Luogo elettivo della memoria rituale e di una devozione fortemente radicata, avvertita anche dalle nuove generazioni, la Pasqua siciliana nel dispiegarsi delle scene di quel singolare teatro popolare che è la Passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo, disvela in maniera eclatante i tratti costituivi della propria cultura, le lontane origini storiche, i valori condivisi, sia sacri sia profani, le specifiche devozioni, gli elementi cerimoniali esclusivi, i segni del visibile e dell’invisibile, e dunque l’adesione piena ad un sentimento umano condiviso di appartenenza.
Fuori dal tempo ordinario, lo spazio festivo, per suo intrinseca natura, concede entro un tempo reinventato e, dunque straordinario, liberato dal profano-ordinario, il dominio assoluto ai gesti rituali, ai segni e ai simboli, affidando ad un codice rappresentativo e narrativo, anche figurativo, il misterico racconto dell’incarnazione divina nell’umano e, dunque, l’indecifrabile salvifico martirio del figlio di Dio, guidati dalla ricerca ormai confusa di una purezza originaria perduta, di una verità assoluta, sempre più distante e inafferrabile.
E così, le forme di comportamento, le inderogabili sequenze cerimoniali sedimentati nel tempo, plasmate e replicate uguali a se stesse da secoli, fino a diventare prescrittive e rivelatrici, dentro familiari cornici rituali e cerimoniali dai forti tratti identitari, rigenerano il “mito fondante cristiano”, tentando di illuminare le ragioni del vivere e quelle dell’aldilà.
Così facendo si offre alla comunità tutta una straordinaria esperienza catartica, un tempo centrale ed ineludibile, ora fortemente relativizzata, che proclama alla fine il trionfo della vita sulla morte, sullo sfondo di una religiosità all’origine cosmo-vitale, connessa alla rigenerazione primaverile della natura, e dunque ad arcaici riti pastorali-agrari in vista del critico eppure rigenerante transito stagionale
Quanto a noi pervenuto dei repertori cerimoniali paraliturgici di espressione popolare e tradizionale, dai tratti spesso esclusivi, è lo straordinario esito di complessi e, non di rado, conflittuali, rapporti di contaminazione, si direbbe oggi, di lungo periodo storico e di reciproche influenze tra aree culturali contigue, e di un fitto scambio e di una sedimentazione cumulativa fra oralità e scrittura, colto e popolare, alto e basso, fra Chiesa-istituzione, rigida e gerarchica, e religiosità e pietà popolare, espressione di associazionismo laicale militante.
I transiti storici siciliani, per così dire epocali, che hanno determinato il progressivo accumulo di esclusive forme di rievocazione delle Passione, Morte e Resurrezione di Gesù Cristo, in registri figurativi e comportamentali cerimoniali plurimi, sono sostanzialmente quelli medievali, rinascimentali-barocchi, e dell’età dei Lumi, assumendo in questi contenitori storico-culturali tutte le possibili locali declinazioni sul piano delle espressioni di matrice popolare, spesso fuori dal controllo diretto, e, comunque. tollerate e/o integrate o sollecitate, entro i confini delle regole liturgiche.
I riti della Settimana Santa in Sicilia affondano, dunque, le radici, in questa remota epoca storica, e le colonie straniere, fin dall’epoca normanna, costituiscono, come prima segnalato, i formidabili vettori di trasmissione e contaminazione di cultura religiosa popolare con le realtà autoctone, in grado di riplasmare dentro i loro processi di senso le “novità” giunte da lontano.
Fu nell’epoca aragonese che cominciarono, ad esempio, a comparire sulla scena rituale le prime schiere di flagellanti. La prima di cui abbiano riscontri storici è quella dei Battuti di San Nicolò a Palermo, all’inizio del Trecento. Più avanti, a partire dal XV secolo, da registrare la nascita delle associazioni religiose laicali, quali le confraternite variamente intitolate e connotate, società nel segno dei comuni mestieri di mutuo soccorso, depositari principali delle forme di rappresentazioni popolari festive fino ai nostri giorni, dalla celebrazione liturgica al corteo processionale, alle luminarie, alle presenze sonoro-musicali, ai giochi pirotecnici. Nel clima della controriforma Trentina, fra XVI e XVII secolo, si aggiungeranno, poi, altre forme di spettacolo religioso, più complesse e articolate, spesso diretta espressione del potere religioso e civile.
Tornando ora a indagare sulle origini di alcune emblematiche forme di rappresentazione della Settimana Santa in Sicilia, quali le Casazze e le processioni dei Misteri – le prime scene poste in sequenza processionale, animate da figuranti a volte anche recitanti, le seconde, affidate ai cortei dei gruppi statuari – o anche U ‘ncontru , detto anche Giunta, ovvero l’incontro pasquale tra il Cristo Risorto e sua Madre, è plausibile il riferimento storico, ancora una volta, come detto prima, all’influsso culturale giunto in Sicilia con i coloni continentali.
Altra decisiva area storico-culturale d’influenza sulla formazione della complessa rete di drammatizzazione della Settimana Santa in Sicilia, oscillante fra i registri teatrale e rituale, con il rinvio anche a complessi codici linguistico-espressivo-sonori-musicali, è quella orientale-bizantina, che si colloca fra XII e XV secolo, individuate, ad esempio, nella rievocazione figurata dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme la domenica delle Palme, e nella processione del Cristo morto il Venerdì Santo, innescata probabilmente dall’epitaffio nell’ufficiatura liturgica, assunto figurativamente con l’uso di una statua, e poi ancora nell’uso generale di segni propri della tradizione greca, di cui l’espressione più evidente è l’uso dell’alloro.
Decisiva, infine, sulle forme di rappresentazione della Settimana Santa in Sicilia, la riforma liturgica voluta dal Concilio di Trento (1545-63), che incoraggiò ed alimentò le forme di religiosità popolare, favorendo anche la nascita di nuovi culti, prefigurando un dualismo culturale fra liturgia e devozioni, incessantemente in forte dialogo fra loro. E così, festa dopo festa, il popolo alimentò progressivamente questo suo esclusivo repertorio di fede cristiana collocandolo di fatto entro la cornice liturgica ufficiale, con piena e riconosciuta autonomia.
Al periodo cinquecentesco si rifà, ad esempio, lo sviluppo del culto eucaristico delle Quarantore (dalla domenica delle Palme a Mercoledì Santo), con la contestuale fondazione, sollecitata dalle gerarchie ecclesiastiche, delle confraternite del SS. Sacramento, con l’ostentazione di una visibile espressione penitenziale e di visibile culto. Nello stesso clima liturgico-devozionale germinano anche le specifiche devozioni per la Vergine Maria e dei santi, delle novene e dei tridui, segni distintivi delle confraternite, incoraggiate e sostenute in Sicilia dagli ordini religiosi, quali i francescani, i domenicani, i passionisti i redentoristi e i gesuiti, quest’ultimi con la loro specifica vocazione per le forme teatrali, presenti su tutto il territorio isolano.
Sul piano delle vere e proprie sacre rappresentazioni in Sicilia, c’è da registrare una significativa presenza a partire dall’inizio del Quattrocento, attestata dal più antico testo giunto fino a noi, la Resurrectio Christi di Marco Grandi, composto fra il 1418-1434, cui seguirà nel 1539 l’Atto della Pinta di Teofilo Folengo. Il tema della messa in scena andava dalla creazione del Mondo fino all’incarnazione del Verbo e alla sua nascita.
Ulteriore impulso alle sacre rappresentazioni nel Cinquecento siciliano fu dato dai Gesuiti, insediatisi in Sicilia nel 1548, con la fondazione del primo collegio messinese, votati alla messa in scena di tragedie sacre, fra le quali ebbe grande risonanza quello di Ortensio Scamacca (1565-1648). Su questo versante decisivo fu poi l’influenza della cultura spagnola dell’arte nueva e siglo de oro, declinata ad un gusto decisamente popolare, con l’adozione fra l’altro, nell’ambito della Settimana Santa, dei gruppi statuari dei Misteri e della rigida composizione dei cortei.
Lungo questo itinerario, che declina le espressioni di religiosità popolare alle forme spettacolari della Settimana Santa, da registrare nel Settecento isolano, il fondamentale testo di Filippo Orioles (1687-1793) Il Riscatto di Adamo nella morte di Gesù Cristo del 1750, detto volgarmente Mortorio, o anche Martoriu o Martuoriu, Martyrium, tribolazione, cui attingono di fatto tutte le sacre rappresentazioni siciliane.
Oggi la sacra rappresentazione del Mortorio, proposto in un solo giorno o suddivisa nei vari giorni della Settimana Santa, coinvolge quasi sessanta centri siciliani. La sola parte della Scinnenza, la deposizione, invece, si svolge solo in sei centri. In un’area diversa di rappresentazione, sempre sul lungo periodo storico, si collocano invece le cosiddette Casazze o Misteri, ovvero cortei penitenziali affidati a figuranti, di origine medievale, con poche tracce storiche, fra le quali quella del 1591, ad opera della colonia genovese a Palermo.
La Via Crucis sia quella vivente, di più recente acquisizione, assimilabile al Mortorio, che quella più antica affidata a letture e canti – pio esercizio di preghiera devozionale in cui si narra e contempla in XIV stazioni la via del Calvario – si attesta fra XII e XIV secolo, per avere un impulso, molto più avanti, con i predicatori quaresimali cinquecenteschi, affidando poi la diffusione del rito sul territorio soprattutto ai frati minori, che collocano le stazioni della via Crucis nelle chiese e nei conventi, oltre che l’edificazione dei cosiddetti Calvari.
Dal cospicuo catalogo dei rituali connessi alla Settimana Santa siciliana, emerge, dunque, con evidenza una nozione di religiosità popolare da interpretare non come categoria culturale autonoma, ma in relazione dialettica e dinamica con l’istituzione-chiesa e le altre componenti del contesto sociale, culturale ed economico d’origine.
Ed ora osserviamo da vicino alcuni degli eventi rituali e delle forme di religiosità popolare dell’area fra Peloritani e Nebrodi, che la cultura di tradizione orale replica ancora oggi in occasione della Settimana Santa. Preliminarmente è certamente utile segnalare che la Quaresima, tempo di preghiera e atti penitenziali in preparazione alla Santa Pasqua, era scandita in tutte le chiese officianti, grandi e piccole, dalla presenza di un predicatore quaresimale, e in taluni ambiti di lavoro, come nel caso degli “spiritara” di Barcellona Pozzo di Gotto o dei contadini e massari di Capizzi, dall’esecuzione, rispettivamente, della “Visilla” e dei “canti ‘ntruffati” del Venerdì Santo.
A segnalare, poi, in ambito nebroideo l’inizio dei riti della Settimana Santa, emerge la singolare processione del Cristo in croce, venerato nella chiesa di Ara Coeli, a San Marco d’Alunzio, l’ultimo venerdì di marzo, portato a spalla da 33 babbaluti, uomini e donne penitenti a piedi scalzi, con il volto celato da una visiera l’ultimo venerdì di marzo, la cui origine sembra rimandare alla cultura bizantina-basiliana.
La Domenica delle Palme, in antico detta degli “olivi”, che segna liturgicamente l’inizio della Settimana Santa, era segnalata da una serie di rappresentazioni a ricordo del festoso ingresso a Gerusalemme di Gesù Cristo, tra le quali emergono quelle della valle del Fitalia, che vedevano impegnati i confrati con cappa bianca e mantellina colorata, tra le quali, ancora oggi pienamente funzionale, vanno segnalate quelle di Longi, e ancora di S. Filippo del Mela, e fuori dal Messinese, quella di Gangi. Riti, peraltro, scanditi spesso, da canti e suoni rituali, come l’esecuzione del Gloria, e il rullo dei tamburi.
Dal Lunedì Santo, detto a Galati Mamertino “Jornu di l’avvirtenza”, ecco la sovrapposizione alle prescrizioni liturgiche ufficiali – quali ad esempio le Quarantore, adorazione eucaristica ininterrotta a cura delle confraternite – di eventi rituali di religiosità popolare, unici ed esclusivi in alcuni casi, come il Martedì Santo di San Pier Niceto, con la processione del Cristo in croce e il corteo degli angioletti ricolmi d’oro, angioloni e Maddalene, il Cristu Longu di Castroreale del Mercoledì e Venerdì Santi, i trasgressivi Giudei di San Fratello.
Tra le forme rappresentative condivise capillarmente dalla cultura popolare, da segnalare l’allestimento dei cosiddetti Sepolcri (sipulcra, siburca o sapurcu), apparati devozionali posticci, di grande impatto spettacolare con graminacee fatte germogliare al buio, che rimandano simbolicamente alle arcaiche pratiche, quali i giardini d’Adone, accompagnando il perenne ciclo di morte e vita rappresentato in ogni cultura, connesso alla rigenerazione primaverile. Di grande suggestione la celebrazione, un tempo, delle cosiddette “Tenebre”, nelle chiese rischiarate da fioche luci, come quelle di Galati Mamertino e Militello Rosmarino.
Dal giovedì Santo, e per tutto il Triduo Pasquale, ecco invece irrompere sulla scena rituale eventi di esclusiva espressione popolare, dove nei secoli si sono sedimentati i diversi registri culturali, colti e popolari. Alla Coena Domini e all’adorazione dell’Eucarestia del Giovedì Santo, fuori dall’area liturgica, si sommano infatti riti esclusivi di singole comunità, quali ad esempio la via Crucis di Condrò, il Cristo e i tre afflizzianti di Longi, il Cristo morto nell’urna, in processione alle 2 di notte a Militello Rosmarino, la Cerca di Casalvecchio, alle 2 di notte e quelle, alle prime luci dell’alba del Venerdì Santo, di Alcara Li Fusi, e dei confrati del SS. Sacramento di Longi.
I riti del Venerdì Santo, che rappresentano la morte al Calvario di Cristo, costituiscono tuttavia l’espressione più alta del pathos popolare per la drammatica fine del Salvatore, restituita negli accenti umani dalla figura dolente della Madre, con la riproposta rituale di eventi processionali con il Cristo in croce, nel sepolcro e la Madre Addolorata, che in molti casi si allargano alla rappresentazione plastica di tutti i misteri della Via Crucis. Come nel caso della secolare e spettacolare processione delle Barette di Messina, di cui restano straordinarie cronache d’epoca, dei due singolari e spettacolari cortei di Barcellona e Pozzo di Gotto, di quelle figurate di Monforte San Giorgio e Santa Lucia del Mela, e ancora i Misteri di Novara di Sicilia, e il Crocifisso di Militello Rosmarino, con le Maddalene avvolte da una sorta di chador arabo a fianco della croce, e ancora i Misteri di Alcara Li Fusi e Mistretta.
Ormai del tutto scomparse sono, invece le sacre rappresentazioni storiche, di cui si ha memoria di quella antica di Francavilla di Sicilia, riproposta negli ultimi decenni cui si aggiungono oggi nuove Vie crucis, come quella di Savoca, che richiamano le antiche Casazze di origine medievale, con rimandi al testo del Mortorio settecentesco di Filippo Orioles. Singolare e trasgressiva in maniera eclatante, poi, la figura dei Giudei di San Fratello, brulicante per le vie del paese fin dal Mercoledì Santo, sopravvivenza di una Sacra rappresentazione, come segnala già all’inizio del Novecento il demologo-farmacista Benedetto Rubino. Presenza dai tratti figurativi e comportamentali demoniaci, semiselvatico, con quella coda da fauno, con l’uso parodistico e parossistico della cornetta, che richiama memorie rituali e sonore dionisiache, sfrenate e incontrollate. I Giudei, dai tratti comportamentali cangianti che affidano la comunicazione ai gesti e al suono trasgressivo, finiranno comunque con il convertirsi dinnanzi al Cristo Crocifisso, portato per le vie del paese il Venerdì Santo, ponendosi sotto i baiardi.
Il Sabato Santo, secondo giorno del Triduo Pasquale, contrassegnato liturgicamente dalla veglia pasquale, con l’accensione del cero pasquale, la benedizione dell’acqua lustrale e degli olii sacri, è ricordato dalla memoria popolare, perché in questo giorno si scioglieva la gloria, dunque bisognava con ogni mezzo produrre suoni, “un fragore di legno, tavoli e casse”, che si legava all’antica credenza di cacciare da casa gli spiriti maligni nel momento della resurrezione. Si slegano poi e si suonavano a distesa le campane in segno di festa, come succede con una complessa ritmica per quattro campane a Castel di Lucio, dopo la celebrazione della messa di mezzanotte.
Anche i pastori, quasi a ricordare l’arcaica Pasqua ebraica, da cui germina quella cristiana, mettevano, in segno di festa, a capre e pecore le campane, “campanavunu a mantra”. E poi, c’è da ricordare l’attesa “calata da tila”, una scenografia spettacolare per esaltare il trionfo della vita sulla morte, che si replica ancora oggi a Novara di Sicilia, con un marchingegno teatrale, sullo sfondo di una grande tela, con l’ascesa dal sepolcro di una sfera luminosissima di vita, a simboleggiare il trionfo dalla terra al cielo del Cristo risorto.
A conclusione della drammatizzazione rituale, la tradizione festeggiava la Domenica di Pasqua con la solenne processione “du ‘ncontru”, l’incontro fra il simulacro della Madonna e quello del Cristo Risorto, che si celebra ancora oggi Sicilia come in molti centri del Messinese, da Messina, con la festa degli Spampanati della Mercede, a Longi, ad Alcara Li Fusi, San Fratello, Reitano.
Singolare poi la festa dell’alloro di Forza d’Agrò, certamente di memoria greco-bizantino basiliana, che la confraternita della SS. Trinità celebra il Lunedì dell’Angelo, con l’esibizione degli stendardi di alloro, a simbolo di nuova vita, con la solenne benedizione degli olii sacri, in antico quelli dell’Abbazia normanna dei SS Pietro e Paolo d’Agrò, voluta dal gran conte Ruggero.
Da segnalare inoltre il tradizionale pellegrinaggio al Santuario dell’Ecce Homo di Calvaruso, che un tempo si raggiungeva a piedi lungo i sentieri peloritani, o sui carretti, che tornavano per devozione anche all’Ottava, oggi sostituiti dai calessi da diporto, tranciando in segno di devozione e protezione un rametto di cipresso, legno sul quale fra Umile da Petralia all’inizio del Seicento scolpì miracolosamente l’effige del venerato Ecce Homo.
Tra gli elementi costitutivi, che, più degli altri, modellano gli spazi fisici e rituali della Passione nella cultura popolare siciliana, c’è da annotare il canto nella forma polivocale maschile, dominante rispetto alla marginale espressione femminile, codificato in una pluralità di stili e livelli verbali, dal doppio registro linguistico, siciliano e italiano.
Oggi è possibile ascoltare solo pochi ma preziosi canti polivocali della Settimana Santa in provincia di Messina: scomparsi quelli di Alcara Li Fusi, Longi, Militello Rosmarino, Mistretta, Capizzi, sopravvivono la Visilla di Barcellona Pozzo di Gotto, Li parti ra Cruci di Santo Stefano di Camastra, Jesu a Casalavecchio Siculo e a Novara di Sicilia, la via Crucis di Condrò, e lu Venniri di mazzu e lu sabitu matinu a Tusa, oltre le figurazioni melodico-ritmiche-parodistiche dei Giudei di San Fratello.
Volgendo ora lo sguardo a Galati Mamertino, è ancora viva la pratica del canto polivocale, formalizzata un tempo dal ricorso allo Stabat Mater e alla Sarvi Rriggina dulurusa, ove, nonostante le profonde trasformazioni socio-economiche subite negli ultimi trent’anni, non sono stati mai recisi i legami con le forme di religiosità popolare, verso cui si sono rivolte le nuove generazioni, grazie anche all’attenzione e impegno mostrato dagli arcipreti, che hanno assunto il compito di declinarle al presente.
Ma c’è di più, limitandoci al versante del canto di tradizione sacro e profano, c’è da osservare con orgoglio la straordinaria azione di rivitalizzazione operata dai cantori di tradizione, espressione della storica Società di mutuo Soccorso, guidati dall’instancabile presidente Giacomo Miceli e dal carismatico Antonio Smiriglia, che ha avuto fra l’altro il merito di farli conoscere ed apprezzare oltre i confini municipali, impegnandoli anche in incisioni discografiche. E grazie a loro, nell’ambito del mio impegno di ricerca sul campo, ho avuto il privilegio non solo di averli ospiti più volte a Messina, ma anche di approfondire taluni aspetti della cultura galatense, connessi alle forme del canto, scoprendo in particolare in Giacomino Miceli, un testimone straordinario, che ha sentito il bisogno di affidarsi alla scrittura per raccontare emozionanti storie di vita, in grado di ricostituire la trama perduti dei valori fondanti della comunità ari a nu’ la vita sfici, /Ppi dari all’omu Paradisu e paci».
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
APPENDICE
Dalle pagine diaristiche di Giacomo Miceli, di straordinario interesse etnoantropologico, si leggano alcuni scampoli di vita comunitaria, attraverso la sua diretta esperienza esistenziale nella relazione stretta con le forme emblematiche della religiosità popolare relative alla Settimana santa, dunque al culto per il crocifisso e alla Madre Addolorata:
Santissimu Crucifissu Patri miu/ Ia cu vui vinni a parrari di li vostri cincu chiai,/“Figghia mia, vinisti tu, ti li vogghiu raccuntari:” 1 Sunu chiddi di li pedi.e nun pozzu stari in pedi; 2 Sunu chiddi di lu latu, chi di ddà nisciu lu sciatu; 3 Sunu chiddi di lu pettu, ca mi misiru lu stilettu; 4 Sunu chiddi di li manu, ca lu cori m’inchiuvanu; 5 Sunu chiddi di la testa, li nimici ficinu festa;/ Inginucchiatu, inginucchiuni 7 voti tu la diri! E peni di lu infernu nunni vidi!!!
Questa poesia la recitava mia nonna Drago Nunzia Sirna, nata a San Basilio nel marzo 1870 e morta a febbraio 1947.
Segue l’indicazione della composizione della famiglia Sirna
Testo manoscritto firmato da Giacomo Miceli:
Gesù Cristu nchiuatu/ Stanotti a Gesù Cristu minzunnai/ chi pedi nchiuati tutti dui/ U visti troppu affrittu e ci spiai: “Signuri cu vi detti morti a vui?”/ “O latru sciallaratu nun ciù sa?/ Prima mi duni a morti e poi spii cu fu!”/ Pirdunatimi Signuri chi sbagghiai,/ Ia fu u latru chi nchiuai a vui/ “Ia du to piccatu non mi lagnu,/ pirchì assai è l’amuri chi tegnu”/ “Ti dugnu tri gocci du ma sangu,/ ti lavi e tinni veni nto ma Regnu”/ “U paradisu nun tu dugnu pu n’annu,/ ma tu dugnu pa vita e pi l’eternu”
Sirna Benedetta (18/01/1901-10/12/1984)
(Per gentile concessione del figlio Giacomino Miceli, tratto da un testo dattiloscritto, firmato da Giacomo Miceli)
Rivelatrici della centralità della Passione e morte di Cristo nell’espressione di credo cristiano di tradizione contadina, che invade anche i contesti di lavoro, sono le invocazioni/preghiere d’apertura della sequenza di ringraziamento, che accompagnavano quotidianamente la mietitura, intrisa di sacralità, ma anche impastata della fatica esistenziale, e di rivalsa, come strategia sociale di comunicazione interpersonale orizzontale e verticale. Si tratta della cosiddetta “Formula di ringraziamento, fra sacro e profano”, intonata dai mietitori e “raccoglitore” nel corso della mietitura, nel rispetto di una inderogabile scansione, che alterna voce soliste, ovvero “cugghituri”, “capu spada”, mietitori, e riprese corali.
Miceli Giacomo:
A menti a Diu, ogn’ura e ogni mumentu/ (Tutti in coro si ripete tre volte)
Adoramu e ringraziamu ogni mumentu/ U Santissimu e Divinissimu Sacramentu
I prieri;
U’ ncredu a morti e passioni di Nostru Signuri, chi patiu ‘ncruci pi l’amuri nostru
Na Sarvirrigina a Madonna Addulurata
U’n patrinostru o Patratturi San Iapicu, minni libira da fami, da peste e da verra libera mesdomini
Un patrinostru a Santa Lucia, minni varda a visti e l’occhi, ca è lu capu di la nostra pirsuna
Un patrinostru all’ancilu custode, minni custodisci a nostra vita
Un patrinostru a Santu Libiranti, minni libira di così sensa spittati
Un patrinostru a li nostri morti, chi tutti avemu, e mi preiunu pi nuatriUn patrinostru pi tutti l’anciuli, e i santi chi ci sunu ‘ncielu
U cugghituri (Giacomo Miceli):
Stanotti a Gesuzzu m’nsunnai,/ cu li pedi nchiutati tutt’dui,/ lu visti troppu affrittu e ci spiai:/ Cugghituri: “Signuri! Cu vi detti morti a vui?”
Gesù R.: “E tu! latru scialaratu nun lu sai?/ Prima mi duni la morti, e poi spii cu fui?
Cugghituri: “Signuruzzu! Pirdunatimi!/ Pirdunatimi ch’mancai, ia fui l’omu ch’inchiuai a vui”
Gesù: “Ia di lu to piccatu nummi lagnu!/ Picchì eni assai l’amuri chi tegnu!/ Ti dugnu tris tizzi du ma sangu,/ Ti lavi e tinni veni a lu me regnu!/ U paradisu nu’ntu dugnu p’unannu,/ ma tu dugnu pi la vita e pi l’eternu.
U Cugghituri: Lu ma santu santu san Iapicu! Santu Rocco! Santissimo Crucifissu! Diu e Maria!
Attentu capuspada chi ti mannu u Signuri, e tu lu mannu ‘ncumpagnia cu Gesù, Giuseppe e Maria!
Capuspada: Setti piduzzi minni aiu manciatu/ ‘Nto paradisu ceni na Signura/ Madonna di lu Carmini si chiama/ A ccu’ cci dumanna a razia ci la duna/ Picchì iavi un’puzzu chinu e na funtana/ E picciriddi a sorti ci duna/ A li malati i firiti cci sana/ Miatu a ccu lu mercuri di una/ Ch’inparadisu quannu mori nchiana/ Gesù Cristu a la culonna/ Vad a capu, e doppu torna.
Coro (per tre volte)
Adoramu e ringraziamu ogni mumentu/ U Santissimu e Divinissimu Sacramentu!
Venerdì Santo, anno 1934, Processione a Galati Mamertino
Mio padre mi prepara un “cicaluni” e mi insegna una preghiera: Pietà e Misericordia Signuri!
Mi portava in mano, perché ero bimbo di 5 anni e 6 mesi, vista la Bara di Gesù, e, dietro, la Madonna Addolorata con il manto nero, mio padre mi fa recitare un Credo di Gesù e una Salve Regina alla Madonna. Io, per la pena, mentre recitavo la pietà e la misericordia al Signore, piangevo e gli ho chiesto: “Papà, perché sul terreno vi è il sangue?”, Lui mi dice: “Figlio mio è il sangue di nostro Signore Gesù Cristo sparso per noi peccatori”.
La processione era silenziosa, e così composta: in testa, bambini piccoli, non superiori a 10 anni, con il manto nero e la faccia attorniata da un pizzo bianco, e rappresentavano la Vergine Maria Addolorata. Dopo seguivano le tre fraternità, quelle del Santissimo Sacramento, di San Giacomo, Sant’Antonino e del Cuore di Gesù.
La strada della processione era come quest’anno passato: Pianoporta, Chiesa del Rosario.
Ricordo che nella via Dante (?) c’era una donna, Giuseppa Fazio,che bruciava l’incenso per il passaggio della processione, con in testa l’Ecce Homo.
Dietro la bara di vetro, con il Cristo “crocifisso” deposto dentro la “lettica”, i cantori cantavano: “io mi pento, da questo momento non pecco più”.
Dietro la Madonna Addolorata con il manto nero, che accompagna il suo Diletto Figlio, seguivano tutti i bambini che cantavano e suonavano con “troccole”,” tappi tappi” e “cicaluna”.
Chi non era cristiano, non piangeva. Anche da bambino io digiunavo, perché si diceva che anche gli uccelli digiunano. Fu l’ultimo anno di vita (Pasqua) condiviso con mio padre, perché nel settembre successivo mio padre morì, e di lassù non si stanca mai di pregare; tanto è vero che, malgrado fossi rimasto orfano, mia madre, instancabilmente, riuscì a farmi crescere buono, educato, facendomi rispettare il prossimo come me stesso, e non “fare male a nessuno come non lo volesti tu”, dandomi istruzione. E mi insegnò il cristianesimo cattolico, dicendomi: “Vai cu Diu, e Diu t’aiuta”.
Così riuscì con la preghiera di mio padre e i sacrifici di mia madre a crescere e formarmi una famiglia.
Ravviviamo la fede “Padre, Ave e Gloria”
Tratto da un testo dattiloscritto, autografato da Giacomo Miceli con le seguenti parole:
Galati Mamertino, Venerdì Santo 1934, ultima processione del Venerdì Sano di mio Padre, Miceli Antonino, fu Francesco, nato il 25/7/1888, morto nel settembre 1934, anni 46.
Sul retro dello stesso foglio, Miceli ha trascritto con la sua grafia il testo della Sarvi Rriggina, nella lezione del Venerdi Santo, che riportiamo di seguito:
Salve o Regina o Matri Addulurata
Vi sia raccumannata st’arma mia
Na razia ia vurria, a stu me cori ingratu
Firutu e trapassatu da Vostra spada
La mia vita è passata tra tanti ran piccati
Pi razia a Vui aiu priatu e a Vostru Figghiu
Stu cori è di duluri, spizzatimillu Vui
Piccari non vogghiu cchiui, cchiutostu moru
A nui dati cunfortu, finu all’urtima agunia
Vi pregu Matri Maria nun mi lassati
In celu Vui st’arma purtati, in celu luriusa
Maria Matri amurusa eternamente
E poi cull’autra menti gridamu pi quantu arriva:
Viva la Matri Viva l’Addulurata
Maria lu bellu visu, chieni finu e dilicatu,
Maria senza piccati originali
Stà Salvirigina è ditta, nto celu sarà scritta
A lu cori di Maria la prisintamu
Di lu celu fu calata, di l’angiuli fu cantata
Viva la Matri, Viva l’Addulurata !
Canto del Venerdì Santo
Affaccia Maria
Affaccia Maria to figghiu passa
Porta na catina longa e rossa
Sangu nun avi cchiù supra li brazza
E peddi nun avi cchiù supra l’ossa !!!
Chiamati a Giuvanni, ca ccà lu vogghiu
Quantu mi iuta a cianciri a ma Figghiu !
Quannu a Gesuzzu a lu munti lu purtanu
Supra la Santa Cruci lu nchiuvaru!
Maria di niuru lu mantu mittiu
A li pedi di la cruci idda cadiu!
Vi adoru veru Diu, veru Figghiu di Maria
Matri vostra e Matri mia!
Giacchè Vui nenti niati
Pirdunatimi li me piccati
Matri amanti e Matri Mia
Da ora in poi ia mi pentu
Vaiu offisu a tradimentu
Vaiu offisu Sommu Diu
E non vogghiu piccari cchiui
O Matri di li duluri
Pirdunati li piccaturi
Quante bella Maria sutta lu mantu
E cchiù Bella dun’immagini d’argentu
Tuttu lu munnu rumpiu in piantu
Quannu sunau la Gloria lu Sabatu Santu
Sia lodatu ogni mumentu lu Santissimo e Divinissimu Sacramentu!!!
Gli apostoli 1 Simon Pietro 2 Andrea 3 Giacomo Maggiore 4 Giovanni 5 Filippo 6 Bartolomeo 7 Tommaso 8 Matteo 9 Giacomo di Alteo 10 Taddeo 11 Simone 12 Giuda
Tratto da un testo manoscritto di Giacomo Miceli
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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. Il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997); Orizzonti siciliani (2018).
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Mario Sarica