di Luigi Lombardo e Nino Privitera
«Folle banderuola / folle banderuola del mio cuore / che giri, giri, giri con il vento / sul tetto rosso del mio amore. Folle banderuola / folle banderuola segnatempo / che giri con il sole, con il lampo / sul tetto rosso del mio amor».
Si tratta, come ricorderanno i più adulti, di una famosa canzonetta di Mina, che rende plasticamente uno sbandamento d’amore, segnato da una banderuola mossa da un vento anomalo e insensato: la passione. Per il resto, da epoca immemorabile, le banderuole hanno svolto il loro compito di anemoscopio, asta di metallo che regge una placca sagomata a forma in genere di bandiera (da cui il nome), spesso a forma di animali o di angeli.
Le ritroviamo ancora oggi poste sul comignolo delle case, il più delle volte sul culmo di un edificio civile o religioso a segnare la direzione del vento, le mutazioni del giorno, i possibili svolgimenti della meteorologia locale.
Usata anche dagli scrittori per indicare, appunto, particolari momenti della giornata, la banderuola rende bene i cambiamenti del tempo, come il mutare brusco, più o meno utilitaristico, di atteggiamenti e comportamenti umani. Scrive Verga: «Il mare era in tempesta, il tuono scuoteva il castello dalle fondamenta, la grandine scrosciava impetuosamente sui vetri, e le banderuole dei torrioni gemevano ad intervalli»; o D’Annunzio: «Si chiarì nel sole la forma di un giumento che portava in bilico
Più spesso gli scrittori, ma anche la gente comune, si servono dell’immagine della banderuola per indicare una persona volubile: «Non faresti nulla di buono con quell’uomo! una bestia! una banderuola!» (Verga); «Se vuoi venire alla Scuola Normale o càstrati o schiàcciati, o fatti banderuola a tutti i venti, o vieni per imparare a soffrire e a odiare» (Carducci);
«La banderuola sul campanile, sebbene fatta di ferro, sarebbe presto infranta dal vento di tempesta, se non comprendesse la nobile arte di volgersi ad ogni vento!» (Heine); e da ultimo il poeta Montale rende il valore segnico in tutta la sua completezza, riconducendola allo scorrere inesorabile del tempo: «Ma s’allontana / la casa e in cima al tetto la banderuola / affumicata gira senza pietà».
La banderuola era ed è un po’ nell’immaginario il simbolo del tempo stesso, del suo inesorabile trascorrere, che tuttavia declina verso l’immutabilità, poiché ogni giorno quel movimento indotto dal vento si ripete, si perpetua, diverso ma costante. La banderuola misura il tempo, lo segmenta e per questo lo eternizza, rendendo familiare l’assurdo, ma necessario, scorrere del tempo. Spia del vento e del tempo, la banderuola è la garanzia che una corretta lettura del suo posizionamento in un dato momento della giornata, può significare una esatta gestione del lavoro futuro.
Le “previsioni del tempo” oggi appassionano poco la gente, convinta che l’esattezza della meteorologia sia un dato di fatto, salvo a constatare quanto spesse volte le “previsioni” siano fallaci specie a livello locale, dove una particolare esposizione ai venti, al caldo o al freddo, a fonti di umidità, determinano errori, inevitabili.
Ecco perché nei paesi ancora si continua a guardare con attenzione quell’asta figurata sul cimale di un edificio, che indica la direzione del vento, e dunque lo svolgersi del tempo meteorologico. Ecco che allora, come oggi la comunità più tradizionale s’arragghiuna cchê vienti (si regola col vento).
Vengono chiamate in dialetto locale (area iblea) ora palieddi, ora iaddi, mentre nel modicano troviamo la forma scattìu, che si riferisce a una banderuola sonora che serviva anche a scacciare gli uccelli dai granai. Icona del vento e dunque del tempo stesso, inteso in senso meteorologico, era costruita anche di povere canne dai contadini a cui era utile per lo svolgimento dei lavori agricoli, governati dal cielo, dalle nuvole e dai venti, che segnalavano il tempo propizio per ogni fase dell’annata agricola.
Essenziale era per chi lavorava la terra in campagna la conoscenza dei venti: oltre ad osservare il cielo al tramonto, all’alba o a mezzogiorno, oltre ad aspettare a mezzanotte l’entrata degli equinozi e dei solstizi, il contadino si regolava spiando il vento d’unni mina (da dove spira). E ogni piccolo movimento era annuncio di tempo che variava.
Lavori agricoli e vento (metafora del tempo) sono legati intrinsecamente: si diceva per esempio sciroccu e-llivanti inci u vacanti, cioè i due venti umidi da est portano pioggia; mentre quando soffiava il libeccio si ripeteva: limpici: nenti fici. Quando soffiava il ponente, niente pioggia: punenti, acqua nenti / ma suddu s’ancagna /tuttu vagna (ma se s’imbroncia tutto bagna).
Il vento di levante è pericoloso: livanti è-llupu; oppure Livanti ci-ammazzà i vacchi a Bradamanti (a ricordare un episodio minore dell’Opera dei pupi). La uoria (borea) è vento umido e freddo di nord est, d’inverno è fastidioso: Uoria fina fina / setti iorna e na matina, ma d’estate lo stesso vento è fresco e ristoratore. In estate, se soffia a uoria sull’aia, il pisaturi respira e ringrazia il Signore, perché Uoria mina / sira e-mmatina! Con certi venti non si poteva andare né a caccia né a pesca: Cca prurenza e u maistrali / nun piscari né cacciari (sono due venti freddi e umidi da nord-nord ovest). Quando il grano ingrana un buon vento è gradito: Acqua e-bbientu fa frummientu / acqua e-ssuli fa-llauri.
Ogni paese ha in verità i “suoi” venti che chiama con nomi diversi da altri centri: a Buccheri (SR) la rosa dei venti è composta da 21 venti detti venti soprani (da nord; anche vienti i n-capu) e venti sottani (da sud anche vienti i sutta). Mentre a Palazzolo Acreide prevale la distinzione tra venti propizi (latini) e venti turbanti: i primi sono normali e danno garanzia di regolarità; i secondi sono turbolenti e scostanti. I venti sottani sono: sciroccu, limpici, livanti, nuticianu: sono venti poco graditi perché molli e appiccicaticci. In particolare insopportabile risulta ai Palazzolesi il vento chiamato u nutiçianu, che sostanzialmente è il vento di mezzogiorno (u menziornu), non solo per una ovvia componente meteorologica (in quanto sciroccoso e umido), ma perché spira da un paese, Noto, chiaramente (un tempo) inviso ai Palazzolesi veraci per via della estensione di un territorio, che arriva alle porte di Palazzolo.
Il levante è incostante e strapazzone e porta u tiempu tintu, cioè cattivo e piovoso, specie in tempo di semina, che dura a volte anche quindici giorni. Fanno da contraltare i “venti soprani”, che a Palazzolo prendono nomi locali assai suggestivi, come u muncipiddisi, la tramontana, che soffia direttamente dall’Etna (chiamato muncibbeddu) e porta frigidità, freddo intenso e costante; oppure u Bucchirisi, gelido e asciutto, proveniente dalla Piana di Buccheri. Il vientu i supra è il ponente, un vento secco, ma in inverno risulta freddo per quanto asciutto, mentre in estate accentua viepiù la calura. Sotto il ponente è il muricanu, detto anche muricanazzu, ormai vicino ai venti umidi di mezzogiorno, dunque appiccicoso e umido.
Tra i venti “di sotto” si situa u vientu re scugghiunati, il vento degli “scoglionati” cioè degli erniosi, perché questo vento, che spira da Noto (u mienzuiornu), secondo la credenza popolare, acuisce le affezioni degli erniosi (scugghiunati appunto). Per la verità, il motivo è assolutamente polemico: a Palazzolo, per antica rivalità, i Noticiani sono chiamati bbaddusi, che equivale a dire erniosi (scugghiunati). Sembra che l’origine effettiva sia la quantità di bambini erniosi, o reputati tali, che affollavano la vara (fercolo) di S. Corrado, patrono di Noto, chiamata perciò a vara rê picciriddi.
I venti che la banderuola segnala ed evidenzia regolavano, dunque, i lavori agricoli: se si può seminare benissimo coi venti i sutta (scirocco e levante), con gli stessi non si possono innestare le vigne o gli alberi (u nzitu nunn-accarpa). Per spagliare poi si ricerca il fresco vento di borea o l’altrimenti pernicioso grecale; mentre i cosiddetti venti i n-capu (da ponente) in estate risultano secchi e caldissimi, pur tuttavia utili alla spulatura.
I venti spesso sono annunci di disgrazie specie quando soffiano forti e vorticosi: in questo caso è il segno che un dannato è morto. Si ripete ad ogni vento vorticoso: vientu forti ammazzatini e morti! o vientu trarimientu! A volte hanno il nome di qualche diavoletto dispettoso, come il mazzamarieddu, che è uno dei diavoli del corteo di Satanassu; mentre il nome di fuddittu (folletto) rinvia a un vento folle per quanto poco dannoso.
La banderuola dunque segnala questi venti che sono l’annuncio chiaro del tempo che farà. Prevedere il tempo è in certo qual modo dominarlo. Questi preziosi e utili anemografi assumono perciò varie forme che non sono mai casuali: angeli con la palma e trombettieri, animali (il gallo che simboleggia il buon risveglio, il leone la forza e il coraggio, un uccello che reca buone nuove), un santo locale (ad es. S. Giorgio che uccide il drago), la croce, la rosa dei venti, il cacciatore col cane mentre caccia, mentre a Portopalo di Capopassero, paese di mare, la banderuola raffigura significativamente un pesce spada.
Sono forme e figure che rinviano alla cultura popolare e in particolare alla funzione apotropaica svolta da alcuni simboli in rapporto all’imprevedibilità del tempo-vento. Antonino Uccello, pubblicando la prima edizione del suo Casa Museo di Palazzolo Acreide, la prima “Guida” del Museo appena nato, volle valorizzare proprio la banderuola, ponendola a emblema del libro nella sopraccoperta e nello svolgimento del testo, a sottolineare lo scorrere stesso del tempo, ma di quel tempo che tutti ci prende e ci sostanzia: il tempo mitico. La fotografia era di Nino Privitera, collaboratore di Uccello e autore di tante foto che hanno accompagnato i libri dello studioso e le mostre nella Casa Museo.
Nel corso degli anni Privitera ha continuato a fotografare banderuole, quando capitava in qualche centro della Sicilia, a sottolineare l’universalità dell’oggetto, il suo rapporto con la comunità, il suo carattere di emblema iconico di un luogo.
Si tratta di scatti che vanno dai primi anni ’70 ai nostri giorni, che mostrano anche come sia cambiato il contesto urbano e l’ambiente umano nel corso di questi anni. É una piccola, ma significativa parte del suo straordinario archivio fotografico, comprendente feste religiose, immagini del lavoro contadino e artigianale, scene di vita popolare e poi tanti ritratti di gente comune.
Una fotografia, dunque, di impegno sociale e culturale, che si propone di capire e trasmettere un mondo in continua e spesso disordinata trasformazione, che lo scatto del fotografo fissa in un attimo, un attimo che aspira all’eterno: sguardo mai compiacente o compiaciuto, sempre segnato da forte pathos emotivo e diciamo compartecipe.
Ancora oggi non sono pochi a Palazzolo quelli che, salendo o scendendo in piazza, guardano verso il palieddu della chiesa di S. Sebastiano, altissimo sulla straordinaria facciata rocaille, che segna puntuale il vento e il tempo presente e futuro, così come hanno fatto generazioni di palazzolesi al pari dei contadini di Alcamo o Ferla, Sortino, Melilli, Acireale, Catania, Palermo, da dove provengono gli scatti di Privitera.
Nonostante i tempi, nonostante non si guardi più in alto a scrutare il cielo, il trascorrere degli astri sul firmamento, le varie fasi della luna, la svariata polimorfia delle nuvole, il loro variabile atteggiarsi, la brillantezza del sole, o al contrario il suo scolorimento, annuncio di cambiamenti climatici, il famoso “occhio di capra”, o i filiformi capiddi ra maiara (segno di pioggia in atto), nonostante questo, le banderuole permangono a ricordarci lo sforzo profuso dall’uomo nel “dominio” del tempo, nel tentativo di imbrigliare in un logos comprensibile e condiviso l’asperrimo caos di un divenire, che oggi si frastaglia e si incrosta, avvitandosi in paludi ideologiche, destinate a offuscare il magnifico e progressivo “sol dell’avvenire”, che, per quanto retorico, ha spinto nel secolo scorso masse di uomini verso utopie di civiltà e mete ardimentose.
Dialoghi Mediterranei, n.32, luglio 2018
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate ha di recente pubblicato L’impresa della neve in Sicilia.Tra lusso e consumo di massa.
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Nino Privitera, fotografo professionista dal 1965. Sin dall’inizio pone al centro del suo lavoro l’uomo nei suoi molteplici aspetti (lavoro, famiglia, paesaggio). Nei primi anni ’60 si occupa della nascente classe operaia della zona industriale siracusana. Dal 1971 collabora con Antonino Uccello. Sue foto documentano quasi tutti i lavori dell’antropologo. Tra le sue opere ricordiamo Santi Patroni di Sicilia (con note alle feste di L. Lombardo), e Tradizione e devozione (testi di L. Lombardo e A. Cucuzza). Nel 2000 si reca negli Stati Uniti su invito della Wesleyan University del Connecticut, dove incontra la comunità di emigrati melillesi di Middletown e allestisce una mostra sulle feste patronali di Sicilia. Nel 2001 collabora col giornalista Ron Jenkins del New York Times per un servizio sui Pupi di Mimmo Cuticchio. Ha lo studio fotografico a Melilli, dove vive.
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