L’iniquità della distribuzione della ricchezza sul territorio mondiale solleva da tempo un dibattito che riguarda il senso profondo degli interventi di sviluppo, le loro politiche e le loro retoriche. Da un lato, lo sguardo si pone sulla dimensione neocoloniale degli aiuti ai cosiddetti Paesi terzi, dall’altro, la disciplina antropologica si rimette in discussione e affronta un discorso epistemologico e metodologico situato tra la ricerca e l’azione, specie quando chiamata in causa all’interno dei programmi delle organizzazioni non governative. Esistono, inoltre, realtà nuove e alternative, in grado di dare voce ai veri attori dello sviluppo economico locale, attraverso una formazione che sposti l’asse dalla dimensione dell’oggetto, “bisognoso di aiuto”, al soggetto, in grado di farsi da sé e autodeterminarsi economicamente.
Nel cercare di offrire una sintesi di questi aspetti, evidenzierò in modo particolare i punti che necessitano di una riflessione che ponga al centro dell’attenzione il principio per cui non si può oggi continuare a considerare il punto di vista eurocentrico come il solo possibile, specie se l’interlocutore è tutto fuorché europeo.
Le consuete campagne di sensibilizzazione nei confronti della parte povera del mondo hanno da sempre adoperato retoriche incentrate sulla dimensione della pietà, attraverso immagini forti e slogan che dovrebbero mirare al senso di colpa dell’uomo occidentale per il proprio tenore di vita relativamente agiato: è in questo modo che si raccolgono fondi da destinare ad aiuti che variano dall’acquisto di beni di prima necessità fino alle vere e proprie spedizioni per le vaccinazioni per prevenire alcune malattie infettive. L’ambito delle agenzie per la cooperazione allo sviluppo e delle Organizzazioni Non Governative (ONG) è quello che qui ci interessa per discutere il tema appena introdotto. Si tratta di agenzie che progettano piani di intervento economico destinate a innescare filiere produttive per lo sviluppo di alcune località, attraverso corsi di formazione e impianti produttivi di piccola industria o relativi al campo agricolo. Le organizzazioni progettano e mettono in piedi una macchina dello sviluppo in comunicazione con i governi locali: diverse figure professionali sono chiamate in causa durante la progettazione e, successivamente, per l’attuazione concreta dei singoli programmi.
Jean Pierre Olivier De Sardan, osservando il funzionamento dei programmi di sviluppo, ha rilevato come questi progetti siano “insiemi parzialmente incoerenti” e ciò per due ordini di ragioni: una è insita nello statuto stesso del progetto, e cioè della sua determinatezza temporale; il progetto costituisce un intervento provvisorio con un inizio e una fine oltre la quale non si garantisce la continuità delle attività intraprese. Un’altra ragione proviene dal fatto che un programma di sviluppo, concepito in una qualsiasi città europea, sebbene possa tenere in considerazione le indagini statistiche e le analisi dei bisogni locali, non appena “mette piede” sul territorio, trova nelle dinamiche sociopolitiche locali la sua incoerenza interna, difficilmente ritrattabile. È anche quanto riscontrato da una figura professionale in particolare, chiamata a offrire la propria consulenza in quest’ambito: l’antropologo. Il professionista che si ritrovi a svolgere la sua ricerca sul campo per fornire uno sguardo preliminare alle agenzie, spesso rileva come le politiche locali e le dinamiche sociali – specialmente quelle di ordine clientelare – possano seriamente inficiare i progetti di sviluppo. Se quanto osservato dall’antropologo rischia di mettere in discussione l’intera fase operativa del progetto, ogni pericolo è scongiurato dall’impossibilità di revisione dello stesso, vuoi per trappole burocratiche, vuoi per la difficoltà del dover negoziare nuovamente con le autorità politiche locali, comportando un possibile danneggiamento dell’immagine e della credibilità dell’agenzia promotrice.
Antonino Colajanni, nel suo saggio introduttivo a Il mestiere dell’antropologo, si chiede se, a questo punto, interpellare un antropologo non sia ascrivibile semplicemente a quelli che definisce come i “costumi organizzativi” delle ONG. Augurandoci che ciò non accada sempre e ovunque, dobbiamo comunque considerare quanto simili difficoltà siano strettamente interrelate ad un discorso neocolonialista che, ancora oggi, presumerebbe una conoscenza approfondita delle realtà locali e di “quel che è meglio” per popoli che hanno subìto per secoli la dominazione del mondo europeo e occidentale in genere. Una storia iniziata con l’asservimento violento e brutale, passata attraverso l’ottenimento dell’indipendenza dei singoli Stati e oggi declinata al modo dell’assistenzialismo e del paternalismo. Il processo di decolonizzazione è avvenuto soltanto in superficie, ma si mantiene inalterato nelle retoriche degli aiuti e delle missioni e nelle pratiche di organizzazioni che proprio pochi giorni fa sono diventate oggetto di scandalo per investimenti operati in chiaro conflitto di interesse con i propri propositi statutari – si tratta dell’inchiesta da poco pubblicata da Panorama, settimanale targato BBC – così da rendere interessi e politica no-profit una matassa difficilmente dipanabile e poco o per nulla trasparente.
Alla cooperazione allo sviluppo si affianca, seppure in via sperimentale e solo di recente, un’alternativa che intende promuovere crescita economica a partire da premesse ben diverse: il business della piccola e media impresa sostenuta dal microcredito, ma soprattutto impegnata a sostenere il principio secondo cui occorre decostruire il discorso assistenzialista per far posto all’iniziativa individuale o collettiva spontanea, nell’ottica della riappropriazione di una condizione umana dignitosa che si lasci alle spalle una volta per tutte l’immagine artatamente pietistica dell’indigenza offerta agli occhi del mondo. Ho trovato interessante una simile iniziativa nel progetto African Summer School, realizzato a Verona da Fortuna Ekutsu Mambulu, con una formazione di tipo economico alle spalle, il quale ha approfondito la questione dello sviluppo anche in seno ad un discorso storico-culturale, maturato attraverso un master sui diritti dell’immigrazione. L’African Summer School ha promosso la formazione di cinquanta giovani studenti alle prese con la progettazione economica, di concerto con la conoscenza storica e culturale africana, per poter dare la voce ai veri stakeholders, coloro che, nel gergo economico, sono i portatori di interesse di un progetto aziendale. «Non facciamo cooperazione, facciamo business. Occorre uscire dai binari dell’aiuto e dell’assistenza; la vera solidarietà sta nella reciprocità, non in un discorso a senso unico», afferma Mambulu, nell’illustrarmi i propositi del suo progetto. Attraverso studi di geostrategia africana e di pianificazione aziendale, gli studenti hanno presentato, a conclusione della scuola, dei project work, alcuni dei quali sono stati premiati: il primo classificato riguarda un allevamento ittico nel Togo, adesso al vaglio del MAG, incubatore di impresa, e di sponsor come il Comune di Verona e le banche disposte a finanziare il progetto con microcredito agevolato.
Altra iniziativa degna di nota è quella di cooperazione sociale sostenuta da Connecting People- Fondazione Xenagos: il progetto Tun.iT sfrutta «la combinazione migrazione-cooperazione per rafforzare il terzo settore sui territori, mettendo le persone al centro del proprio agire», riferisce S. Naldini, nella sua illustrazione del progetto che coinvolge la comunità tunisina in Italia e gli stessi residenti in Tunisia.
Poter parlare di sviluppo al di fuori delle consuete modalità, come abbiamo visto, è possibile e va fatto nel rispetto delle volontà individuali e collettive nella loro qualità di attori principali. C’è da augurarsi che simili progetti umano-sostenibili siano più aperti e fiduciosi nei confronti degli studi di consulenza degli antropologi. Se l’osservazione condotta entro lunghi periodi di tempo consente ai professionisti di comprendere da vicino le dinamiche sociali e morali, questi possono farsi portavoce dei bisogni reali e non di quelli supposti o immaginati dentro gli uffici delle ONG, a migliaia di chilometri di distanza dal luogo dove intendono intervenire con modalità che spesso risultano invasive nella vita e nella socialità locale. La possibilità di realizzarsi attraverso l’iniziativa autonoma ricorda l’homo oeconomicus che si è fatto da sé, colui che negli Stati Uniti chiamano “self made man”. Ma riscriverei questa formula nel senso più profondo del proposito qui descritto: riappropriarsi dell’umanità e della propria volontà, ovvero diventare self made human.
Dialoghi Mediterranei, n.5, gennaio 2014
Riferimenti bibliografici
Colajanni A., Note e riflessioni sulla consulenza antropologica, in Declich F., Il mestiere dell’antropologo. Esperienze di consulenza tra istituzioni e cooperazione allo sviluppo, Carocci ed., Roma, 2012.
De Sardan J.P.O.,Antropologia e sviluppo. Saggio sul cambiamento sociale, trad. it., Raffaello Cortina ed., Milano, 2008.
Franceschini E., Lo scandalo che travolge le Ong tra bonus e investimenti pericolosi, Repubblica.it, 10 dicembre 2013.
Mambulu F. E., comunicazione personale, 29 novembre 2013.
Naldini S., Migranti tunisini e cooperatori sociali: insieme per un nuovo welfare in Tunisia, in Storie di questo mondo. Periodico di culture migranti e dell’accoglienza, Anno 4, n. 3, dicembre 2012.