1. La serendipità del campo e i suoi nemici da tavolino
Nel 2016 l’editore Hasgate pubblicò una raccolta di saggi che proponeva addirittura una “nomadic turn” (Hazan e Hertzog 2011). Non so bene cosa sia successo a quell’ennesima svolta dell’antropologia culturale in lingua inglese ma quel che conta, almeno per gli intenti di questo mio testo, è che l’antropologia, con quella raccolta, accettava di ingaggiare una riflessione sistematica attorno all’idea di serendipità [1]. Si tratta di un concetto filosofico elaborato altrove e importato nella disciplina, in questo caso per testarne la tenuta come filtro analitico per comprendere le società nomadiche. A prima vista il termine indica una fortuita scoperta, il ritrovamento di qualcosa mentre si stava cercando qualcos’altro, ma possiamo impiegare una definizione più rigorosa:
«Rather than being tantamount to chance events, serendipity results from the ability to identify ‘matching pairs’ of events, or events that are meaningfully, even if not necessarily causally, related. In contrast with serendipity’s popular usage, this characterization is true to its etymological origins and, importantly, renders serendipity a capability and not, as is routinely assumed, a happening» (de Rond 2014: 342).
Si tratta di una concezione assai diversa di serendipità rispetto a quella che si è imposta nel senso comune ed è proprio da qui che vorrei partire nelle mie riflessioni sulla tenuta metodologica ed epistemologica del concetto. L’identificazione di “coppie di eventi corrispondenti” consentirebbe, credo, un utilizzo strategico, e non solo tattico, di questo termine, dato che è proprio in quanto “capability”, vale a dire disposizione o atteggiamento, che la serendipità nell’antropologia può aiutarci a entrare più a fondo nel campo (serendipità -emic) ma anche aiutarci a uscirne con quegli enunciati generalizzanti che solitamente concludono il lavoro di comparazione, che per gli scopi di queste pagine si può considerare come un’azione volta a produrre serendipità di tipo -etic.
Se prendiamo infatti per buona questa definizione di serendipità (capacità di connettere coppie di eventi in modo significativo), come antropologi ci troviamo di fronte al problema del tenutario di quella significatività: di quale senso parliamo, di quello -etic dell’osservatore o di quello -emic del soggetto indagato? Una corrispondenza si può comunque considerare serendipica se io ci inciampo inaspettatamente nel mio lavoro di ricerca, mentre i miei interlocutori sul campo la considerano un’interconnessione tutt’altro che casuale e piuttosto determinata da quella specifica cosmologia locale? Se, come capita nei contesti locali, il ricercatore è gravato da una consistente dose di ignoranza, visto che sono tantissime le cose che non può dare per scontate e che quindi “non sa”, le connessioni che “scopre” sono davvero accidentali? E che dire poi della serendipità che il ricercatore sicuramente persegue quando lavora comparando contesti diversi? In questo caso qualunque ritrovamento (un descrittore teorico o un modello) non può che essere il frutto della sua attività di connessione, ed è quindi una serendipità tutta -etic. In questo senso si potrebbero leggere i volumi della serie Mito-logica di Lévi-Strauss come un enorme esercizio di identificazione significativa di coppie di eventi, vale a dire un atto di serendipità generalizzata applicata come metodo comparativo.
I collegamenti tra eventi a prima vista (a “nostra vista”, meglio) irrelati sono legioni nei resoconti etnografici: a me questo tipo di connessione imprevista è successa in Macedonia (cercavo matrimoni misti in contesti multietnici e ne sono tornato con una riflessione del rapporto tra scrittura autobiografica e nazionalismo (Vereni 2000)); in Irlanda (studiando i meccanismi di emarginazione sociale nell’isola pensavo di lavorare prevalentemente con/sui Cattolici del Nord, e mi sono trovato tra le mani i Protestanti della Repubblica, cui non avevo mai pensato (Vereni 2001)), e perfino in carcere (cercavo tipi sociali della devianza, e mi sono trovato con storie di vita idiosincratiche (Vereni 2017)). Nelle chiacchierate durante le pause dei convegni è tutto un dirci che questo è proprio il nostro modo di lavorare, lo stile che caratterizza una propensione alla scoperta dell’imprevedibile più che alla raccolta di dati sistematici. Nella prima parte di questo testo mi soffermerò proprio sul vantaggio tattico di poter disporre di una metodologia della ricerca etnografica flessibile, che consenta di recuperare connessioni che non avevamo incluso nel nostro piano di ricerca originario.
Nella seconda parte, invece, vorrei sollevare un problema non trascurabile (e secondo me, invece, sistematicamente trascurato), che chiamerei il problema della pusillanimità teoretica, una sorta di converso concettuale della serendipità perseguita nel campo. Con tale espressione vorrei delimitare una postura sciatta che l’antropologia sembra dispiegare quando si tratta di alzare lo sguardo teorico, apparentemente come cautela in conseguenza della necessaria metodologia flessibile di cui si investe nel fieldwork. Con ciò intendo che molte volte gli antropologi e le antropologhe hanno intrapreso la loro indagini non solo non avendo del tutto chiare le “domande di ricerca” (e ben venga, questa vaga anarchia antimetodica); ma spesso assumendo in anticipo un atteggiamento di estrema cautela rispetto ai risultati teorici che saranno in grado di acquisire dalla loro ricerca empirica, quasi che non ambiscano volutamente a un quadro teorico sofisticato o sufficientemente ambizioso. Sembra trovare legittimità implicita la convinzione subliminale che “qualcosa si capirà” e che i pezzi raccolti nel fieldwork alla fine formeranno qualche tipo di immagine sensata senza bisogno di trovare connessioni altrove, senza dunque il coraggio di collegare quel che ci dice il campo con quel che si è depositato nell’archivio della disciplina. Questo atteggiamento è quindi intenzionalmente anti-serendipico, e ricorda quello dell’ubriaco sorpreso da un amico a bofonchiare nei pressi di un lampione (la scena si svolge a tarda notte a Venezia, prima dell’overtourism):
– Ciao Bepi cosa fai? Sembra che tu stia cercando qualcosa.
– Sì Toni, non trovo più le chiavi di casa e sto diventando matto a cercarle. Devono essermi cadute quando sono uscito dal bar…
– Ma il bar non è dall’altra parte del ponte? Perché le cerchi qui, se pensi di averle perdute di là?
– Ma ti pare, Toni? Giù dal ponte è troppo buio, non le troverei mai. Qui almeno c’è la luce del lampione.
La spiegazione semplificatoria e univoca (“monomaniacale”, dice Haidt (2021)) di contesti complessi con chiavi riduttive nella loro linearità (il simbolico, la politica, il potere, il neoliberismo, il patriarcato…) è una strategia che deresponsabilizza il ricercatore gettando il peso ermeneutico sulle spalle del fieldwork, da cui ci si aspetta ad ogni costo un guizzo di senso. Questo atteggiamento, timoroso di accostare indebitamente fenomeni culturali in comparazioni azzardate, non è più in grado di cogliere la distinzione tra il ragionevole coraggio e la sconsiderata temerarietà e, per paura di non trovare le chiavi in spazi poco illuminati, limita il suo raggio di azione teorica. Proverò a dimostrare che questa carenza di “audacia epistemologica” (Vereni 2021a) non solo cancella la necessaria distinzione tra comparazione e generalizzazione (Leach 1961), ma legittima inoltre l’etnocentrismo sistematico e la sistematica sottovalutazione della diversità.
2. La necessaria serendipità del dato etnografico
Per quanto la sensazione sia smentita dai numerosi casi di “scoperta casuale” (Roberts 1989; Pepys 2007) l’accoppiamento tra serendipità e ricerca scientifica sembra costituire una contraddizione per le scienze “dure”, che hanno come loro fondamento epistemologico la nettezza delle domande di ricerca (cosa sto cercando?) e la precisione del metodo impiegato (con quali strumenti intraprendo questa ricerca?). Per le scienze sociali, e per l’antropologia culturale in modo ancora più chiaro, questo accoppiamento sembra invece una necessità imprescindibile, un po’ perché spesso gli obiettivi rimangono alquanto “vaghi” per gran parte della ricerca empirica, e un po’ perché il metodo principe dell’etnografia (osservazione partecipante più impregnazione) poco si presta a rigidità categoriali che escludano a priori alcuni rilievi dal novero dei “dati”. In generale, questa opposizione diltheyana si fa pressante quando lo studio scientifico incrocia la questione etica e per quanto, sempre più, tutto lo spazio della ricerca scientifica sia investito di responsabilità etiche (si pensi per esempio alla crisi ambientale), il tema rimane centrale anche oggi soprattutto per chi si occupa prevalentemente dell’Essere Umano.
Il patto etnografico implica, per come concepiamo l’antropologia almeno da qualche decennio, un rapporto di solidarietà tra i diversi attori sul terreno, almeno entro certi limiti formali. Questa solidarietà è però messa a repentaglio dalla complessità delle relazioni umane: di fatto l’etnografo rischia di trovarsi in situazioni in cui viene a conoscere episodi scabrosi, pericolosi o illegali e può capitare che il dovere di privacy entri in una relazione di double bind con il rispetto di una morale più estesa. Come comportarsi, ad esempio, di fronte a casi di violenza domestica? Mentre per alcuni casi (come l’abigeato raccontato più volte da Michael Herzfeld (cfr. 1985)) è evidente che le persone condividono un codice morale che consente un’interpretazione socialmente accettabile dell’azione violenta, in altri casi questa convenzione sociale è tutt’altro che assodata ed è assai difficile che l’etnografo abbia gli strumenti per stabilire a priori come agire in modo adeguato, cioè conforme al rispetto della privacy e alla protezione delle persone fragili.
La consapevolezza dei rischi etici della ricerca ha dunque comportato lo sviluppo di strategie oggettivanti, con commissioni, comitati, codici e regolamenti che sono concepiti proprio per garantire che il patto non venga infranto per assecondare qualche tipo di sfruttamento da parte di chi gestisce la quota preponderante di potere nella relazione. Come sappiamo, la questione dell’etica della ricerca investe gli antropologi sul campo (e nella stesura dei loro testi) da molto prima che divenissero comuni le commissioni etiche delle università e in generale nelle istituzioni, ma va chiarito in che modo la premessa di un “universal ethical standard” (Herzfeld 2023, 3) interferisce seriamente con l’epistemologia della ricerca etnografica, oltre che con la sua metodologia. Nei molti esempi riportati da Herzfeld e nelle fonti che lui cita nel suo testo, alquanto pugnace con i comitati etici dell’accademia, emerge chiaramente un divergente valore morale attribuito alla circolazione dell’informazione in strumenti regolativi come i regolamenti dei comitati etici (o, nel caso europeo, il GDPR – General Data Protection Regulation), rispetto alla visione che, di quel medesimo “pacchetto informativo”, sembrano avere sia gli etnografi sul campo, sia i loro interlocutori. È mia convinzione che si possa comprendere questa divergenza tenendo proprio conto della necessaria serendipità tattica implicata dal fieldwork.
2.2 Epistemologia della scoperta ed estrazione dei dati
I regolamenti etici partono infatti da una concezione che potremmo definire estrattiva dell’informazione, per cui il lavoro dello scienziato sociale è equiparato a un’azione di data mining rispetto a risorse che sarebbero nel possesso integrale e interamente nella disponibilità del “fornitore di dati”. Da questo punto di vista, il datore è proprietario di un bene che può cambiare fruitore solo previo esplicito consenso del datore, e con il parimenti esplicito riconoscimento del ricevente che quel trasferimento non viene fatto a discapito del datore e sarà piuttosto nel rispetto integrale dell’informazione transata. Si può quasi dire che il datore “presta” i dati forniti, di cui continua a mantenere l’integrale proprietà. Si nota subito il pregiudizio dell’individualismo metodologico che questo approccio comporta, ma qui vorrei far notare un altro tipo di pregiudizio, che potrei definire di oggettivismo del dato transato, che ci porterà proprio al valore benefico della serendipità. Quando, come antropologi, sosteniamo che il dato etnografico è coprodotto nell’interazione tra i diversi attori coinvolti, non stiamo formulando in forma elegante un auspicio benevolo, né ci limitiamo ad accettare l’agentività soggettiva dei nostri interlocutori, ma stiamo piuttosto riconoscendo che quella agency istituisce a sua volta una “agency del dato etnografico”. Proprio la specifica epistemologia della scoperta (discovery epistemology) che caratterizza l’antropologia rispetto ad altre scienze orientate all’epistemologia della progettazione (design epistemology) (Lederman 2018) costituisce uno spazio del tutto peculiare per il concetto di “ricerca” (Lederman 2007), per cui lo stesso “dato” non è solo coprodotto, ma anche riconosciuto come tale a prescindere spesso dalle intenzioni “estrattive” del ricercatore. Il fatto che il fieldwork sia spesso caratterizzato da soggiorni lunghi nei contesti tradizionali e oggi in misura crescente si presenti come “at home” rende ancora più complicata questa gestione di un presupposto confine tra ricerca e non-ricerca, con la conseguenza inevitabile che la serendipità non è una scelta, in tali situazioni, ma piuttosto una necessità.
Per non andare troppo lontano, posso dire ad esempio che la mia ricerca con gli squatters romani è iniziata come relatore della tesi magistrale di una studentessa di giornalismo che viveva in un’occupazione e ne era anzi una delle attiviste più dinamiche. Per diversi anni è stato impossibile per me dire se stessi facendo ricerca o didattica, perché con i miei studenti dell’Università di Roma Tor Vergata ho visitato tra il 2009 e il 2016 diverse occupazioni, e addirittura in un caso abbiamo documentato il primo ingresso illegale in una scuola abbandonata della periferia romana, restando con gli occupanti fino all’arrivo delle forze dell’ordine che, dopo una breve trattativa, hanno provveduto a sgomberare lo stabile occupato.
A questa confusione tra ricerca e didattica si è poi sommata la sovrapposizione frequente per alcuni anni tra i miei interessi di antropologo professionista e la mia partecipazione come cittadino comune a eventi pubblici come seminari, tavole rotonde, proiezioni cinematografiche o feste, organizzate da comitati politici per il “diritto all’abitare”. In questi incontri il mio interesse personale per quel libro o quel documentario, o la mia passione per il cibo “esotico” preparato dalle donne straniere e italiane delle occupazioni, si incrociavano facilmente con nuovi incontri personali, che avrei approfondito in momenti successivi “di ricerca”, o con storie e racconti che facilmente annotavo sul taccuino che porto con me. Dove iniziavano e dove finivano lo spazio e il tempo della mia ricerca? Per quali contesti la mia etica di cittadino e quella di ricercatore potevano essere tenute separate? Che spazio ci può essere di “consenso informato” se ti hanno presentato un attivista di un comitato di squatters che ha scritto un libro (Armati 2015) e tu sei andato all’evento per poi fermarti a chiacchierare con lui? Il fatto che tu gli abbia chiarito di essere un antropologo e che stai “lavorando con le occupazioni” è sufficiente per stabilire in modo univoco le vostre reciproche posizioni di potere?
Non si tratta certo di sottovalutare il ruolo che la dimensione etica gioca nella nostra professione, ma piuttosto di riconoscere il valore etico inscritto in una postura che non trova molto spazio nei ricettari istituzionali di etica della ricerca, vale a dire la postura di chi è disposto ad anticipare solo il suo stupore per essersi imbattuto in un’evenienza del fieldwork che non si aspettava. Questa disposizione coincide con quel che Simone Weil ha chiamato “attenzione”, o assenza di aspettative preconcette:
«L’attenzione consiste nel sospendere il pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto […] E soprattutto il pensiero deve essere vuoto, senza cercare nulla, ma pronto a ricevere nella sua nuda verità l’oggetto che lo penetrerà» (Weil 2024: 455).
Se non si amano questi riferimenti al limite del teologico, possiamo insistere nella nostra tradizione disciplinare e ricordare che questa attesa si definisce nel campo come disposizione fondamentale dell’ascolto, che l’antropologia ha assunto consapevolmente ed esplicitamente come sua propria almeno da quando si è ridefinita come disciplina dialogica (Rabinow 1977; 1985). Il vantaggio e financo la necessità di una postura aperta alla serendipità nel campo si conferma tenendo conto di una peculiarità credo unica del modo in cui viviamo il fieldwork. L’antropologia è una scienza sociale che tratta l’intimità culturale sia come un oggetto di indagine (Herzfeld 1997) sia come strumento di ricerca (Amit-Talai 1999), perché crede sul serio (o almeno così dichiara la nostra epistemologia) che uno dei suoi compiti fondamentali sia dare spazio alla voce dell’Altro, certo coprodotta nell’interazione con l’etnografo – non oggettivata ma intersoggettivamente costruita – ma che può essere davvero veicolata, vale a dire resa pubblica, a condizione che l’etnografo si assuma la responsabilità della sua circolazione con gli strumenti di cui dispone e che spesso sono inaccessibili, o accessibili in quote di potere infinitesimale, ai nostri interlocutori durante la ricerca.
In un’infosfera sovraffollata, la postura etnografica dell’ascolto diventa intrinsecamente morale, perché nel sistema attuale di politica del riconoscimento (per cui esisti anche soggettivamente nella misura in cui la tua identità è pubblicamente riconosciuta) avere uno spazio dove “farsi sentire” e “farsi vedere” è la ricchezza identitaria fondamentale e la battaglia politica spesso altro non è che la battaglia per trovare un adeguato speech corner per la propria postura. Diversamente da quel che sembra implicare molta della manualistica e della regolamentazione etica, noi antropologi sul campo facciamo dunque più o meno l’opposto del data mining, così che il “dato etnografico”, spesse volte, non è calcolabile in anticipo, o estratto a forza o addirittura rubato, ma offerto come un regalo inaspettato (ecco la serendipità) dalle persone con cui interagiamo, che non di rado vi aggiungono quasi un moto di sorpresa per l’attenzione prestata loro. Mi rendo conto che tutto questo possa suonare paternalistico, ma è proprio l’onestà intellettuale della nostra professione che ci consente di riconoscere agency anche lì dove altri vedrebbero null’altro che subalternità morale.
2.3 Gorilla invisibili a Rebibbia
Un esempio dalla mia ricerca riguarda le persone detenute nel carcere romano di Rebibbia, il più grande d’Italia. L’università per cui lavoro dal 2008, Università di Roma Tor Vergata, ha attivato da quasi due decenni un percorso di studi universitari per gli studenti detenuti. Nato come “teledidattica”, con qualche fatica e grazie all’impegno di alcuni preziosissimi colleghi che hanno iniziato a frequentare il carcere di persona, il progetto si è evoluto in un quasi “dipartimento di studi” dentro il carcere, con docenti che fanno lezione o comunque supervisione dello studio e alcun tutor di sostegno, studenti o ex studenti dell’Ateneo. A Rebibbia ho tenuto lezioni e fatto esami sia con i detenuti “comuni” sia con i detenuti del reparto di Alta Sicurezza, persone detenute per reati associativi (criminalità organizzata, mafie di varia denominazione) o legati allo spaccio internazionale di sostanze stupefacenti. Non è facile condensare quel che “succede” quando si attraversano i cancelli di un carcere per andare a “insegnare ai carcerati”, ma non credo sia difficile immaginare le conseguenze sul piano biografico-personale (Vereni 2017) e su quello teorico (Vereni 2021c) di un simile rapporto prolungato e ravvicinato con una popolazione così specifica: si fa lezione nelle aule studio concesse ai detenuti dei diversi reparti sorseggiando il caffè fatto al momento e a volte condividendo, quando succede, qualche cibo preparato dagli stessi. Vista la natura del contesto etnografico, è inevitabile che “la lezione” non sia che una parte (spesso minima, spesso addirittura assente) delle interazioni che vi avvengono e, in questo caso, il patto etnografico è quello della visibilità o, meglio, della esemplarità, in cui i due (o più) attori si pongono in disposizione di attesa, in ascolto, prestando la massima attenzione a quel che succederà e restando disponibili ad accogliere quel che quasi mai era previsto.
Il sistema giudiziario italiano esclude la possibilità formale di una condanna al “carcere a vita”, ma di fatto alcune persone accusate di reati legati alla mafia possono trovarsi in un regime di “ergastolo ostativo”, vale a dire in un regime in cui la loro pena non cesserà se non con il loro decesso, dato che per il sistema giudiziario italiano una condanna è “ostativa” quando deve essere scontata per intero, senza la possibilità di alcun beneficio (indulti, amnistie, sconti per buona condotta). In particolare, questi detenuti “ostativi” vedono nelle persone che entrano dall’esterno un canale di comunicazione con un sistema vitale che a loro risulta totalmente inaccessibile. Partecipano allora a corsi di teatro, scuole di scrittura, seminari filosofici, laboratori di pittura e corsi universitari con la stessa urgenza di “visibilità” e di contatto con l’esterno.
Davvero, non so dire quando una lezione sulla parentela scivola nella discussione dei rapporti di solidarietà tra membri della stessa “famiglia” o quando il concetto di reciprocità dell’antropologia economica diventa il fulcro per una discussione infuocata sul “pentitismo” o sul concetto di “tradimento”. Quel che posso dire è che io cerco di non scordare che il mio lavoro di servizio deve adattarsi alle specifiche esigenze comunicative, emotive e morali dei miei interlocutori/studenti detenuti. La legittimità del patto, la sua stessa natura morale, è garantita proprio dalla sperequazione di potere: io libero, loro carcerati; io con diritto di parola, loro azzittiti nella loro condizione di reclusi; io in grado di “portare la voce”, loro disponibili ad offrirmela come dono ambivalente. Questo patto preesiste qualunque liberatoria sull’uso dei dati, e sono semmai le istituzioni carcerarie a pretendere un controllo rigoroso sul nostro operato, per cui per l’ultimo progetto di ricerca sul “senso della giustizia tra le persone detenute” che ho realizzato nell’estate 2023 non ho avuto modo di utilizzare un registratore per gli incontri svolti, ma mi è stato imposto di sottoporre preventivamente alla Direttrice del carcere il materiale eventualmente destinato alla pubblicazione.
Per il tipo di interazioni che spesso viviamo sul campo, perché possano portare da qualche parte, cognitivamente e moralmente, sembra inconcepibile uno spazio formale di valutazioni preesistenti, una griglia delle possibili variazioni. Perché, davvero, non c’è modo di pre-vedere cosa mai avranno da dirsi un professore di antropologia e un mafioso condannato all’ergastolo quando discutono del fatto di cronaca appena successo o dei massimi sistemi filosofici; quando si informano sullo stato delle rispettive famiglie, si raccontano di nascite e matrimoni, di dolori o piccole soddisfazioni. Questo processo, di reciproca presa in carico come esseri umani, si chiama “vita” e non ce la farà mai ad essere contenuto nelle raccomandazioni o nei prontuari di opzioni etiche.
Un atteggiamento disponibile alla serendipità diventa allora un promemoria, un piccolo allarme costantemente accesso, visto che la nostra ricerca rischia spesso di imbattersi inavvertitamente nel “gorilla invisibile” (Chabris e Simons 2012), cioè nel convitato di pietra che però il ricercatore sul campo semplicemente non vede, perché è troppo indaffarato a cercare altro. Come nel racconto di Edgar Allan Poe, il campo è pieno di “lettere rubate”, che il ladro nasconde proprio mettendole in bella vista, confidando che la nostra miopia non ci faccia guardare lì dove si mimetizza l’oggetto del furto, tutti intenti come siamo a cercare inesistenti nascondigli segreti.
Pare che Eraclito abbia detto che “vale più un accordo tacito che manifesto”. Tutti, cercando di prestare attenzione a questo enunciato, capiamo che parla di Fiducia vs Legge, di Pratica vs Grammatica, di Sostanza vs Forma, di Contenuto vs Esposizione. Soprattutto, capiamo tutti che in quel detto non è contenuta alcuna svalutazione del livello formale, ma solo la messa in luce della necessità dell’informale se si vuole ottenere qualche risultato in quel sistema misterioso e intricato che chiamiamo “rapporti umani”.
Come studiosi o scienziati sociali abbiamo sicuramente il dovere di rispettare la privacy delle persone con cui di relazioniamo sul terreno ed essere scrupolosi nel sottoscrivere ogni documento necessario a questo fine, ma come antropologi sul campo abbiamo la necessità di instaurare un “accordo tacito”, una connessione vale a dire basata sulla fiducia tra noi e gli interlocutori nel terreno di ricerca. Senza quel che il silenzio implica (è un “tacito” che non deve essere rivelato, perché rivelarlo sarebbe manifestarlo, renderlo dunque oggettivato, formalizzato, vale a dire l’opposto di quel che deve essere), ogni regolamento, ogni codice etico, ogni consenso concesso o richiesto non sarebbe che il vuoto contenitore del nulla. Per questo la serendipità è necessaria durante il fieldwork, perché consente a chi conduce la ricerca di riconoscere pubblicamente l’umiltà della propria condizione: ci sono tante cose che non sappiamo, le persone sul terreno non sono solo miniere in cui individuare i filoni che interessano a noi. Sono anche nostre guide, ci fanno notare, se a loro davvero ci affidiamo, i gorilla invisibili, e spesso è proprio nella conversazione che instauriamo che il gorilla diventa visibile anche a loro. Ecco, potremmo chiudere questa prima sezione dicendo che la serendipità di cui stiamo parlando è una disposizione circonfusa di umiltà, una prospettiva che deriva proprio dalla consapevolezza dei propri limiti come ricercatori.
Quello da cui invece dovremmo tenerci alla larga è la paura di tentare connessioni che colleghino il nostro fieldwork ad altri contesti di ricerca, perché questo atteggiamento pavido e anti-serendipico limita le capacità immaginative della nostra disciplina e l’impegno a formulare enunciati generali sulle ragioni e il senso del variegato comportamento degli esseri umani.
3. Epistemologia e serendipità
3.1 Dal punto di vista delle perle
Ho introdotto questo testo sostenendo che è importante distinguere la serendipità metodologica o etnografica dalla questione epistemologica o teoretica (quel che possiamo conoscere in principio come ricercatori di antropologia), questione invero assai più intricata. Se non abbiamo chiaro il quadro epistemico, quel che possiamo o non possiamo conoscere, i limiti entro cui ci muoviamo come ricercatori e l’orizzonte storico, cognitivo e cosmologico dentro cui si muovono “loro”, chiunque siano, diventa altissimo il rischio di andare a zonzo senza avere la minima cognizione di cosa stiamo rinvenendo, con l’effetto finale che dragheremo un fondale sconosciuto, per cui non solo non abbiamo idea di cosa dovremmo cercare, ma non abbiamo gli strumenti per comprendere quel che potremmo avere raccolto inavvertitamente. Si configura in questo modo un quadro anti-serendipico per eccellenza: “the ability to identify matching pairs” può infatti realizzarsi solo a patto che vi sia un retroterra, uno sfondo su cui collocare quel processo associativo e comparativo che solo può portare alla generalizzazione scientifica. In assenza di questo sfondo, le connessioni non si realizzano e viene meno il valore esplicativo del nostro lavoro.
La carenza di una prospettiva teorica, intendo, mortifica la serendipità, ne restringe intenzionalmente gli spazi, pretende di trovare risposte confortanti e solo negli usati angoli teoretici. Con l’effetto generale che potremmo definire il trionfo delle perle ai porci: non solo i porci non le cercano, ma quand’anche le trovassero non saprebbero che farci. Questo è il rischio della pavidità epistemologica: imbattersi in qualcosa della cui rilevanza non abbiamo la minima idea perché non osiamo collegarla ad altri contesti/concetti fuori dal campo. Si rischia così di maneggiare con leggerezza e faciloneria cose che invece meriterebbero tutt’altra attenzione e cura. Nelle nostre critiche culturali, cioè, a volte vediamo le cose solo dal punto di vista dei porci: le perle sono roba inutile e niente affatto appetibile. Basta però ribaltare il punto vista e diventa più chiaro perché la mancanza di coraggio e la sciatteria epistemologica che ne consegue siano pericolose: dal punto di vista delle perle, i porci sono la peggiore delle iatture, perché non solo non comprendono, ma fanno danni come pochi.
Molto brevemente, in quel che segue sostengo l’idea (senza poterla qui argomentare se non in estrema sintesi) che questo atteggiamento di pavidità e faciloneria epistemologica sia stato legittimato dalla progressiva svalutazione che la generalizzazione antropologica ha subito sotto il maglio critico di quei quadri epistemologici via via più sfilacciati che finivano per contrastare prima di tutto le teorie come “grandi narrazioni” o “discorsi”, comparabili per il loro relativo potere ma non per il loro valore di verità. Non vengono ricercate risposte interpretative al di fuori della cerchia delle ipotesi predisposte, come se l’indagine antropologica fosse un “sistema chiuso” alla maniera di quelli descritti da Robin Horton per cui, anche di fronte a contesti complessi, si cede troppo facilmente alle lusinghe di una chiave esplicativa monomaniacale (Haidt 2021), che consente anche di non prestare eccessiva attenzione ai dettagli e alle specificità del campo. Per la nostra argomentazione sulla legittimazione della serendipità epistemologica, il punto di contrasto è l’uscita materialistica e disincantata da qualunque ideologia, concepita inesorabilmente come un “grande quadro”:
«The answer that a rising generation of intellectuals like Michel Foucault and Jean-François Lyotard came up with over the course of the following decades went far beyond a distrust of orthodox Marxism; it rejected the hold that all “grand narratives” have over the human imagination» (Mounk 2023: 782).
Foucault in particolare ha incarnato un modello cripto-messianico difronte alla crisi sistemica del pensiero marxista perché, come ricorda Mounk, è riuscito a tenere assieme un profondo impegno per ideali progressisti della sinistra (giustizia, equità, libertà) con un radicale sospetto nei confronti del potere in tutte le sue forme. Questa combinazione foucaultiana si è realizzata solo nominalmente nell’autore, ma si è travasata in modo complesso alle generazioni figlie del foucaultismo, travaso che ha prodotto le contraddizioni che oggi sono evidenti in quelli che Jonathan Haidt e Greg Lukianoff (2019) hanno definito illiberal liberals. Si è aperta una falla progressivamente più ampia nell’impegno a tener fede al dato reale, e ha trovato più spazio la facile convinzione che ogni metodo valga un altro, e ogni storia possa essere sostituita da un’altra storia, a patto che contribuisca a “svelare” qualche arcano potere che si muove nell’ombra o che resta sconosciuto ai non iniziati.
Il paradosso è che in questa metamorfosi dalla ricerca della verità al disvelamento del dispositivo occulto di oppressione si è smarrito non solo il senso, ma l’obiettivo originario del nostro lavoro di antropologi, vale a dire la capacità di formulare enunciati generali sulle forme del comportamento appreso della nostra specie. Clifford Geertz ha incarnato nel modo più puro la versione “che ci possiamo fare?” dell’antropologia come scienza idiosincratica che non può più sperare, un giorno, di giungere a qualche ragionevole enunciato generale sulla natura della nostra specie. La nostra natura, secondo Geertz, è tutta coincidente con la nostra cultura; i condizionamenti biologici, proprio perché sono universali, sono irrilevanti per spiegare la varietà delle pratiche e delle credenze, e quindi dobbiamo accettare il fatto che possiamo spiegare il senso (dal punto di vista dei nativi) ma non possiamo più spiegare l’origine (perduta chissà dove) né il quadro generalmente umano, perché quel quadro, se anche è mai esistito come scaturigine primigenia di quel modo di agire, non serve alla ricostruzione ermeneutica della “local knowledge”, che è l’unica ambizione che ci possiamo permettere.
Geertz, fortuna sua, era abbastanza intelligente e abbastanza colto da prendere le sue stesse affermazioni con la saggezza di chi sa che sta in parte provocando per far reagire i sonnolenti, e in parte esagerando per sondare il terreno in avanscoperta, ma è evidente che la crisi post-strutturalista e la trasformazione degli antropologi in attivisti politici a tempo pieno hanno sovvertito le intenzioni originarie di chi propugnava la svolta linguistica come un passo necessario per far diventare l’antropologia “più scientifica”, non certo anti-scientifica come è successo a tratti da lì in poi.
Intendiamoci, la svolta linguistica in antropologia è stata essenziale per svecchiare un’epistemologia ottocentesca e di fatto ingenuamente positivista, che aveva al suo centro metodologico “l’osservazione” (per quanto partecipante) intesa come una pratica più o meno spontanea. Gli antropologi avevano bisogno, come ricercatori, di comprendere meglio la natura complessa della relazione tra linguaggio e realtà, tra parole e cose, e sicuramente pensatori come Edmund Leach e Marilyn Strathern nel Regno Unito o Clifford Geertz e George W. Stocking negli Stati Uniti sono stati fondamentali per recuperare qualche credibilità accademica alle stranezze riportate dal fieldwork. I professionisti del lavoro etnografico hanno allora cominciato a leggere – tra molte cautele – qualcosa di filosofia del linguaggio e di epistemologia e a sgrezzare le spesso imbarazzanti formulazioni “teoriche” che avevano proposto fino ad allora.
In realtà, sto parlando soprattutto del sistema anglosassone o generalmente anglofono delle pubblicazioni, un mondo che considerava l’antropologia (primariamente quella sociale, ma anche l’antropologia culturale americana) una branca delle scienze naturali più affine alla geologia o alla botanica che non alla filosofia o alla critica letteraria.
In Italia si stava, fin dentro il secondo dopoguerra, più o meno nella posizione inversa, con una tradizione vagamente umanistica imbevuta di letteratura popolare da un lato e di idealismo crociano dall’altro, che avrebbe trovato uno sbocco pseudo-scientifico nel marxismo variamente inteso, ma destinato a diventare l’unico sistema di pensiero praticabile nelle scienze sociali e in particolare nell’emergente antropologia culturale. L’affacciarsi deciso di una sinistra politica imbevuta di secolarismo anticlericale (facilmente tradotto in antireligioso) e di internazionalismo antistatale (facilmente traducibile in antisistema) e molto cosciente di sé produsse un rapido distacco dalla prospettiva canonica degli studiosi di tradizioni popolari, proprio per via della connotazione di classe che ormai dava alla nozione di popolo, fino ad allora ritenuto più coincidente con una sorta di “anima etnica” della nazione.
3.2 Spettri del potere, spettri del sapere
Il marxismo, con la sua ideologia involontariamente “simbolica” della storia come lotta perenne tra classi egemoni e classi subalterne, divenne – forse in Italia prima che altrove, subito dopo la precocissima Francia – la porta di accesso tramite cui la concezione pansemiotica della cultura poté dilagare e imporsi come la teoria normale, fino al giorno d’oggi. Sembra piuttosto paradossale che il costruttivismo radicale (la realtà – non solo quella sociale – è costituita da “discorsi”, cioè è un prodotto tutto interno al linguaggio umano, non gli preesiste in alcun modo) abbia potuto imporsi così rapidamente nelle placide acque praticate fino ad allora dai collezionisti di stramberie esotiche o rurali, ma per spiegare questa rapida presa non dobbiamo dimenticare che il superamento dell’empirismo ingenuo veniva propugnato in nome di una battaglia che era etica (orientata al bene) più che epistemica (orientata al vero).
Non ci possiamo soffermare ulteriormente su questa storia dell’epistemologia delle scienze sociali, e mi limito a enuclearne l’asse centrale per l’argomentazione che voglio presentare in queste note, vale a dire che piuttosto rapidamente l’antropologia smette di essere una scienza che cerca di elaborare enunciati generali oppure qualche spiegazione causale della diversità culturale, e diventa una prospettiva di lotta e di disvelamento, che quindi non ha più bisogno di reggersi sulla solida roccia del “dato di fatto”, per acquisire invece lo stile linguistico e la postura morale di un Pubblico Ministero che combatte l’ingiustizia come si presenta discorsivamente nella sempiterna lotta tra sfruttatori e sfruttati, tra oppressi e oppressori. La faciloneria epistemologica che ne deriva, e quindi l’illusione che, sul campo, “tutto va bene, Madama la Marchesa”, uccidono qualunque velleità serendipica. Visto che la ricerca sul campo guarda le cose solo attraverso il filtro del “potere”, tutte le correlazioni teoriche tra oggetti e concetti sul terreno sono solo maschere simboliche, simulacri baudrillardiani che non occultano nulla se non il vuoto che li costituisce.
Questo miscuglio esplosivo di costruttivismo linguistico radicale (tutto è discorso) e di determinismo politico parimenti radicale (le relazioni umane sono solo relazioni di potere tra oppressori e oppressi) impone una sua metodologia di ricerca (l’ossessione per il significato) che corrisponde a una sua epistemologia (lo spazio umano è una rete di segni che dobbiamo decrittare e svelare quando occultati) che diventa anche un’ontologia o almeno una cosmologia sociale universale. Non solo il consesso degli umani, ma tutto il mondo, viste queste premesse, non può che essere un sistema linguistico in cui si dipana un’eterna lotta per il potere tra raggruppamenti in competizione tanto per le risorse quanto per i significati culturali che, di fatto, le riconoscono come risorse.
Chi si suppone o pre-suppone abbia “più potere” deve essere combattuto; chi ha “meno potere” deve invece essere sostenuto: questo è il motto insieme politico e scientifico della ricerca etnografica, della riflessione antropologica e della prospettiva teorica. Le conseguenze per la ricerca sociale di questa cosmologia sono devastanti, e talmente pervasive che ancora fatichiamo a coglierne la portata, soprattutto perché il determinismo soggiacente è tutto di impianto materialista, e il materialismo, notoriamente, non ha grandi mezzi intellettuali per trattare quel che Weber dichiarava essere “il problema del Significato”. Dal punto di vista della serendipità, questo atteggiamento rende impossibile il gioco dell’azzardo teorico su base comparativa (“il dato x del campo X e il dato y del campo Y potrebbero essere occorrenze di una regola R che si applica a entrambi i campi”), perché qualunque connessione altro non è che un ulteriore velo discorsivo (il dato è un costrutto del linguaggio, non è un fatto reale preesistente, dato che non c’è alcuna realtà preesistente alla sua messa in forma discorsiva), per di più passibile dell’accusa di essere un’ulteriore grande narrazione (l’individuazione di una regola R che comprende più campi è un’illusione retorica, tipicamente messa in atto da due tipi di soggetti: le anime belle, cioè gli ingenui che non hanno capito come funziona il rapporto tra sapere e potere, e i cinici calcolatori, che l’hanno capito perfettamente e tirano l’acqua al loro mulino politico).
La prima vittima di questo quadro epistemologico è il sistema simbolico nella sua forma “autonoma”, quel che le scienze sociali hanno definito variamente come “cosmologia”, “visione del mondo”, “religione”, che non possono proprio più esistere in quanto sistemi autonomi dato che, per definizione, altro non sarebbero che strutture discorsive che promanano da soggiacenti sistemi di potere.
Naturalmente non tengo conto, in questa spericolata sintesi che prova a raccontare la crisi della serendipità nella teoria sociale, delle tante voci che in vario modo si sono opposte a questa deriva pansemiotica (Cirese 1984) e cratofobica (Vereni 2021b) del reale sociale, e mi limiterò, per introdurre un piccolo squarcio quasi-etnografico, ad accennare al pensiero dell’ultimo Marshall Sahlins (2023) che fa i conti con le conseguenze per la scienza antropologica di una svolta ontologica presa sul serio anche dal punto di vista delle perle, per così dire. In queste sue ultime parole Sahlins affronta una questione essenziale, eppure rimossa (o affrontata molto male[2]), vale a dire la questione ontologica generale: in che tipo di “realtà” viviamo? Qual è, alla radice, la sua natura? Fino a che punto possiamo accettare che il principio costruttivista sia esportabile? Se noi occidentali, davvero, viviamo in un impero dei segni caratterizzato dalla lotta per il potere tra oppressi e oppressori, è possibile che altri umani, non occidentali, vivano naturalizzando altre ontologie?
Sahlins arriva alla sconfortante conclusione che l’antropologia culturale non solo non è stata capace di rappresentare in modo adeguato le altrui visioni del mondo, ma ha sostanzialmente imposto a queste culture altre la sua cosmologia e il suo specifico realismo, travisando quindi le cosmologie e le ontologie indigene, rappresentate troppo spesso come versioni “errate” o “false” o “simboliche” della sua ontologia, data sempre e solo per vera, reale e sperimentabile.
Il problema di Sahlins, se così posso dire, è che il suo modello prevede una contrapposizione netta tra concezioni immanentiste (la quasi totalità dell’umanità) e quelle trascendentiste (le “nostre”, in pratica) e non tiene conto del ruolo assolutamente peculiare che il cristianesimo ha avuto in questa contrapposizione. Almeno in Italia è ancora dominante nel senso comune la convinzione che pensiero razionale e fede religiosa siano in intima contraddizione, e che questa contraddizione sia tanto più evidente quanto più la fede è praticata secondo modalità “tradizionali”, vale a dire nella forma cattolica. Vorrei provare a toccare questa questione dal punto di vista cioè di un paese che per ragioni storiche auto-evidenti ha un rapporto complicato con il cattolicesimo, fatto coincidere con l’istituzione religiosa.
La “credenza”, quale che sia, in questo contesto epistemologico non può essere altro che una proiezione del potere e del sistema di dominio. La conseguenza principale di questo atteggiamento, nel caso specifico del cattolicesimo italiano, è una curiosa variante dell’effetto Dunning-Kruger, dietro cui si affaccia la negazione sistematica di qualunque serendipità strategica o teorica: il dato x nel campo X va letto esclusivamente come funzione di qualche fattore esterno, spesso sintetizzato in un vaghissimo “potere”: x = f(p). Questa grammatica non lascia alcuno spazio per letture trasversali, per azzardi teorici, per connessioni serendipiche, insomma, dato che la formula logica della serendipità dice proprio che l’atto di cercare x nel campo X produce l’inaspettata scoperta di una sua relazione significativa con y nel campo Y.
Nel caso specifico, questa negazione della serendipità si manifesta in modo tale per cui quanto meno una persona è dotta nel culto cattolico e nel suo sistema di credenze, tanto più manifesterà con veemenza le sue critiche al sistema oppressivo dell’autorità religiosa. Si tratta, come spero sia chiaro sto cercando di argomentare, di un caso di epistemologia cialtrona, per cui ci si sente autorizzati a parlare in modo assolutamente rigido (x è funzione di P) di una cosa di cui spesso si sa pochino, in nome della propria postura polemica contro l’oggetto di cui si discetta, trattato non tanto come un ente di cui non si conoscono storia e funzioni, ma come un puro segnaposto del potere. L’obiettivo non è allora quello di conoscere x o di fornire di x una rappresentazione adeguata, ma piuttosto di dimostrare la “giusta postura” dell’enunciante, con una procedura di distinzione secondo quanto ci ha insegnato Pierre Bourdieu. Dopo il 7 ottobre 2023 abbiamo visto questo dispositivo variamente applicato per “interpretare” il conflitto arabo-israeliano, ma visto che quel tipo di dinamica richiede una trattazione specifica (pare che il lemma “Palestina” stimoli una sorta di coazione a firmare petizioni tra gli antropologi italiani) limiterò le mie considerazioni a un caso assai più piccolo e maneggevole.
Tutto ha avuto inizio con due post pubblicati l’8 dicembre di qualche anno fa da due utenti di Facebook. Il primo era molto dettagliato e ne riporto solo i punti che mi interessano:
Premettendo che
- sono convintamente atea praticamente da sempre […]
- che ho studiato antropologia, per cui so quanto riti e feste, in tutte le culture, contribuiscano a dare senso all’esistenza umana e sono strumenti di cui le comunità si servono per confermare e legittimare periodicamente valori e regole
non capisco perché tanta gente […] non si esprima in merito alla celebrazione di una cosa come “l’immacolata concezione”, addirittura festa nazionale con scuole e luoghi di lavoro chiusi.
Continuiamo senza troppe domande a celebrare un’immagine di donna asservita, peraltro giovanissima, cui viene imposta una gravidanza senza chiederle neanche un parere in merito (violenza divina?), celebrando la verginità come un valore (quella femminile ovviamente, perché Gesù era invece circondato di donne), e condannando il piacere femminile come se fosse un peccato, […]
Il secondo invece era più stringato, ma conteneva in nuce lo stesso errore concettuale:
Preghiere che recito ogni anno
“Oh Maria che concepisci senza peccato, fammi peccare senza concepire!”
Post scriptum: [oggi è] 8 dicembre
Siamo di fronte a un caso di pura e semplice ignoranza, dato che le persone che hanno postato confondono la maternità verginale di Maria con il suo essere stata concepita senza portare nell’anima la macchia del peccato originale. Entrambi i post hanno ricevuto molti segnali di consenso, con diversi like e commenti positivi che ricordavano molto un esercizio di pragmatismo rortyano del tipo raccontato da Geertz nel suo Gli usi della diversità: diamoci di gomito e tiriamo un sospiro di sollievo per essere nati senza anello al naso.
Ho risposto a questi post facendo notare, con discrezione, l’errore concettuale (essere generati senza peccato originale è cosa ben diversa dal generare senza atto sessuale) ma la reazione al mio fraterno paternalismo è stata forse ancor più interessante dell’ignoranza iniziale. Nessuna delle due persone ha infatti riconosciuto l’errore (sembrava un dibattito preelettorale di qualche anno fa: “questa è la sua opinione!”) e in entrambi i casi la difesa retorica è passata per l’attribuzione a sé stesse dello status di vittima: dei maschi in quanto donna, in un caso, dell’ipocrisia clericale in quanto (donna) meridionale, nell’altro. Non mi sogno certo di dire che le donne non abbiano avuto (e non abbiano tuttora) più di una gatta da pelare nel far quadrare la loro eventuale fede cristiana con il sistema della gerarchia cattolica, né che l’oppressione del patriarcato in Italia non sia passata (intersezionalmente, ci mancherebbe) attraverso gerarchie geografiche molto connotate lungo l’asse Nord-Sud, ma la seguente domanda non perde certo la sua validità: che cosa hanno a che fare questi giudizi “politici” sulla condizione femminile e meridionale in relazione alla Chiesa Cattolica con il fatto che è un errore concettuale confondere l’Immacolata Concezione con la maternità verginale di Maria? Come è possibile che un’ingiustizia subita venga portata come argomento a giustificazione della propria ignoranza? Che cosa significa dire: sono ignorante ma questo non conta, conta di più che sono una vittima e parlo a nome delle vittime?
La discussione su Facebook ha preso insomma una direzione gustosa, con il sottoscritto che faceva il professorino e le due autrici dei post (immagino lettrici accorte di Michela Murgia) che insistevano che comunque il modello di femminilità prospettato per Maria (“Maria nell’insieme”, direi, o “Maria tutto sommato”) fosse privo di qualunque connotazione positiva, e anzi confermasse il basso prestigio attribuito alla donna in generale dal cristianesimo cattolico. Vista la reazione, tutta orientata alla trasvalutazione del caso specifico (cioè alla riconfigurazione del significato in un contesto più ampio, assieme generale e generico (cfr. Tambiah 1996)) ho desistito presto dal continuare la discussione (un poco irritato anche dall’intervento di un’amica e collega, che aveva scritto un commento in cui prendeva le parti di una delle due persone, in nome del fatto che “non ho senso dell’umorismo”) ma non sarebbe stato difficile replicare che, con un minimo di approccio -emic, la dottrina cattolica diventa tutt’altro che spregevole come oggetto di analisi antropologica, al punto che, per chi ha studiato qualcosa della Summa di san Tommaso, sia detto senza offesa, l’Ogotemmêli di Griaule sembra un po’ un ingenuotto di provincia, e in fondo si capisce perché Umberto Eco se la tirava così tanto quando vantava le sue competenze di filosofia scolastica.
La cosa più triste di queste conversazioni senza un accordo (morale, più che epistemico) sul valore dell’oggetto in discussione (in questo caso: l’anima senza macchia di Maria) è che si tratta di un dialogo tra sordi, e l’antropologia come spazio di comprensione del pensiero altrui risulta una pratica alquanto deludente. Non c’è modo di comunicare la prospettiva -emic della teologia cattolica (e del culto cattolico popolare per molti secoli) e cioè che l’Immacolata Concezione si può leggere come una sorta di prerequisito logico perché la trascendenza divina possa farsi umana immanenza, superando così in una sintesi davvero vichiana la contrapposizione che Sahlins ha posto troppo rigidamente tra il “loro immanentismo” e il “nostro trascendentismo”.
Massimo Cacciari ha scritto anni fa “L’angelo necessario” (Cacciari 1992), che è necessario perché conduce “dalla cosa all’invisibile”, oltre i limiti del senso immediato. Dice Cacciari: «L’Angelo testimonia il mistero in quanto mistero, trasmette l’invisibile in quanto invisibile, non lo ‘tradisce’ per i sensi». Maria che viene visitata dall’Angelo deve costituire il contesto possibile perché quel messaggio dell’angelo si faccia carne sul serio, perché la sua assoluta alterità non-umana (il divino, appunto) possa diventare umanità corporea. L’Immacolata Concezione diventa così una sorta di pre-condizione per la discesa nell’immanenza dell’assoluto trascendente tramite il corpo divino di Gesù.
Dobbiamo almeno riconoscere che grazie a questo esercizio retorico (assumiamo il punto di vista del nativo e cioè: fingiamo che gli Ogotemmêli cristiani provassero a dire qualcosa di sensato elaborando le loro astrusità sul concepimento immacolato di Maria da parte dei suoi genitori) la figura del corpo femminile raggiunge un livello di perfettibilità inaudita. Nell’era assiale, Maria è l’unico portale di accesso della trascendenza che nella versione della teologia ebraica può transitare nella fisicità dell’umano, e l’Immacolata Concezione, almeno in questa chiave, configura un’immagine non certo automaticamente spregevole della donna e del suo corpo.
Conclusioni: la serendipità come coraggio per la teoria
L’esempio para-etnografico che ho presentato è sicuramente di modeste dimensioni, ma sembra indicativo di una certa tendenza più generale a soffocare la pulsione serendipica in nome di spiegazioni prosaiche, politicamente impegnate, certo, ma che suonano spesso come piagnistei di cui non è chiarissima la giustificazione (Hughes 2003).
L’antropologia culturale sembra oggi vivere una condizione di sdoppiamento nella considerazione della serendipità. Sul piano metodologico, nel momento in cui si tratta solo di raccogliere dati di campo, sembra esserci una generale accettazione del fatto che quadri epistemici anti-serendipici – come quelli prospettati dai comitati etici e dai regolamenti su privacy e consenso informato – rischiano di rendere il campo uno spazio opaco. L’antropologia legittima parte della sua inquietudine antimetodica proprio come necessaria ad aprire raccordi inaspettati tra elementi non facilmente associabili, spazi, vale a dire, in cui la serendipità è non solo ben accolta, ma attivamente perseguita.
Quando però ci si sposta sul piano teorico delle spiegazioni e delle interpretazioni più ampie del livello locale, sembra prevalere una tendenza a ridurre gli spazi esplicativi e le connessioni possibili, creando quindi un ambiente ostile alla serendipità. Per timore di non essere abbastanza concreti e realistici, o per paura di essere accusati di qualche connivenza con qualunque forma di potere, è facile dare corpo a teorie esplicative unilineari, essenziali e quindi poco disposte a connettere in modo spericolato (o anche solo ambizioso) concetti e oggetti che appartengono a campi lontani.
Sembra in effetti esserci una contrapposizione di tipo logico tra lo spazio della serendipità nel fieldwork e il rigore tendenzialmente monomaniacale e decisamente anti-serendipico della teoria, in modo particolare quando quella teoria si definisce “critica”.
La serendipità è particolarmente complessa da catturare in un linguaggio formale, proprio a causa della sua natura imprevedibile. Tuttavia, possiamo cercare di esprimerne alcuni aspetti utilizzando una formula che potrebbe considerare:
L’esistenza di due campi distinti X e Y.
L’atto di cercare un elemento x ∈ X.
La scoperta imprevedibile di un rapporto significativo tra l’elemento y∈Y e l’elemento x∈X durante la ricerca di x.
Possiamo esprimere questo concetto in modo formale come segue:
Questa formulazione suggerisce che durante la ricerca di un elemento x nel campo X, può essere scoperta fortuitamente una relazione tra l’elemento x e un elemento y di un campo Y il cui valore è positivo, nonostante tale relazione non fosse prevista. Si tratta di una formulazione radicalmente diversa da quella che rappresenta invece molto “pensiero critico”, che si concentra sulla relazione presupposta tra due campi che non può non riflettersi nella relazione dimostrata tra i loro rispettivi elementi.
L’espressione logica che vogliamo formalizzare in questo caso è: “l’elemento x del campo X è funzione di P”, che si può scrivere nel modo seguente:
Questa formula esprime l’idea che il dato x nel campo X è determinato come risultato di una funzione f che prende in input un elemento del dominio P.
Ho indicato il dominio con la lettera P, per Potere, ma avremmo potuto usare la S per Sessualità, oppure la M per Massimizzazione, o ancora la G per Genetica, a indicare in ogni caso la presupposizione di una correlazione funzionale, per cui quel che sto cercando di comprendere è comunque una variabile dipendente. La differenza tra la formula della serendipità e quella della formulazione teorica che ho provocatoriamente denominato formula del “pensiero critico” è proprio la natura dei campi coinvolti e la loro relazione. Nella serendipità i due campi sono del tutto irrelati ed è semmai l’imprevisto legame tra un elemento di un campo e un elemento di un altro campo a istituire la possibilità di una relazione tra campi. Questo tipo di relazione è serendipica per definizione, visto che l’analista la coglie empiricamente (per induzione) o concettualmente (per abduzione), ma non era attesa e non è mai dedotta sistemicamente.
La deduzione invece si applica come unica strategia della scoperta nel caso del pensiero critico, che diventa quindi un caso particolare della classe dei “sistemi chiusi” (Horton 1967): si sa già che c’è una correlazione tra il campo della religione e il campo del potere, e quindi un elemento del primo campo (l’Immacolata Concezione) non può che essere letto come funzione del secondo campo (oppressione patriarcale). Non c’è alcuno spazio non solo per la serendipità, ma anche per qualunque tipo di scoperta, dato che si tratta solo di calcolare la misura di una relazione che, per definizione, deve essere di tipo funzionale ed è già data. L’elemento (Immacolata Concezione) del primo campo (Religione), in questo caso, è determinato da come viene mappato il secondo campo (Potere) nel primo campo. Il punto p in cui il campo Potere mappa il campo Religione nell’elemento Immacolata Concezione è pre-determinato dalla questione di genere, per cui diventa necessario leggere l’Immacolata Concezione come espressione dell’oppressione patriarcale tipica della Chiesa cattolica.
Il cristianesimo è un oggetto di indagine piuttosto spinoso per l’antropologia, e per quanto ci sia da decenni una documentazione etnografica notevole soprattutto in contesti postcoloniali, sono poco più di vent’anni che si cerca di sviluppare un quadro teorico sostanziale su questo tema (Robbins 2007). Ancora più complessa la questione nel caso del cattolicesimo, data la storica caratterizzazione “occidentale” e ancor più europea che lo connota. Le cose, per fortuna, si stanno muovendo grazie al lavoro e all’attenzione di una nuova generazione di ricercatori e soprattutto ricercatrici insoddisfatte della chiusura dei sistemi esplicativi “critici” (Norget, Napolitano, e Mayblin 2017) e desiderose di aprire la teoria antropologica a nuove sfide, in cui ci sia ancora spazio per la serendipità come strumento dell’audacia epistemologica, l’unica strada che ancora può condurre a qualche forma di teoria rilevante.
Non posso che augurarmi e augurare all’antropologia che questo atteggiamento critico verso i determinismi materialisti sia un sintomo di un più ampio cambiamento in atto, grazie a cui potremo finalmente studiare le culture umane iuxta propria principia, smettendo una buona volta di considerarle null’altro che espressioni determinate di funzioni già note. Dobbiamo aprirci a un nuovo incantamento per le scienze sociali, pena la sterilizzazione definitiva di qualunque loro capacità di fornire quadri esplicativi che siano anche quadri sensati. Dobbiamo, per arrivare a questo, prendere la serendipità – di cui facciamo ampio uso nel nostro bighellonare nel fieldwork – e trasportarla nei nostri pensatoi e nelle nostre biblioteche, per riconoscere il valore cognitivo e morale del “pensiero selvaggio” lévi-straussiano, vale a dire un pensiero che non ha paura di associare gli elementi lungo linee inconsuete e, ancor più, inaspettate.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
[1] Nella raccolta era incluso anche un saggio di Ugo Fabietti (2012) in cui il concetto di serendipità era soprattutto una porta d’accesso per parlare della logica della scoperta in antropologia, un tema centrale per le pagine che seguono. Dopo la sua scomparsa nel 2017, il testo era stato ripreso come paradigmatico del modello di ricerca prospettato da Fabietti (Malighetti e Van Aken 2017).
[2] Non c’è modo di affrontare qui la questione della “svolta ontologica” in antropologia e basterà dire che Sahlins imposta la cosa tenendosi a debita distanza dall’ecologismo radicale di Viveiros de Castro, più preoccupato delle implicazioni politiche ed epistemologiche della secolarizzazione e del costruttivismo radicale, che hanno fatto fallire il progetto fondativo dell’antropologia e reso la cultura (proprio in quanto rete di segni) un’ancella un po’ tonta del determinismo economico: «…a partire dal XVI secolo la religione è migrata dall’infrastruttura alla sovrastruttura, aprendo la strada alla ‘determinazione su base economica’, che sarebbe diventata la scienza normale di studiosi di vario approccio, dai materialisti storici tradizionali agli economisti neoliberali – per non parlare di noi antropologi» (Sahlins 2023: 6).
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Pietro Vereni, professore associato di Antropologia culturale nell’Università di Roma “Tor Vergata”, insegna «Urban & Global Rome» nel campus romano del Trinity College (Hartford, Connecticut). Dal 2018 è abilitato di prima fascia nel settore M-DEA/01 Discipline Demoetnoantrologiche. Ha effettuato ricerche sul campo sul confine della Macedonia occidentale greca (1995-97) e sul confine irlandese (1998-99). Si è occupato di antropologia politica e delle identità e antropologia dei media, e attualmente conduce ricerche di antropologia economica sulla diaspora della paternità bangladese, sul sistema carcerario in Italia, sulla diversità religiosa a Roma e sulla funzione politica delle occupazioni a scopo abitativo. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: “Come si rimane. Diaspore religiose e strategie di permanenza culturale”, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, Rivista trimestrale, 1/2020. “Il nodo gordiano e il filo di Arianna. La forma dello spazio nella crisi del Covid-19”, in Documenti geografici, 1 (ns), gennaio-giugno 2020. “De consolatione anthropologiae. Conoscenza, lavoro di cura e Covid-19”, in F. Benincasa e G. de Finis (a cura di), Closed. Il mondo degli umani si è fermato, Roma, Castelvecchi, 2020; Perché l’antropologia ci aiuta a fare politica (e a vivere meglio), Roma, Castelvecchi, 2021.
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