egadi, ma a nord ovest di Levanzo Roma piegò Cartagine ponendo fine alla prima guerra Punica.

Dai fondali dello scontro tra le flotte emersero le micidiali armi da guerra delle navi, i rostri impiegati per affondare gli avversari. Fino alla scoperta di Tusa nel mondo se ne conoscevano solo due di rostri romani: uno era conservato nel Museo di Athlit (Israele) e veniva considerato un unicum nonostante l’iconografia ne attestasse la frequente utilizzazione; un altro era stato sequestrato nello studio di un professionista trapanese. Proveniva anch’esso dal “mare ‘quartare” ed era finito tra le maglie di una “paranza”, la rete a strascico. Oggi i rostri recuperati dalla Soprintendenza del Mare sono più di dieci, e altri ne sono stati individuati. Quello di Athlit ha perduto il suo valore originario di reperto unico, e quelli di Levanzo costituiscono un vanto per la ricerca e un richiamo fortissimo per il turismo colto e desideroso di vedere con gli occhi ciò che la storia ci ha tramandato. Senza Sebastiano tutto questo non sarebbe stato.

Ogni nuovo incontro fu occasione di confronto tra noi; lui profondo conoscitore della storia era interessato alle storie che avevo appreso negli anni trascorsi sulle barche di pescatori e tonnaroti. Ci vedevamo spesso al Museo Pepoli perché a quel tempo la mia collaborazione con la direttrice Valeria Li Vigni era frequente e oltremodo fattiva. Non solo tonni e tonnaroti, ma anche la pesca del corallo e gli uomini che sfidavano le profondità per raccoglierlo erano gli argomenti principali dei nostri colloqui.

Di sfide tutte vissute sopra e sotto il mare parlammo insieme al castello Grifeo di Partanna, dove mi invitò a presentare il suo libro Euploia; fui molto commosso e onorato per l’invito, ora davvero sapevo di poter contare sulla sua stima. Empatia tra subacquei, ma non solo. Il professionista della storia che si affidava alla buona volontà di un amateur che della passione per il mare aveva fatto una ragione di vita.

3Nel frattempo insieme avevamo scritto rispettivamente la prefazione e la postfazione del libro Mediterraneo. Levanzo di Girolamo Lo Verso, amico comune e ovviamente subacqueo anche lui. Altro riconoscimento dell’affettuosità che ci legava. Ma il regalo più bello, quello di cui non gli sarò mai abbastanza grato, Sebastiano Tusa me lo fece nell’estate di due anni addietro, quando per impegni istituzionali non poté partecipare al Convegno su “Favignana, l’isola del tonno” tenuto allo stabilimento Florio di Favignana, dove avrebbe dovuto tenere la prolusione. Io non ero tra i relatori ma lui mi chiese di aprire i lavori in vece sua. Per me fu motivo di grande orgoglio e soddisfazione. Io, umile autodidatta della storia degli uomini di mare, invitato a sostituire il maestro. Ho cercato di meritare la sua fiducia, come si usa tra subacquei.

È scomparso troppo presto Sebastiano. Da assessore regionale ai Beni culturali, vanto di un governo che non ha molte altre cose di cui vantarsi, avrebbe fatto certamente tantissime cose meravigliose per la nostra Sicilia. Le sue idee, la credibilità che l’accompagnava chiunque fosse l’interlocutore, la caparbia volontà di salvare l’Isola dall’oblio culturale, la capacità di tradurre in fatti i progetti, ne avevano già fatto il protagonista assoluto della politica intellettuale della Sicilia.

Il Fato non gli è stato amico. Un grande compagno di immersioni se n’è andato, non sarà facile trovare chi lo sappia sostituire.

Dialoghi Mediterranei, n. 37, maggio 2019
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Ninni Ravazza, giornalista e autore di diversi volumi sul mare e la sua cultura, è stato per 14 anni il Presidente della Pro Loco di San Vito lo Capo, che ha organizzato col Comune il Cous Cous Fest. Nell’ambito della manifestazione ha tenuto diversi Laboratori del gusto dedicati all’antropologia della pesca e alla gastronomia tradizionale legata ai prodotti del mare siciliano. Ha scritto di salinari, di  tonnaroti e di corallari. Le ultime sue pubblicazioni sono dedicate rispettivamente al noto capitano d’industria Nino Castiglione, Il signore delle tonnare, fondatore della omonima ditta, e alla tonnara di San Vito lo Capo: San Vito lo Capo e la sua Tonnara. I Diari del Secco, una lunga storia d’amore.
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