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Serpenti a mensa tra le posate e le portate

2813317di Paolo Cherchi [*] 

A Giuliana Adamo 

Un passo del De vita solitaria di Petrarca offre uno squarcio sulle ore del pranzo di una persona che l’autore designa semplicemente come l’occupatus ovvero l’indaffarato. Si ricorderà – l’episodio è celebre e spesso antologizzato – che questo personaggio rappresenta la persona facoltosa che passa le proprie giornate amministrando i suoi affari tanto che non ha mai per sé un momento della giornata, ed è un personaggio che ha il suo opposto nell’uomo solitarius da intendere come una persona impegnata negli ozii letterari, quindi padrone del proprio tempo capace di vivere in armonia con il tempo, seguendone il ritmo e i doveri che questo impone in modo naturale.

41frnklrzl-_ac_uf10001000_ql80_La lunga descrizione del De vita solitaria protrae il paragone tra i due modi di vita considerandoli nell’arco di una giornata scandita dal ritmo di quelle che si chiamavano le “ore canoniche”. La sua importanza si deduce dal fatto che funga da introduzione alla scelta da parte dall’autore, il quale prevedibilmente vorrà essere libero per dedicarsi alla meditazione, alla lettura e alla scrittura e alla preghiera anziché a guadagnare ricchezze e onori. Il momento del pranzo dovrebbe essere anche per l’occupatus una pausa di riposo e di liberazione dai doveri imposti dagli affari, ma non è così. Per lui l’ora del pranzo produce nuovi impegni e fastidi dovuti alla compagnia e conversazione con uomini d’affari, alla congestione delle portate e all’andirivieni di inservienti premurosi e pressanti. E c’è di peggio: nel bel mezzo del tavolo troviamo dei serpenti, cioè proprio il simbolo dell’insidia e quindi un’esplicita allusione a un disagio che perpetua quel senso di inquietudine che domina la vita dell’occupatus. Dei serpenti sulla tavola tra le posate e le portate? Sembra incredibile, ma ecco testualmente il passo:

Sub hac tanta colluvie diversarum simul et adversarum rerum, sub tot croceis atque atris liventibusque pulmentis, suspectum non immerito venenum sedulus pregustator explorat. Quin et adversus cecas insidias aliud remedii genus inventum est: inter vina dapesque livida serpentum cornua prominent, aureis insita solerter arbusculis, et quasi voluptaria ex arte contra mortem miseri, mira res, ipsa mors excubat  [1].

Il passo nella bella traduzione di Antonietta Bufano suona così:

«Sotto un tale miscuglio di cibi diversi ed avversi, sotto tante vivande gialle, e nere, e livide, uno zelante assaggiatore va cercando un veleno non a torto sospettato. Ché anzi contro le occulte insidie è stato trovato un rimedio di altro genere: tra i vini e le vivande sporgono corna di lividi serpenti, ingegnosamente inseriti tra ramoscelli d’oro, e, con artificio quasi voluttuoso, contro la morte del misero veglia ‒ cosa straordinaria ‒ la morte stessa» [2].

31538373953Quindi non uno, ma vari serpenti sulla tavola dell’epulone, annunciati dalle loro corna ed evidenziati dai ramoscelli d’oro ai quali s’intrecciano. Un’immagine del genere non poteva non destare curiosità e incredulità, pertanto non sorprende che abbia lasciato perplessi gli annotatori del passo. Ricordiamone alcuni.

Il primo a tentare una spiegazione è stato Guido Martellotti il quale pensa che Petrarca alluda al “cerasta” [3]. La spiegazione fa leva sull’etimologia («“cerasta” significa, infatti, “cornuto”, quindi “serpente cornuto”»), e per questo la spiegazione appare ineccepibile, tanto che ha condizionato tutti gli altri commentatori, i quali non hanno notato che Petrarca in realtà parla di “corni di serpente” e non già di “un serpente cornuto”, anche se l’illazione è certamente plausibile.

43856-de-vita-solitaria-buch-i-kritische-textausgabe-und-1-jpg-768x768_q85Se ne libera in parte Enenkel [4], al quale si deve anche un’edizione critica del primo libro del De vita solitaria. Questi accetta l’idea che Petrarca intenda parlare del cerasta, ma specifica che l’allusione non si riferisce al serpente come animale ma si limita alle sue “corna” che sarebbero in realtà delle sporgenze ossee attorno agli occhi che prendono la forma degli arbusti e hanno un colore “livido”, come attestano vari naturalisti, quali Plinio e Solino, e vari poeti quali Orazio e Stazio. L’interpretazione di Enenkel è dotta e ingegnosa, ma ha il difetto tipico delle interpretazioni che vogliono essere tanto più convincenti quanto più voluminoso è il cumulo di dati probatori, e se poi nessuno di questi risulta convincente, la quantità dei dati ne sottolinea l’inutilità.

Un’altra proposta d’interpretazione viene da Marco Noce, il quale in realtà non avanza soluzione alcuna, ma pone delle domande che potrebbero guidare a trovarla:

«I serpenti cui si fa qui riferimento sono probabilmente dei cerasti o vipere cornute. Si tratta di un serpente velenoso che porta sopra ogni occhio una scaglia robusta simile a un corno: il suo morso è spesso mortale. Cfr. Plinio [...] Tutt’altro che facile interpretare il passo: sfugge, in particolare, la funzione precisa dei cornua serpentum, sistemati tra le vivande. Si tratta delle cornua soltanto (come sembra interpretare T. V. Strozzi) o degli interi animali (Bufano-Martellotti)? Comunque sia, disporre sulla mensa le spoglie di un animale dal morso velenoso doveva avere un significato simbolico-superstizioso. Le parole di Petrarca e il buon senso, infatti, sembrerebbero escludere che si tratti di serpenti vivi».

9782841370849_1_75Christophe Carraud, il più recente commentatore del De vita solitaria, ritiene ineccepibile l’allusione al cerasta, ma non azzarda ipotesi difficili da difendere, e si limita ad intuire nell’immagine petrarchesca un «usage apotropaïque de l’animal mort ‒ et l’un des plus dangereux de tous, le céraste de Pline» [5].

Siamo dunque ad un’impasse: un passo carico di mistero e di sapore magico che ci invita a desistere da ogni tentativo di spiegarlo perché potremmo renderlo ancora più misterioso. Tuttavia è difficile rassegnarsi a perdere qualcosa che sembra degno di attenzione, e non solo perché è di Petrarca ma perché sembra alludere ad un dato che suscita molta curiosità visto che non abbiamo mai visto né sentito dire che nelle mense dei signori si presentino dei rettili, vivi o morti che siano, e la spiegazione simbolica sembrerebbe forzata poiché non è corredata da alcun elemento che sembri autorizzarla. Quindi quasi per puntiglio insistiamo nella ricerca, spinti anche dal fatto mai osservato che il passo sembri parlare non di veleno ma di protezione contro il veleno, e questo rende l’allusione ancora più problematica e però indica anche un’altra possibile via di interpretazione.

Per trovarla e poi seguirla, abbandoniamo l’invalsa abitudine di ricorrere esclusivamente agli autori latini classici, convinti da una secolare tradizione di studi che Petrarca si rifaccia esclusivamente a loro, dimenticando i suoi contemporanei perché scrivevano un latino che a lui sembrava poco elegante e perché avevano quel carattere greve delle scritture accademiche e scolastiche. Il che non è affatto vero o lo è solo in misura parziale: Petrarca era aggiornatissimo anche sulla letteratura dei suoi contemporanei. In ogni modo, noi li leggiamo non per trovare le fonti alle quali Petrarca sarebbe ricorso per informarsi sul serpente cerasta, ma per avere possibili indicazioni circa il possibile uso di avere dei serpenti sulla mensa. Dopo tutto il pubblico cronologicamente più vicino al De vita solitaria doveva pur capire l’allusione che invece per noi è diventata misteriosa. La proposta rende subito dei buoni risultati. Leggiamo quanto dice Alberto Magno del cerasta: 

Habet autem octo cornua in capite flexuosa sicut cornua arietis. [...] Cornu cerastis sunt qui dicunt praesente veneno sudare, et ideo ferri ad mensas nobilium et fieri inde manubria cultellorum, quae infixa mensis nobilium prodant praesens venenum, sed hoc non satis probatum est [6].

Alberto  Magno, De Animalibus

Alberto Magno, De Animalibus

È un passo illuminante perché apprendiamo che i corni del cerasta essudano quando si trovano in presenza di veleno o di materie velenose. E questo già esclude senza alcun dubbio la possibilità che Petrarca alluda all’animale, e apprendiamo che si parla della materia ossea che può apparire anche nel manico delle posate perché la loro presenza avverte dell’eventuale presenza di veleno nei cibi o nell’ambiente in cui è collocata la mensa. Cerchiamone una conferma in testi affini come lo Speculum di Vincenzo di Beauvais: 

Cerastes est serpens octo cornua in capite habens, ex quibus fieri solent manubria cultellorum ad mensas imperatorum: quia sudore produnt venenum appositum [7].

Sono dati simili a quelli presenti nel passo di Alberto Magno, e non è detto che siano in qualche modo collegati, benché riportino una nozione simile ma che potrebbe essere diffusa in varie altre sedi. E poiché se ne parla come di una sorta di antidoto, interroghiamo un medico, Pietro d’Abano, quasi un contemporaneo di Petrarca:

Oportet suspicantem aut timentem venenosa potione, vel cibum, ut utatur regimine duplici. Primum est, defensio cum tutela: secundum, est destructio assumptio veneni cum virtute. Defensio vero cum cautela est, ut ante comestionem suae mensae, coram suis ferculis et potibus sint discernentes et significantes fore venenum si fuerit: et horum unum est sicut cornua serpentis, quae sudant in adventu scilicet napelli et thiri, et fellis leopardi et non in aliorum venenis [8].

9788806097615-itDavanti ai dati riferiti crediamo di aver trovato una pista che promette di risolvere il nostro problema. Ci pare di capire che gli autori ricordati parlino di un oggetto in cui figurano le “corna del serpente” e che vengano usate per verificare se il cibo servito a tavola contenga del veleno. Petrarca accenna senz’altro ad un fenomeno simile, e sembra che parli di un amuleto che veniva usato per la cosiddetta “credenza”, una specie di rito che si officiava prima di ingerire il cibo preparato dai cuochi per stabilire che non fossero avvelenati. A questo scopo si usavano anche i cani e nel mondo antico anche gli schiavi o gli “assaggiatori”. Una volta intravvista questa spiegazione, troviamo una ricca letteratura che la suffraga, ed è sorprendente che nessun commentatore se ne sia reso conto.

L’amuleto di cui parla Petrarca è identificabile con un oggetto “scopriveleno” che gli italiani chiamavano proba o assaz o più generalmente credenza; i francesi lo chiamavano languier, gli aragonesi e i catalani lingues de serp, i tedeschi del Cinquecento lo chiamarono Natternzungenbaum (“albero di lingue malefiche”). La pluralità delle denominazioni in lingue diverse testimonia la larga diffusione dell’oggetto in culture separate. E notiamo anche che in tutte le denominazioni spunta la nozione di “lingua di serpente” anziché di “corni”, come risulta dal passo petrarchesco. La sola eccezione è la forma italiana che sembra indicare la funzione e non l’oggetto che la compie ‒ proba o assaz sono termini che definiscono l’oggetto per sineddoche ‒ e non fa distinzione fra corno e lingua di serpente. Il dato però non costituisce un problema, anche se qualche distinzione sarebbe possibile: intanto il “corno di serpente” si usava generalmente per le posate, nel manico dei coltelli, mentre la “lingua di serpente” si usava come oggetto da posare sul tavolo e non da impugnare. Inoltre è probabile che nei primi tempi si parlasse più di “corno” che di “lingua”, ma poi prevalse l’immagine della “lingua” forse per influenza della lingua melitensis di cui parleremo, e forse perché con il tempo i corni di serpente dovettero competere con quelli “dell’unicorno” al quale si attribuirono poteri da antidoto. C’è da aggiungere che la nozione di “lingua” avrà una giustificazione ben chiara sulla quale torneremo. Comunque stiano le cose ‒ e sarebbe utile appurarle ‒ a noi interessa sapere che le probe avevano nomi alternativi di “corna” e di “lingue di serpente”. 

9788821004858-475x500-1Di questi oggetti possediamo una vasta documentazione, grazie al lavoro magistrale di Heinrich Pogatscher, apparso ormai più di un secolo fa, in cui vengono consultati molti inventari, molte cronache e molti altri documenti a stampa e manoscritti [9]. Per il nostro proposito non è necessario passare in rassegna tanti materiali; ci basta consultare un solo inventario che, oltre a descrivere varie probe, limita l’osservazione senza portarci lontano dal mondo di Petrarca. Consultiamo gli inventari degli archivi papali avignonesi curati da Hermann Hoberg [10], e ne preleviamo alcuni campioni risalenti grosso modo al periodo “avignonese” di Petrarca:

Item 1 probam cum pede deauratam cum 2 lapidibus, ponderis 4 m. 1 u. media q. [11];

oppure:

Item 1 proba de nacra ad modum serpentis munita de argento, 1 proba argenti deaurati cum suo pede [ad] formam draconis cum smaltis et linguis serpentinis et salinerio munito de argento deaurato, 2 probe coralhi rubei cum suis pedibus de argento deaurato, ponderis totum cum nacra linguis et coralho, 33 m. 4 u. [12].

Oppure tutta la seguente serie:

Item una salineria de iaspide viridi cum serpente in medio et 4 linguis serpen- tum ac 1 serviente armorum dictam probam tenente [...] [...] Item 1 proba argenti deaurati esmaltata cum 10 linguis serpentum [...] Item alia proba de nacra incastrata in argento deaurato ad modum serpentis, cuius alle sunt fracte cum 8 linguis serpentum et plurius scutellis pendentibus ad arma Francie et quorundam aliorum, ponderibus 5 m. 5 u. Item alia proba modica cum 2 linguis unitis et tripode argenti albi ponderis 1m. 1 u. cum dimidia […] Item alia nobilis proba cum dracone desuper de argento deaurato et 1 salneria de iaspide rubeo cum 4 linguis serpentum et cum pede de cristallo membrato de argento deaurato cum venacione circumquaque, ponderis 4 m. 6 u. cum dimidia [13].

9788842712244-usDa tali descrizioni e varie altre contenute in questo inventario deduciamo che la forma più comune della proba era quella di un ramo di corallo o d’argento montato su un piede o un treppiede, adornato con filamenti d’oro; nei suoi rametti si incastonavano o si appendevano delle pietre che erano ritenute corna o lingua di serpente pietrificate. Ma poteva anche essere una saliera o un portabottiglie montato su un serpente, e questi oggetti venivano adornati con lingue o corni ritenuti di serpenti. Alcune volte si allude a questi oggetti soltanto come “lingua”. Gli inventari come quello ricordato riportano spesso le dimensioni e il peso di questi oggetti, e sembra di capire che fossero pezzi di oreficeria piuttosto elaborati il cui valore era legato anche al numero e alla dimensione delle “lingue” o “corni” che presentavano.

Se poi si trattava di “corna”, vediamo che per lo più erano incastonate nei manici (manubria) delle posate. Fra i vari campioni ricordati nel ricchissimo saggio di Heinrich Pogatscher ne troviamo uno del 1331 che mostra tutta la cura che un orefice applicava per farne un oggetto prezioso:

[...] tenens in manu sua quoddam manubrium seu gladium bruni seu obscuri coloris garnitum a parte superiori argento, in cuius partis extremitate erat quedam incastratura cassata et conculcata, in qua videbatur fuisse antiquitus aliquis lapis, quamvis tunc non esset, a parte eciam inferiori garnitum argento cum quadam cuspide eiusdem argenti, quod totum cum garnitura poterat esse longitudinis unius palmi vel circa, quod quidem manubrium dicitur esse virtuosum contra venenum et consuetum fuerat portari fixum in pane sale circumposito, quando cibaria et fercula dicto domino nostro portabantur in mensa [...] [14].

Ma “corni” si trovavano anche in ciondoli e in braccialetti, o erano appesi ai ricordati ramoscelli di corallo o di argento.

Di queste probe conosciamo anche l’uso. Ne troviamo una descrizione fra gli Avvisamenta pro regimine et dispositione officiorum in palatio domini nostri pape, risalente al 1409, presso Pisa, in un documento trascritto da Ludovico Muratori (Rerum Italicarum Scriptores, [ed. 1734], III, pt. ii, coll. 810-821) e riprodotto da Heinrich Pogatscher:

Item quando pro prandio et coena per coquos traduntur cibaria scutiferis honoris Domini nostri, debet praesens esse, videreque qualiter fit proba; et platos seu scutellas, in quibus dicta sunt cibaria, debet assignare ipsis scutiferis, prout eidem visum fuerit et plenius verbo declarabitur, si opus fuerit. Ipse vero, si illius cure honor ille debeatur et praesens fuerit, debet ante cibaria probam portare [...] Item debet [sc. il custos vaxelle] custodire probam et probas que portantur ante cibaria domini nostri et ipsam debet portare ad coquinam horis, quando magister hospitii et scutiferi vadunt ad eam pro quaerendo dicta cibaria. Ipse autem magister hospitii portat eam probam ante dicta cibaria vel tradit ipsam portandam magis honorabili militi qui tunc ibidem fuerit. Sumpto autem prandio, quando Dominus noster manus lavat, debet scutifer ante eum praecindens, dictam probam de mensa recipere et tradere dicto magistro vaxellae propter hoc ibidem appropinquanti et de ea custodiam habenti [15].

Non tutte le mense signorili tenevano la proba sul tavolo: più normalmente la si portava in cucina quando i cibi erano cucinati, e si avvicinava alle pentole: se le lingue o i corni di serpente cambiavano colore o essudavano, era perché i cibi erano stati avvelenati. Dopo questo controllo, l’amuleto veniva posato sulla mensa.

La diffusione di queste probe nelle maggiori corti europee, da Napoli alla Scozia a quella papale, testimonia quanto fosse radicata la convinzione del loro potere, e la loro presenza dice anche quanto fosse comune la morte per avvelenamento. E siccome le eventualità di morti simili erano frequenti negli strati sociali più alti, si capisce che gli amuleti protettivi venissero curati come cose preziose e di lusso degne dello status dei proprietari. Le probe, insomma, dovevano essere uno status symbol, e se ne fecero di varie forme, come accade per gli oggetti di lusso. Fra le versioni più interessanti fu quella sviluppata nei Paesi tedeschi dove prese il nome di Natternzungenbaum: erano specie di alberelli di Natale in miniatura, con filamenti d’oro ai quali venivano appese molte “lingue” e “corni”, e potevano contenere anche croci e immagini di santi. Di questi amuleti si conservano vari esemplari in diversi musei [16].

Ma che cos’erano in realtà queste lingue dal potere magico, e che avevano forma di lingua di serpente? Presero questo nome che deriva da Plinio che le chiamava glossopetrae e che riteneva piovute dal cielo durante le eclissi lunari:

Glossopetra, linguae similis humanae, in terra non nasci dicitur, sed deficiente luna caelo decidere, selenomantiae necessaria. quod ne credamus, promissi quoque vanitas facit; ventos enim ea comprimi narrant [17].

81g416mkqil-_ac_uf10001000_ql80_Questa nozione con il tempo si fuse con una leggenda secondo cui queste pietre fossero lingue o corna di serpente pietrificate. Questi fossili erano particolarmente abbondanti a Malta, l’isola in cui San Paolo, come narrano gli Atti degli Apostoli (XXVIII, 3-5), fu morso da una vipera ma non ne subì alcun danno. Il santo maledisse tutti i rettili col risultato che tutti quelli che popolavano l’isola rimasero pietrificati o privi di veleno. Per questo motivo nell’isola di Malta abbondavano queste “lingue” (dette per questo anche “lingue melitensi”) o “corni” pietrificati, e se ne fece un grande commercio, perché, oltre alle lingue e ai corni, si raccoglieva la terra che si trovava presso la grotta dove sarebbe avvenuto il miracolo, e i ciarlatani la vendevano chiamandola “la grazia di san Paolo”, ritenuta potentissima contro il veleno dei serpenti [18]. La leggenda ebbe una grande vitalità e diffusione nel Medioevo ed era ancora viva nel Seicento18 fino a quando il danese Nicholaus Steno (Steinen) pubblicò nel 1667 De solido intra solidum naturaliter contento dissertationis prodromus in cui dimostrava che le supposte lingue o corni di serpente erano denti di squalo fossilizzati. La dissertazione steiniana produsse molta letteratura[19] alla quale è addirittura legata l’origine della paleontologia. E fu un cambio epocale e faticoso, se si pensa che ancora nel Cinquecento medici della statura di Mattioli sostenevano le tesi presentate da Pietro d’Abano [20].

A lungo andare la tesi scientifica ebbe la meglio e relegò fra le superstizioni gli amuleti antiveleno. Si perse la memoria delle probe che Petrarca deve aver visto sulle mense dei signori che l’ebbero a commensale, e con essa si era persa anche la possibilità di cogliere l’allusione presente nel De vita solitaria. Ora, però, capiamo il senso della sua allusione, di quegli strani “corni di serpente” incastonati su “arbuscoli”, e apprezziamo ancora meglio quel concetto baroccheggiante della «morte che vigila sulla vita», concetto che sa di macabro e che Petrarca ricava da un’osservazione del mondo quotidiano e non dal serbatoio delle sue letture di autori antichi. 

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
[*] Il presente saggio rappresenta una versione alquanto diversa di quella presentata col titolo La proba di Petrarca, in «Studi Petrarcheschi», 21 (2008): 235-244.
Note
 [1] Si cita dal De vita solitaria, I, ii, 13, in Francesco Petrarca, Prose, a cura di G. Martellotti, P. G. Ricci, E. Carrara, E. Bianchi, Milano – Napoli, Ricciardi, 1955: 306.
[2] Ivi: 307
[3] Ivi: 306.
[4] E. K. Enenkel, Francesco Petrarca. De vita solitaria. Buch I. Kritische Textausgabe und ideengeschichtlicher Kommentar, Leyden, Brill, 1990: 283.
[5] Pétrarque, La vie solitaire, 1346-1366, Grenoble, Millon: 402, nota 86.
[6] Alberto Magno, De animalibus, XXV, 2, 17: «Ha in testa otto corna flessibili come le corna dell’ariete. Il corno del cerasta dicono alcuni che sudi se c’è presenza di veleno, e per questo si portano alle mense dei nobili e da questi si fanno maniche di coltelli che poste nelle mense dei nobili rivelano la presenza di veleno, ma di ciò non abbiamo prove sufficienti».
[7] Speculum Naturale, XX, 27: «Il cerasta è un serpente che in testa ha otto corna, dalle quali si suole fare maniche di coltelli per le mense degli imperatori, perché sudando rivelano il veleno aggiunto (al cibo)».
[8] Pietro d’Abano, De venenis, cap. IV, De praecustodia et cautela ne aut venena pro- pinentur aut propinata non noceant. Si cita dall’ed. stampata in appendice al Conciliator, Firenze, Giunti, 1520, dove il passo da noi citato è a p. 257v: «Per chi sospetta o teme di una bibita o cibo avvelenati, bisogna che usi una tattica doppia: la prima è una difesa con cautela, e la seconda è la distruzione e l’ingestione del veleno con intelligenza. La difesa con cautela consiste in questo: prima di mangiare alla propria mensa e davanti ai cibi e bevande, fare in modo che vi siano quelli che sappiano vedere anche strumenti che indichino se c’è stato del veleno, come le corna di serpente che sudano nel caso che vi sia stato del veleno del tipo di serpente napello o polvere di torio, e fiele di leopardo e non contro altri veleni».
[9] Heinrich Pogatscher, Von Schlangenhörnern und Schlangenzungen vornehmlich in 14. Jahrhundert (mit Urkunden und Akten aus den Vatikanischen Archive), in «Römische Quartalschrift für christliche Altertumskunde und für Kirkengeschichte», 12 (1898): 162-215. Altri materiali si trovano in Roberte Lentsch, La proba. L’épreuve des poisons à la cour des papes d’Avignon, in Les prélats, l’Église et la société, XIe-XVe siècles. Mélanges Bernard Guillemain, a cura di Françoise Bériac-Lainé e Anne Marie Dom, CROCEMS, Université Michel de Montaigne, Bordeaux III, Bordeaux, 1994: 155-162. Lentsch, studiando l’inventario avignonese, osserva che inizialmente quest’oggetto veniva indicato come arbor, ma, a partire dal papato di Clemente VI, prevalse il nome proba
[10] Hermann Hoberg (a cura di), Die Inventare des päpstlichen Schatzes in Avignon, 1314-1376, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1944.
[11] Ivi: 52; rientra nel registro dei tesori di Clemente VI, 1342-1343: «1. Proba d’oro su un piede, con due pietre, 4 mine di peso, e 1 oncia mezzo quadrante».
[12] Ivi: 383; voce del registro Die Vertsachen aus Edelmetal um 1360: «1 proba di madreperla a forma di serpente decorata con argento; 1 proba d’argento dorato con un suo piede a forma di drago, con smalti e lingue serpentine e con una saliera fatta di argento dorato, e 2 probe di corallo rosso con i suoi piedi d’argento dorato, il tutto con un peso di 33 mine e 4 once».
[13] Ivi: 258: «Una saliera di diaspro verde, con in mezzo un serpente e 4 lingue di serpente e con un scudiero che tiene la detta proba [...] 1 proba d’argento dorato, smaltata con cinque lingue di serpente [...] Un’altra proba di madreperla incassata in argento dorato in forma di serpente, con ali spezzate e con otto lingue di serpente e varie piccole tazze appese con insegne della Francia e di altri, dal peso di 5 mine e 5 once [...] Un’altra proba di modeste proporzioni con due lingue unite e un tripode d’argento bianco di peso una mina e un’oncia e mezzo [...] Un’altra proba con sopra un drago d’argento dorato e una saliera di diaspro rosso con 4 lingue di serpente e con un piede di cristallo venato di argento dorata e con attorno una scena di caccia, del peso di 4 mine e 6 once e mezzo». Tutte queste probe appartennero a Innocenzo IV.
[14] In Pogatscher, Von Schlangenhörnern, cit.: 167 sgg.: «Tenendo in mano questo manico o impugnatura di colore bruno o oscuro, guarnito dalla parte superiore di argento e la cui parte estrema vi era inserita e come incastrata a forza un qualcosa nella quale sembrava di vedere il residuo di una pietra molto antica benché ora non ci fosse più, e sempre nella parte inferiore fosse guarnito di argento con una certa punta dello stesso argento, e il tutto compresa la guarnitura poteva essere della lunghezza di un palmo o circa, e che si diceva fosse un manico che aveva poteri contro il veleno ed era consuetudine portarlo infilato in un pezzo di pane circondato da sale quando a mensa si portavano i cibi al detto signore nostro».
[15] Ivi: 183: «Egualmente quando prima del pranzo e della cena i cuochi consegnano i cibi ai camerieri d’onore del nostro signore, egli (i.e. il chierico sopraintendente) deve essere presente e vedere se la proba si trasforma; e deve essere lui a consegnare ai camerieri i piatti e le tazze nei quali sono i detti cibi a seconda di come gli sembri che siano stati preparati, ed esporrà più chiaramente a parole, se sarà il caso, anche il suo parere ad alta voce. Egli stesso invero, visto che a lui si deve l’onore di quel servizio, e se è presente, deve portare la proba davanti ai cibi. (…) Inoltre egli (i.e.: il custode del vasellame) deve custodire la proba o le probe che si mettono davanti ai cibi per il nostro signore, e deve portarla in cucina all’ore in cui il maestro di palazzo e i camerieri vi si recano per prendere i cibi. Lo stesso maestro di palazzo la mette davanti ai cibi o la consegna al più nobile dei servitori che si trovi lì perché la porti lui. Una volta finito il pranzo, quando il nostro signore si lava le mani, il cameriere prelevando davanti a lui la proba dalla mensa deve riceverla e consegnarla al detto custode del vasellame che gli si avvicina per questo, e perché l’abbia in custodia». 
[16] Se ne possono vedere alcune riproduzioni in appendice del saggio di George Zammit-Maemple, Fossil Shark’s Teeth. A Medieval Safeguard Against Poisoning, in «Melita Historica», 6 (1975): 391-411. Le riproduzioni sono alle pp. 406-411, e gli oggetti riprodotti sono conservati in musei di Dresda, Vienna, e Mdina a Malta.
[17] Plinio, Naturalis Historia, XXXVII, 59: «Si dice che la “glossopetra”, molto simile alla lingua umana, che non nasca in terra ma cada dal cielo durante le eclissi di luna. È necessaria per la “selenomanzia”. Ma per screditare questa credenza, ricordiamo quanto è falso quel che dicono, cioè che essa faccia calmare i venti».
[18] Mi permetto di rimandare alla mia noticina, La grazia di San Paolo, in «Lingua nostra», 30 (1969): 120.
[19] Per alcuni dati si veda Zammit-Maempel, Fossil Shark’s Teeth. Per maggiori dettagli sulla leggenda della “grotta di san Paolo” e della terra maltese, si veda Brizio Montinaro, San Paolo dei serpenti: analisi di una tradizione, Palermo, Sellerio, 1996.
[20] Si ricordi che il trattato di Pietro d’Abano veniva spesso pubblicato in appendice all’opera più famosa del medico aponense, il Conciliator, e per questo riferendosi alla sua autorità, Pietro Andrea Mattioli ancora nel pieno Cinquecento, ricordando la superstizione confondeva le due opere: «Insuper illud scire convenit, quod quaedam res simplices sunt (ut plerique inculpatae fidei medici fatentur) quae sua peculiari naturae dote praesens venenum signis manifestant. Inter quas cornu, seu lingua, quam serpentis lingua vocant, refertur, quae (ut Conciliator Petrus Aponensis tradit) praesente napello aut vipera, aut pardi felle, exudat: quod tamen non prodit, caeteris venenis praesentibus» [“Su ciò conviene sapere che alcuni semplici (come affermano vari medici di reputazione incensurata) per una dote della loro particolare natura mettono in evidenza per segni il veleno presente. Fra questi si enumera il corno o la lingua che chiamano “lingua di serpente”, che (come tramanda Pietro d’Abano nel suo Conciliator) trasuda quando c’è il veleno di napello o vipera o il fiele del leopardo, e che però non si manifestano quando ci sono altri veleni”], in Commentarii in sex libros Dioscoridis de medica materia, VI, commentarius alla praefatio di Dioscoride, Venezia, Valgrisi, 1554: 648. 

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Paolo Cherchi, “professor emeritus” della University of Chicago, dove ha insegnato letteratura italiana e spagnola e filologia romanza dal 1965 al 2003, anno in cui è stato chiamato dall’Università di Ferrara come Ordinario di letteratura italiana, e da dove è andato in congedo nel 2009. Si è laureato a Cagliari in filologia romanza, ha conseguito un PhD a Berkley (1966). Si è occupato prevalentemente di letterature romanze nel periodo medievale e rinascimentale. Fra i suoi lavori più recenti ricordiamo Il tramonto dell’onestade (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016); Petrarca maestro. Linguaggio dei simboli e della storia (Roma, Viella, 2018); Maestri. Memorie e racconti di un apprendistato (Ravenna, Longo, 2019); Ignoranza ed erudizione. L’Italia dei dogmi verso l’Europa scettica e critica (1500-1750) (Padova, libreriauniversitaria.it.edizioni); Quantulacumque lucretiana. Nuove piste di ricerca sulla fortuna di Lucrezio nel tardo Rinascimento (Generis Publishing, 2022); Studi ispanici. Fonti, topoi, intertesti (Milano, Ledizioni, 2022). Nel 2016 è stato cooptato come socio straniero dall’Accademia dei Lincei.

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