Il 10 giugno 2019 nell’udienza alla 92ª Riunione della Roaco, l’organismo che aiuta le Chiese orientali, nel suo discorso il Papa ha rinnovato la sua denuncia dell’ipocrisia di chi parla di pace e poi promuove la guerra: «Tante volte penso all’ira di Dio che si scatenerà con quelli responsabili dei Paesi che parlano di pace e vendono le armi per fare queste guerre: questa è ipocrisia, è un peccato». La denuncia delle responsabilità dei trafficanti in armi ricorre frequentemente nella pastorale di papa Francesco, che confronta il grido delle «persone in fuga ammassate sulle navi, in cerca di speranza, non sapendo quali porti potranno accoglierli, con il silenzio dell’Europa che, invece, apre i suoi porti alle imbarcazioni che devono caricare sofisticati e costosi armamenti, capaci di produrre devastazioni che non risparmiano nemmeno i bambini».
Un altro tema ricorre nei discorsi di Papa Francesco: la sessualità. L’intento è quello di non ridursi a trattarne solo in rapporto allo scandalo della pedofilia, esploso in tutta la sua gravità per l’emergere, di cui si è già detto, delle responsabilità di membri del clero e degli stessi vescovi.
In tali interventi appare chiaro che falsa è l’equazione fra sesso e peccato e l’idea che la Chiesa continui ad attribuire al sesso solo la finzione del procreare. Ormai da tempo si riconosce alla sessualità una funzione essenziale del rapporto uomo/donna purché, però, vissuta all’interno di un rapporto affettivo consacrato nel matrimonio. La sessualità non va mai scissa dall’amore la cui esistenza deve essere verificata attraverso una opportuna fase preparatoria. Del tutto estranea a questa concezione ogni forma di sessualità non vissuta fra uomo e donna e al di fuori di un amore che duri per tutta la vita. «La sessualità, il sesso, è un dono di Dio. Niente tabù. È un dono di Dio, un dono che il Signore ci dà. Ha due scopi: amarsi e generare vita. Gesù dice: per questo l’uomo, e anche la donna, lascerà suo padre e sua madre e si uniranno e saranno una sola persona, una sola identità, una sola fede di matrimonio Una sola carne: questa è la grandezza della sessualità». Al di fuori di una sessualità così vissuta c’è il peccato come la bugia, l’ira, la gola, altrettanti peccati: peccati capitali come la sessualità staccata dall’amore e usata per divertimento. Può anche diventare un’industria della sessualità staccata dall’amore, con la quale, diventata industria della pornografia, si possono guadagnare soldi. Perché essa prevalga è necessaria un’educazione adeguata nelle famiglie che consenta una sua integrazione con quella, appena avviata, nelle scuole e soprattutto con le sollecitazioni offerte dai diversi orientamenti diffusi nella società.
In un recente documento vaticano sull’educazione sessuale si ribadisce che nelle scuole sia garantita la libertà alle famiglie e che sia tenuta in considerazione la legittima aspirazione delle scuole cattoliche a mantenere la propria visione della sessualità umana proprio in funzione di tale libertà. Al tempo stesso, però, non si possono trascurare occasioni di confronto e collaborazione. Vi si afferma che: «l’educazione all’affettività ha bisogno di un linguaggio adeguato e misurato». In una “cultura del dialogo «uno Stato democratico non può infatti ridurre la proposta educativa ad un pensiero unico. (…). Nel quadro delle ricerche sul gender emergono alcuni possibili punti di incontro per crescere nella comprensione reciproca. Non di rado, infatti, i progetti educativi hanno la condivisibile e apprezzabile esigenza di lottare contro ogni espressione di ingiusta discriminazione».
Con queste premesse risulta ovvia la sorte di monsignor Gustavo Zanchetta, dimessosi dalla diocesi di Oran nel 2017 in Argentina, perché accusato da un pubblico ministero di avere abusato sessualmente di seminaristi. Il procuratore della provincia argentina di Salta, Monica Viazzi, lo accusa, infatti, di «abusi sessuali continui aggravati». È la prima volta che viene formalizzato questo capo di imputazione in un tribunale. Chiamato dal Papa in Vaticano, dopo un breve periodo in un ufficio, è stato posto sotto processo per accuse dettagliate di abusi su seminaristi. La denuncia del 2016, firmata dal rettore e da due ex vicari del seminario in questione, elencava il suo comportamento problematico con i seminaristi, tra cui il passeggiare di notte nelle loro stanze, chiedere loro massaggi, entrare nelle loro stanze per svegliarli e invitarli a bere alcolici, fino alle aggressioni.
Sempre in tema di abusi da parte del clero, la Corte Suprema del Canada ha autorizzato un’azione collettiva contro la Congregazione della Santa Croce e l’Oratorio di San Giuseppe, che hanno collegi in diverse città del Paese, per presunti abusi sessuali commessi da alcuni religiosi. La vicenda nasce dalla testimonianza di un uomo che aveva frequentato la scuola elementare di Notre-Dame-des-Neiges per quattro anni negli anni ‘50. Sostiene di essere stato aggredito sessualmente da religiosi durante questo periodo, sia a scuola sia mentre prestava servizio come chierichetto all’Oratorio di San Giuseppe. L’uomo è convinto che centinaia di altri ragazzi, all’epoca, siano stati aggrediti da religiosi. Per questo aveva chiesto alla Corte di autorizzare un’azione collettiva.
Preoccupato per tali episodi, Papa Francesco nell’udienza ai Nunzi apostolici riuniti in Vaticano, ne ha voluto parlare in forma privata e ha consegnato loro il lungo e intenso discorso preparato, con “un decalogo” di raccomandazioni per vivere la missione. Alla riunione hanno partecipano 103 rappresentanti pontifici, di cui 98 Nunzi apostolici e 5 osservatori permanenti. Papa Francesco desidera, infatti, consolidare la cadenza triennale di tali riunioni dopo quelle del 2013 e del 2016. Il Nunzio, ricorda nel testo Francesco, è chiamato ad essere “uomo di Dio”, rappresentante della Chiesa e del Papa, una missione “inconciliabile” con il criticare il Papa, «avere dei blog o addirittura unirsi a gruppi ostili» a lui e alla Chiesa.
Il Nunzio deve, invece difendere la Chiesa dalle forze del male che cercano di calunniarla. Deve essere uomo di Dio che non si lascia andare a maldicenze. Non si lascia ingannare dai valori mondani, ma guarda alla Parola di Dio per giudicare cosa sia saggio e buono. Essere uomo di Chiesa richiede anche l’umiltà di rappresentare il volto, gli insegnamenti e le posizioni della Chiesa, cioè mettere da parte le convinzioni personali Essere uomo di Chiesa richiede di essere amico dei vescovi, dei sacerdoti, dei religiosi e dei fedeli, con confidenza e calore umano, svolgendo al loro fianco la propria missione e avendo sempre uno sguardo ecclesiale, cioè di un uomo che si sente responsabile della salvezza degli altri. Ha anche il dovere di aggiornare e informare continuamente il Papa sulle diverse situazioni e sui mutamenti ecclesiastici e sociopolitici del Paese a cui inviato. Uomo di Chiesa e di zelo apostolico «non rappresenta se stesso», ma la Chiesa e, in particolare, il Successore di Pietro, agendo per suo conto presso le Chiese locali e i Governi, simboleggiando la presenza del Papa fra i fedeli, tanto che in diversi Paesi è bello – nota Francesco – che la Nunziatura venga chiamata la “Casa del Papa”.
Questa attenzione alla presenza della Chiesa nel mondo è emersa anche nel recente viaggio in Marocco che gli ha offerto l’occasione per rinnovare la necessità di promuovere la fratellanza fra le religioni senza “spaventarsi” delle differenze: «Non dobbiamo spaventarci della differenza» tra le varie religioni perché Dio ha permesso questo. Piuttosto dobbiamo spaventarci se noi non operiamo nella fraternità, per camminare insieme nella vita con le persone di altre fedi perché Dio vuole la fratellanza tra noi e in modo speciale con i nostri fratelli musulmani. Dobbiamo accettare l’esistenza di molte religioni ed essere disponibili a dialogare con i loro fedeli perché è Dio che permette che ci siano tante religioni, Ma quello che Dio vuole è la fraternità tra noi e in modo speciale – qui sta il motivo di questo viaggio – con i nostri fratelli figli di Abramo come noi, i musulmani».
Al centro di questo viaggio in Marocco c’è, però, anche un’altra questione, quella migraoria. I migranti vanno accolti, protetti, promossi e integrati. Lo ricorda sia nei colloqui con le autorità marocchine che nell’incontro nella sede della Caritas di Rabat con un gruppo di immigrati facendo sue le loro richieste: «Alcuni di loro hanno testimoniato che la vita di chi emigra cambia e ritorna ad essere umana quando trova una comunità che lo accoglie come persona». Pensiero che viene riaffermato nel “Patto mondiale per una migrazione sicura, ordinata e regolare”, ratificato a Marrakech, in Marocco, al quale – ha ricordato il papa – «come Santa Sede abbiamo offerto il nostro contributo che si riassume in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare i migranti».
Anche nella visita all’ Istituto per la formazione degli imam Francesco ha riproposto lo stesso tema, sottolineando l’importanza di questo Istituto che promuove un Islam rispettoso delle altre religioni, che rifiuta la violenza e l’integralismo, cioè sottolinea che noi siamo tutti fratelli e dobbiamo lavorare per la fraternità. A tale fraternità fa appello Papa Francesco quando pronuncia contro il motto “Prima gli italiani” un altro principio: «I cristiani dicono ‘Prima gli ultimi’». Per Bergoglio il trattamento riservato ai migranti sempre più spesso «rappresenta un campanello di allarme che avvisa del declino morale a cui si va incontro se si continua a concedere terreno alla cultura dello scarto». Lo ha ribadito nel giorno del trionfo della Lega di Matteo Salvini alle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo, lanciando nuovamente un allarme sul modo in cui vengono trattati migranti e richiedenti asilo. «Non si tratta solo di migranti; su questa via – spiega Bergoglio – ogni soggetto che non rientra nei canoni del benessere fisico, psichico e sociale diventa a rischio di emarginazione e di esclusione. Per questa ragione, la presenza dei migranti e dei rifugiati – come, in generale, delle persone vulnerabili – rappresenta oggi un invito a recuperare alcune dimensioni essenziali della nostra esistenza cristiana e della nostra umanità, che rischiano di assopirsi in un tenore di vita ricco di comodità».
Bergoglio, però, non si nasconde che «il timore è legittimo, anche perché manca la preparazione a questo incontro. Il problema è quando dubbi e timori condizionano il nostro modo di pensare e di agire al punto da renderci intolleranti, chiusi, forse anche – senza accorgercene – razzisti. E così la paura ci priva del desiderio e della capacità di incontrare l’altro, la persona diversa da me; mi priva di un’occasione di incontro col Signore». Per finire a chi si fa schermo dell’identità cristiana, il Papa ricorda che «la fede si dimostra con le opere di carità verso gli ultimi, anche stranieri» e che per un cristiano è contraddittorio affermare «prima io e il mio gruppo» perché nella logica di Cristo e del Vangelo «gli ultimi vengono prima».
Quando papa Francesco si reca in visita apostolica è consuetudine per lui incontrare la comunità dei gesuiti presenti nella nazione interessata dal viaggio. In tali incontri Papa Francesco, nel consueto dialogo svolto con i confratelli parla delle “tensioni” presenti nella Chiesa e della corretta risposta da fornire: «La Chiesa è ferita da tensioni interne. Serve mitezza».
In questi giorni se n’è offerta l’occasione perché è tornato a parlare Mons. Carlo Maria Viganò, l’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti che la scorsa estate aveva “consigliato” al Santo Padre di rinunciare al soglio di Pietro in virtù del caso dell’ex cardinal Theodore McCarrick. Poi, c’è stata una “dichiarazione” da parte dei tradizionalisti, capitanati, per così dire, dai cardinali Burke e Pujats. Quel documento, ancora una volta, ha voluto rimarcare quelle che quel fronte ritiene essere “verità di fede” inoppugnabili, da ripristinare in opposizione alla “confusione imperante”. Non è semplice da stabilire se sono questi i dissidi cui è sembrato riferirsi il Santo Padre. Di certo c’è che il pontefice argentino ha risposto alla domanda postagli su tale questione, consigliando la “mitezza”.
Anche i Vescovi statunitensi intendono combattere gli abusi in comunione con il Papa, andando avanti nel prevenire, guarire e denunciare gli abusi. È questo uno dei temi al centro dell’assemblea di primavera dei vescovi statunitensi, che si è tenuta a Baltimora. In un messaggio rivolto al Pontefice hanno dichiarato: «guidati dalla saggezza acquisita durante l’incontro sulla protezione dei minori nella Chiesa», tenutosi a febbraio in Vaticano, si sentono arricchiti dalla testimonianza dei sopravvissuti agli abusi. E proprio il tema della tutela dei minori è stato al centro della prima giornata nella quale è stata incoraggiata, in particolare, l’implementazione del Motu Proprio del Papa “Vos estis lux mundi” dedicato al tema degli abusi, soprattutto nella parte che riguarda le Chiese locali. È stato anche sottolineato che si deve dare spazio ai laici nelle commissioni chiamate a giudicare le inadempienze dei vescovi sui vari casi. Si deve poi migliorare la “Carta di Dallas”, documento per la protezione dei bambini e dei giovani adottato a Dallas nel 2002.
Pari rifiuto della cultura dell’esclusione la esprime il Papa: «Senza contaminazioni siamo setta». Lo afferma senza incertezze nell’omelia della messa di Pentecoste a piazza San Pietro dopo aver ribadito che «oggi nel mondo le disarmonie sono diventate vere e proprie divisioni: c’è chi ha troppo e chi nulla, c’è chi cerca di vivere cent’anni e chi non può venire alla luce. Nell’era dei computer si sta a distanza: solo contatti, più ‘social’ ma meno sociali». Aggiunge poi il pontefice: «Sempre c’è la tentazione di costruire ‘nidi’: di raccogliersi attorno al proprio gruppo, alle proprie preferenze, il simile col simile, allergici a ogni contaminazione. Dal nido alla setta il passo è breve: quante volte si definisce la propria identità contro qualcuno o contro qualcosa?»
Interessante l’interrogativo posto da Alberto Porro nel suo libro sulla vita in parrocchia, Come sopravvivere alla Chiesa cattolica e non perdere la fede (Bompiani 2019) e la risposta ha cercato di dare dichiarando: «Basta noia e indifferenza, trasformiamo le nostre parrocchie in vere comunità. Come sopravvivere alla Chiesa cattolica e non perdere la fede». Non è un manifesto rivoluzionario è piuttosto un invito all’impegno, una presa di coscienza a volte amara, più spesso ironica, sulla vita delle nostre parrocchie, raccontata da chi la frequenta e prova a migliorarla, nel senso e sulle orme del Concilio Vaticano II e del suo richiamo a un ruolo nuovo, più da protagonisti, dei laici.
In questa prospettiva di vitalizzare la parrocchia, ma senza piegarla a iniziative di sapore politico, a Genova la curia ha imposto di annullare i momenti pubblici di preghiera di riparazione per lo scandalo del gay pride, già programmati in tre chiese cittadine. Tre parroci, infatti, avevano aperto le porte delle loro chiese al triplice appuntamento di preghiere riparatorie organizzate da alcuni integralisti cattolici. Nella stessa prospettiva si colloca la Chiesa di Roma e del Lazio che scende in piazza per dire basta al razzismo e alla politica delle chiusure e si mobilita in massa per i poveri e migranti, senza fare distinzione tra stranieri e italiani: «I bambini, i giovani, le famiglie, gli anziani da soccorrere non possono essere distinti in virtù di un prima o di un dopo sulla base dell’appartenenza nazionale».
Ancora a Roma la Chiesa di Roma e del Lazio, nel giorno della vigilia di Pentecoste, ha dimostrato con la presenza di decine di migliaia di persone a San Pietro la volontà di unirsi al Papa nel messaggio al mondo della politica: non si possono fare distinzioni. In una lettera ai cattolici di Roma e del Lazio presenti al meeting, inviata in questi giorni dal cardinale De Donatis, si spiegano le ragioni di questa iniziativa. Dare testimonianza a chi soffre, ai migranti, ai rom, ai disoccupati, senza alcuna distinzione tra italiani o stranieri. «Purtroppo – si legge nella lettera – nei mesi trascorsi le tensioni sociali all’interno dei nostri territori, legate alla crescita preoccupante della povertà e delle diseguaglianze, hanno raggiunto livelli preoccupanti. Desideriamo essere accanto a tutti coloro che vivono in condizioni di povertà: giovani, anziani, famiglie, diversamente abili, disagiati psichici, disoccupati e lavoratori precari, vittime delle tante dipendenze dei nostri tempi. Sappiamo bene che in tutte queste dimensioni di sofferenza non c’è alcuna differenza: italiani o stranieri, tutti soffrono allo stesso modo». Così prosegue il cardinale De Donatis: «Da certe affermazioni che appaiono essere di moda potrebbero nascere germi di intolleranza e di razzismo che, in quanto discepoli del Risorto, dobbiamo poter respingere con forza. Chi è straniero è come noi, è un altro noi: l’altro è un dono. È questa la bellezza del Vangelo consegnatoci da Gesù: non permettiamo che nessuno possa scalfire questa granitica certezza». Infine aggiunge che «l’accoglienza verso l’altro, soprattutto quando si trovi nel bisogno» è per un cristiano un dovere.
Anche ai carismatici Papa Francesco raccomanda di imparare a tener fede a tale certezza. Nel salutare, infatti, i partecipanti all’incontro promosso dal Catholic Charismatic Renewal International Service, CHARIS, il nuovo servizio internazionale per il Rinnovamento Carismatico Cattolico, da lui stesso voluto, ricorda che: «Evangelizzazione non è proselitismo ma principalmente testimonianza. Testimonianza di amore: guardate come si amano, è ciò che richiamava l’attenzione di quanti incontravano i primi cristiani. Guardate come si amano. Delle volte in tante comunità si dice: Guarda come si sparlano, ma questo non è lo Spirito Santo». Nella stessa occasione il papa chiarisce che «questo non vuol dire che il Rinnovamento si è fatto comunista», scherza a braccio, «servire i poveri è nel Vangelo, non è comunismo».
Non la pensa come il papa la Presidente di un seggio elettorale, moglie del candidato sindaco del PD, che a Signa (Firenze), in occasione del ballottaggio, ha deciso di coprire con lo scotch il crocifisso, pensando che possa offendere qualcuno degli elettori. Una persona è entrata nel seggio e ha scattato una foto postandola su facebook e scatenando le ire di alcuni esponenti della Lega. Immediata la protesta dei rappresentanti di lista e alla fine lo scotch è stato tolto. Al contrario Moni Ovadia ha dichiarato: «Lascio la Comunità ebraica di Milano, fa propaganda a Israele». Diceva don Primo Mazzolari che «la libertà è l’aria della religione». Non era ebreo, come non lo era George Orwell che in appendice alla Fattoria degli animali scrive: «Se la libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuol sentirsi dire».
Dialoghi Mediterranei, n., 38, luglio 2019
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Marcello Vigli, partigiano nella guerra di Resistenza, già dirigente dell’Azione Cattolica, fondatore e animatore delle Comunità cristiane di base, è autore di diversi saggi sulla laicità delle istituzioni e i rapporti tra Stato e Chiesa nonché sulla scuola pubblica e l’insegnamento della religione. La sua ultima opera s’intitola: Coltivare speranza. Una Chiesa altra per un altro mondo possibile (2009).
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