CIP
di Mario Cubeddu
Seneghe raggiunge un massimo di popolazione nei primi anni successivi alla Seconda guerra mondiale, arrivando a superare i 2500 abitanti. Oggi si avvia a scendere rapidamente sotto i 1700. Ancora negli anni Cinquanta persisteva la produzione del grano con le antiche forme dell’aratura con i buoi e l’aratro leggero che consentivano di utilizzare anche le superficie agrarie col terreno poco profondo e la roccia affiorante. Si coltivava la vite e soprattutto l’ulivo. Nelle annate di carica gruppi numerosi di ragazze tornavano la sera in paese dalle giornate di raccolta delle olive.
Le forme di organizzazione e collaborazione sociale erano quelle della tradizione, con il sacro intrecciato ai lavori stagionali, ma da qualche decennio erano arrivati anche i modelli organizzativi tipici della società moderna. La prima sezione di partito di massa di cui si ha notizia certa e si conosce l’elenco degli iscritti è quella fascista nata nella primavera del 1923. Nasce per opera dei dirigenti sardisti Paolo Pili e Antonio Putzolu, diventati leader del partito fascista della provincia di Cagliari; i due giovani ex ufficiali non fanno altro che cambiare nome e affiliazione al gruppo di giovani sardisti ex combattenti del paese, secondo gli accordi stipulati con il generale Gandolfo, plenipotenziario mandato in Sardegna da Mussolini.
A dire il vero, era stato un notabile dell’età liberale il primo a mobilitare i suoi seguaci per organizzarli pochi mesi prima in sezione fascista. Aveva creato anche la sezione femminile, composta dalle molte figlie che aveva generato. Erano ancora prodotti della vecchia politica dell’età dei notabili che cercava di adattarsi alle novità prodotte dalla Marcia su Roma e si proponeva a rappresentare la nuova forma del potere dello Stato. Quest’ultimo preferì invece stringere alleanza con il movimento dei combattenti che avevano dato vita nel 1921 al Partito Sardo d’Azione.
Cosa è rimasto nella popolazione locale di tutto l’affanno organizzativo del ventennio che cercava di mobilitare la popolazione delle varie fasce di età e delle diverse condizioni sociali? Non ho competenze per osare un collegamento tra la sindacalizzazione degli operai, soprattutto agricoli, del dopoguerra e il sindacalismo fascista che esprime anche delle figure di un certo rilievo a livello regionale. Né riesco a cogliere a pieno il significato dell’arruolamento nella Milizia fascista dei molti giovani provenienti da famiglie della piccola e media proprietà terriera di cui ho trovato l’elenco tra le carte di mio padre che ne faceva parte. Sono invece abbastanza sicuro del fatto che il fascismo rappresenta un grande passo avanti nel processo di nazionalizzazione delle masse. L’organizzazione di ogni fascia di età, la mobilitazione continua, oltre al ruolo svolto dalla scuola e dalle vecchie istituzioni piegate dal fascismo, anche se recalcitranti, al suo servizio (il clero sardo fu particolarmente entusiasta del nuovo potere che li rimetteva al centro della vita nazionale a garantire la protezione divina per le imprese belliche del regime), il clamore intorno ai successi ottenuti, una società ordinata, il prestigio, l’impero, i successi sportivi (i giovani moderni giocano al calcio, viene spianato un terreno comunale in periferia, i contorni di roccia servono da spogliatoio e da gradinate), incidono in profondità nell’immaginazione degli isolani. Il regime d’altro canto rende omaggio a tradizioni popolari viste come segno di arcaicità non sempre autentiche. Il sardo rude e fedele scoperto durante la Grande Guerra è sempre di moda, anche se continua a suscitare qualche diffidenza
A questo punto della mia vita non so dire se sono più reali le immagini che vedevo nella campagna dove mio padre mi mandava bambino a svolgere compiti compatibili con i 7/8 anni di età (portare un cavallo o un asino all’abbeverata o nel recinto del loro riposo notturno, raccogliere spighe sfuggite alle sue dita marroni) oppure quelle che vidi per la prima volta sullo schermo in un vecchio pagliaio trasformato in sala cinematografica: erano donne, uomini, luoghi diversi da quelli che conoscevo. Il clero di paese e l’Azione Cattolica contribuivano alla propria distruzione regalando il biglietto per il cinema parrocchiale ai bambini che, stormo di passeri, si presentavano a fare i chierichetti.
Sono cresciuto in una famiglia di piccoli proprietari terrieri in anni in cui l’egemonia della Chiesa cattolica era indiscussa e a suo modo feroce. A un poveretto caduto dalle impalcature dell’acquedotto il parroco aveva rifiutato la sepoltura religiosa perché socialista. Conosco lo strazio dei parenti e dei figli con cui giocavo. Incombeva sui figli di mio padre la minaccia che se non studiavamo avremmo dovuto fare il suo mestiere. L’unica alternativa era dunque lo studio e trovare una sistemazione nelle attività di servizio alle grandi istituzioni, la Chiesa o lo Stato. Gli aspiranti a una collocazione di servizio, come la chiama Luigi Meneghello, eravamo decine di migliaia. L’agricoltura sarda non sapeva che farsene di noi, finita l’autarchia fascista la maggior parte avrebbe trovato posto nelle fattorie padane e sui pascoli dell’Appennino, ma soprattutto nelle fabbriche del triangolo industriale. Moltissimi di noi, io tra tantissimi, furono reclutati dall’ultimo tentativo di sopravvivenza operato dagli ordini religiosi regolari: i loro emissari setacciarono le parrocchie sarde e meridionali prima di rivolgersi all’Africa. Chi andava a studiare per diritto sociale nazionale erano ancora solo i figli degli impiegati e dei tanti appartenenti alle famiglie di carabinieri, poliziotti, guardie carcerarie, sottufficiali dell’esercito.
Ricordo il percorso di studio come una lunga notte vissuta da sonnambulo. Le lingue antiche e i miti che raccontava si intrecciavano con la scoperta adolescenziale della sessualità; sulla formazione religiosa, fatta di precetti ormai incomprensibili, prevaleva il fascino della modernità. I quattro anni vissuti in un seminario somasco in Piemonte stranamente respirano l’entusiasmo per i Kennedy e per i valori USA. Libertà e democrazia si intrecciano con il fascino di personaggi giovani e belli. Da qui il passaggio alla passione per la nuova musica fu naturale. Al ritorno, successivo alla scoperta di un’assenza totale di vocazione religiosa, diventato studente di liceo per i risultati scolastici positivi, ho visto sfilare ad Oristano quelli che manifestavano per la crisi di Cuba prospettando il pericolo di una guerra nucleare.
Non mi viene facile parlare della complessa ricchezza degli anni Sessanta a Seneghe. Dove si ripercuotevano tutte le vicende del mondo, perché, parafrasando Lobina, anche Seneghe faceva parte dell’Italia e del mondo. L’egemonia cattolica sembrava più forte che mai, ma cominciava a mostrare crepe vistose. La Chiesa proponeva un suo modello di modernità borghese, conformista e subalterna al modello industriale. La lotta contro la tradizione che si manifestava con la proibizione rivolta ai giovani, soprattutto alle ragazze, di partecipare al ballo comunitario tradizionale, sembrava mostrare il desiderio di un controllo esclusivo delle menti e dei cuori giovani. Le prime avvisaglie di ribellione “sessantottesca” sono costituite dall’organizzazione di occasioni di divertimento privato da parte di gruppi di giovani. Ricordo con quale faccia tosta ci presentavamo all’uscita della funzione domenicale del pomeriggio per invitare le ragazze a venire a ballare nel nostro “club”. Mossi da un istinto feroce, un desiderio di vita che non aveva piena coscienza di se stesso, i giovani di una nuova realtà ormai aperta all’obbligo scolastico generalizzato, cercavano una loro strada nel mondo nuovo.
Se ripenso agli anni dell’Università, sia a Cagliari, sia nelle ripercussioni seneghesi, percepisco l’esistenza di due modelli esistenziali, prima ancora che politico-culturali. E l’elemento discriminante erano i gusti musicali. Io e i miei amici eravamo stati folgorati dalla comparsa dei Beatles e dei Rolling Stones. Ancora oggi non conosco il significato della maggior parte dei loro testi, ho letto la traduzione e l’ho subito dimenticata. Cosa diceva questa musica a me diciassettenne? Sembrava contenere un messaggio di libertà e di nuove, inedite, possibilità. Ma era tutto vago, indefinito, senza un contenuto concreto. Ci staccavamo nettamente dai gusti, dal modo di pensare, dal modo di presentarsi agli altri, dando scandalo o irritando le generazioni che ci avevano preceduto, ma non c’era alcuna chiarezza su quale futuro si dovesse costruire. Dovevamo leggere Marcuse, la scuola di Francoforte, ma ci stancavamo subito. Quando i Beatles pubblicarono “Revolution” ci fu una generale delusione di fronte alla proposta riformista di John Lennon. A pensarci ora, credo che fossimo stati contagiati dall’“ideologia” americana, dai miti fondativi che avevano portato alla nascita e alla crescita degli Stati Uniti d’America sino allo status di potenza mondiale. Nonostante tutti i suoi difetti, e la guerra nel Vietnam, la democrazia americana ci sembrava la forma migliore di organizzazione politica di una società moderna. C’era la segregazione razziale. Ma anche questa produceva cultura e miti, dal jazz scoperto in quegli anni a Martin Luther King, al movimento di Berkeley.
Gli altri sembravano avere le idee più chiare. Loro ascoltavano Beethoven e Bach, leggevano i libri di storia della musica e guardavano noi dall’alto in basso, come fratelli minori un po’ scemi. Noi da parte nostra disprezzavamo l’ondata marxista-leninista, gli esaltatori rossi e neri dell’Albania di Enver Hoxha. La Cina era già un affare più complesso che non si poteva liquidare facilmente. Conoscevamo, anche se superficialmente, la letteratura critica sull’esperienza sovietica, i gulag, la letteratura samizdat, e l’ondata di riscoperta del marxismo ci sorprese e meravigliò. Che senso poteva avere la proposta di costruzione di una società socialista dopo i fallimenti sperimentati? Quando penso al Sessantotto cagliaritano considero uno dei suoi momenti più alti un confronto aperto in facoltà di Lettere tra quelli dei paesi e della Sardegna interna e i giovani provenienti dalle città, spesso da famiglie di intellettuali di sinistra conosciuti come professionisti o come politici. Lo ricordo con nostalgia come un tentativo di spiegarsi, di capirsi, ma lo ricordo come un patetico fallimento. La memoria potrebbe ingannarmi. Io mi sentivo a cavallo tra le due posizioni, stranamente la curiosità verso le posizioni dell’avversario prevaleva sulla difesa del mio punto di vista. Nelle posizioni di “quelli di paese” c’era la presenza di idee arretrate, ma c’era anche la necessità di dare voce alla piccola “nazione sarda”. Il sessantotto europeo delle Università spinse alla mobilitazione delle gioventù delle piccole realtà periferiche che avevano molto di cui lamentarsi con gli Stati nazionali: l’Irlanda, il Paese basco, la Bretagna, l’Occitania, la Corsica. Le sinistre giovanili in queste realtà facevano delle scelte che invece sembrava che la gioventù sarda di sinistra rifiutasse.
Nell’estate del 1966 il liceo era finito. Sole e libertà. I miei genitori mi consentirono di ospitare alcuni compagni di scuola nella casetta al mare. L’allegria nel fare insieme le cose che occupavano le giornate delle nostre mamme: cucinare, lavare i piatti, fare ordine. Gli ultimi anni di liceo si moriva di noia, contavo i secondi nell’ultima ora, gli insegnanti ci apparivano mediocri e insulsi. Ormai solo la paura delle punizioni ci teneva a freno.
La novità importante arrivò al ritorno dal mare alla fine di agosto. Un giovane laureato in giurisprudenza, che preferiva l’alternativa dell’insegnamento e della politica alle arringhe di tribunale, aveva convocato tutti gli studenti per mobilitarli e per metterli di fronte alle loro “responsabilità di futura classe dirigente”. Nessuno ricorda cosa ci disse: godeva di scarso prestigio, considerato che aveva lasciato il Partito Sardo in sfacelo per entrare nella Democrazia Cristiana. Qui doveva sgomitare tra una marea di concorrenti molto più accorti e meglio inseriti nei meccanismi sociali e clientelari della società seneghese. Ma la bomba esplose comunque: ci ritrovavamo tutti insieme, maschi e femmine, vedevamo visi sconosciuti, sentivamo parole nuove portate da chi ancora frequentava le scuole superiori cagliaritane. Ci siamo messi d’accordo tra di noi e la riunione successiva è stata fatta a casa di uno del gruppo senza neanche invitare l’avvocato.
Poche settimane dopo nasceva l’Associazione Giovanile di Seneghe. Il nome generico, il rifiuto di qualificarci con il riferimento a personaggi o concetti ideali, rivela che si trattava di un associazionismo in qualche modo corporativo, erano gli studenti che si mettevano insieme. Le finalità univano lo svago alla vaga idea di un’utilità sociale. Per essere più precisi, la nostra ambizione era quella di modernizzare il paese inserendovi elementi mancanti, tipici di una società cittadina. Una delle cose importanti realizzate dall’Associazione fu la creazione di una Biblioteca. La maggior parte di noi era stata lettrice appassionata dei volumi portati dalla Biblioteca circolante dell’UNLA, Unione Nazionale per la Lotta all’Analfabetismo. La sua presenza in paese venne promossa dagli animatori del progetto Sardegna dell’OECE, un organismo della Comunità Europea. Si attendeva con impazienza il momento della restituzione dei libri letti e la scelta dei testi appena arrivati. Finito il Progetto, conclusa in modo un po’ sordido l’attività realizzata da giovani più grandi di noi (la cassetta con le offerte per le vittime della strage di Longarone era stata saccheggiata da ignoti), eravamo senza libri. Non avevamo soldi e quindi non potevamo essere noi a sostituirci all’amministrazione comunale democristiana che vedevamo lontana e ostile. Ma le idee non mancavano: qualcuno propose di chiedere alle famiglie dei maggiorenti, le uniche che compravano libri, di cedere a noi i volumi di cui ritenevano di poter fare a meno. Fu creata quindi una prima scorta composta da romanzi con le copertine rosse e verdi delle collane allora maggiormente diffuse, prima della comparsa nel 1965 degli Oscar Mondadori. Un’altra idea fu quella di scrivere a tutte le ambasciate presenti a Roma per avere materiale divulgativo che aiutasse a capire le caratteristiche delle loro nazioni. Ricordo come i più generosi, gli Stati Uniti che, oltre ai volumi di una collana sui classici della democrazia americana, ci mandò un atlante di tutti gli Stati. Potevamo vedere la collocazione e l’estensione delle riserve indiane su cui credevamo di sapere tutto in quanto lettori di Tex Willer.
La biblioteca comunale nasceva in coincidenza con la sconfitta dei democristiani e l’arrivo al Comune di Ovidio Addis e dei consiglieri dei partiti coalizzati contro la forza dei democristiani. I nuovi amministratori affidarono a noi la realizzazione della Biblioteca Comunale chiedendoci di indicare i titoli da comprare dopo aver destinato all’acquisto una somma adeguata. I nostri libri vennero quindi trasferiti in uno spazio libero della casa comunale e i soci dell’Associazione provvedevano a turno all’apertura e al prestito. Entrava in biblioteca la saggistica e la narrativa, soprattutto Einaudi. Con ulteriori acquisti e con l’assegnazione di un’impiegata al servizio è nata poi ufficialmente la Biblioteca comunale, ancora oggi molto frequentata e attiva nell’animazione culturale.
Le attività di socializzazione e di festa avevano importanza pari, se non superiore, a quelle culturali. Le gite alla scoperta del “continente Sardegna” erano aperte a persone di ogni età; le feste importanti, soprattutto per il Carnevale, erano accompagnate da balli sociali, anch’essi aperti a chiunque volesse partecipare. Ma non c’era la fila dei questuanti.
Ben presto ci si cominciò a stancare di vedere sempre le facce dei compagni di scuola. La nostra ambizione era di coinvolgere anche i giovani che non studiavano. Come mai non erano attirati dalle nostre proposte ma se ne tenevano lontani con una sorta di diffidenza silenziosa? Ciascuno di noi aveva amici e compagni di scuola con cui manteneva ottimi rapporti, ma essi sembravano stare a disagio con i discorsi e gli atteggiamenti degli studenti. Eppure qualcuna delle ragazze del nostro gruppo si fidanzava con giovani lavoratori, spesso più attraenti e interessanti della media degli studenti seneghesi. La verità è che, mentre per gli studenti che avessero terminato gli studi, la prospettiva dell’impiego in Sardegna era sicura, per i giovani lavoratori si apriva quella dell’emigrazione che la maggior parte di loro avrebbe conosciuto. Qualche artigiano muratore particolarmente bravo con la prospettiva di diventare un piccolo imprenditore ci guardava dall’alto in basso.
Come era successo all’Università, l’unanimismo dei primi tempi su temi come il diritto allo studio per le classi popolari, la lotta contro l’autoritarismo dei baroni, era stato sostituito dalla radicalizzazione politica e dal contrapporsi di ipotesi diverse di cambiamento sociale e culturale. L’Associazione Giovanile cominciò a dividersi tra chi faceva scelte di sinistra, chi rendeva espliciti gli orientamenti moderati, in genere repubblicano-mazziniani, una tendenza arricchita dal confluire in essa di sardisti fuorusciti dalla crisi causata dall’alleanza del PSdA con il PCI, e un gruppo di amici che preferivano non prendere posizione e seguire le loro passioni, in primo luogo la musica rock. Nessuno di noi aveva reali capacità di analisi politica e di organizzazione. Fu il ritorno di chi aveva fatto esperienza di movimento all’Università di Trento a dare ordine.
Nacque il CRAS, enfatico “centro di ricerca e di azione sociale”. Non si giunse mai ad essere almeno in dieci, ma ci si impegnò in una analisi economica e sociale di Seneghe abbastanza accurata. Oltre alla prevalenza scontata della piccola proprietà contadina, si poté verificare la presenza sorprendente di un gran numero di piccole aziende artigiane. Molti i muratori, ancor più numerosi i manovali, giovani e giovanissimi aspiranti a entrare nella professione, da esercitare in Sardegna o, più probabilmente, in Svizzera. La cosa si spiega con la costruzione in quegli anni di centinaia di case che vennero a formare le borgate marine sulla costa, da Santa Caterina a Putzu Idu. Il passo successivo fu costituito dall’impegno politico. Lo schierarsi a sinistra portò naturalmente a cercare contatti con i “compagni” storici del paese. La parte più consistente di loro proveniva dal sardismo di sinistra lussiano. Erano soprattutto artigiani e braccianti agricoli. Alla fine della guerra per qualche tempo era stata presente anche una sezione del Partito Comunista, attiva soprattutto in campo sindacale tra gli operai impegnati nei lavori realizzati dal Comune. Alla morte del primo segretario la sezione aveva cessato di esistere e i socialisti invecchiavano senza rendersi conto di come il loro partito fosse cambiato. Ricordo comunque che tutti ci accolsero con gioia e simpatia nelle loro case quando decidemmo di fare una lista per le elezioni comunali nel 1975. Su quattro liste ottenemmo il secondo posto e due seggi, un risultato onorevole che però non scalfiva l’egemonia democristiana. Ma se questa era certa sul piano della politica clientelare, sul piano culturale invece le nuove idee e i nuovi modelli di comportamento erano impersonati dalla sinistra. Né la Chiesa, né la Dc lo mettevano in discussione.
Alla fine degli anni Settanta nasceva una nuova sezione del PCI che prendeva nome da un seneghese emigrato a Roma nel 1926 che era stato uno dei primi partigiani uccisi a Roma nell’ottobre del 1943. A quel punto buona parte dei componenti dell’Associazione Giovanile era stata dispersa dagli impegni di studio, dal lavoro, dagli impegni familiari. Da Cagliari, dove mi ero trasferito, vedevo che nel paese la sezione PCI continuava l’attività culturale che avevamo iniziato: cineforum, incontri per discutere le problematiche di attualità. Si era creata anche un’altra consuetudine interessante: i nuovi gruppi che si proponevano di partecipare alla vita amministrativa costituivano delle Associazioni culturali qualche tempo prima delle elezioni che cessavano di esistere una volta che si fossero svolte, sia in caso di vittoria che di sconfitta. Era un modo per presentarsi come espressione della comunità intera, non di una parte/partito.
Qualcosa di simile avvenne a “Perda Sonadora” quando fu costituita nella primavera del primo anno del nuovo millennio. Nel 1990 ero tornato a Seneghe, mi ero comprato una bella casa del Sei/Settecento che avevo ristrutturato, cercavo di trovare un posto in una comunità da cui mancavo da quindici anni. Capitai giusto in tempo per il rinnovo del Consiglio Comunale. Come unico laureato potevo costituire un elemento di attrazione e mi fu chiesto quindi di essere il riferimento come possibile Sindaco. Mi trovavo a rappresentare, come sempre a Seneghe, un’alleanza che si sarebbe detta “milazziana”: tutti uniti, da destra a sinistra, contro la DC. Elemento unificante il sardismo rappresentato da me. Più che essere un’ideologia, il sardismo significava un’innocua petizione di principio di amore verso la propria terra e i suoi abitanti e di impegno a fare bene. Era un tempo di cambiamenti nel sistema elettorale per cui siamo incorsi nel curioso paradosso di aver vinto e perso allo stesso tempo. I voti che ci erano stati assegnati in un primo momento vennero ridimensionati dal Tribunale Amministrativo Regionale e dopo pochi mesi smisi di essere Sindaco pur restando in Consiglio Comunale. Facevo anche parte della Comunità Montana del Montiferru, un organismo nato per favorire la programmazione decentrata e il contributo democratico delle comunità alle scelte di spesa dei fondi europei per lo sviluppo.
Erano gli anni del canto del cigno dei partiti politici. Nei nostri paesi sono morti senza lasciare rimpianti per l’incapacità di essere realmente elemento di stimolo della vita democratica. Appariva chiaro nelle scelte che le amministrazioni facevano in occasione di nuovi progetti. L’amministratore e il burocrate decidevano a chi dovesse andare il contributo e preparavano gli elementi progettuali in modo che esso arrivasse a chi era stato deciso in precedenza. Molti amministratori erano portatori di precisi interessi privati, a volte personali, da realizzare dopo aver acquisito un ruolo politico. Nessuna competizione leale per dimostrare le proprie capacità o la superiorità del proprio progetto. Naturalmente c’erano anche delle proposte di valore e non tutte di facciata. Farle arrivare a buon fine e cercare di arginare il clientelismo dava senso a una presenza altrimenti inutile, se non squalificante. Non ero solo, avevo ripreso i contatti con persone di varie età, altri rientrati in paese come me e alcuni giovani. Nel 2000 Salvatore Feurra, rientrato da un’esperienza di operaio metalmeccanico a Milano, era entrato a lavorare in un’azienda edile diventando rappresentante sindacale CISL. Ci propose di costituire un’Associazione con la finalità di unire l’animazione culturale alla creazione di prospettive economiche, a partire dalla valorizzazione del consistente patrimonio archeologico locale. Nasce così Perda Sonadora. Fui io a proporre il nome ispirato a un toponimo presente nel territorio di Seneghe e fui eletto Presidente. La partenza non poteva essere migliore: organizzammo un convegno sui beni archeologici con la presenza del professor Giovanni Lilliu, di Giacobbe Manca e di altri esperti. A conclusione del convegno la popolazione fu chiamata a seguire un concerto di canti e musiche sia della tradizione paesana sia ispirata alla rielaborazione con sonorità contemporanee della stessa tradizione.
Avevamo appena iniziato e già incombevano le elezioni comunali. Mio fratello accettò la candidatura e risultò vincitore con un gruppo di amministratori giovani. Avevano idee e capacità di trasformarle in programma: pubblicarono anche un libro per illustrarlo alla popolazione. Purtroppo in una società disgregata i meccanismi di riconoscimento e approvazione sono subdoli e spesso corrotti. Amministrare con equità e senza favoritismi provoca più inimicizia che consenso. Dopo cinque anni di progettazione, quando la fase di realizzazione era appena cominciata, alle nuove elezioni la nostra lista risultò perdente. Intanto noi avevamo continuato le nostre attività. Tra queste aveva assunto una certa importanza una riscoperta delle tradizioni popolati condotta senza folclorismi. Il ballo sardo, che aveva il momento culminante nel Carnevale, era elemento centrale nell’identificazione della comunità. A esso si legava su ballu ‘e cantidu, pezzo forte del canto a tenore seneghese e gioiello prodotto nei secoli dalla nostra cultura popolare.
Con attività di laboratorio siamo riusciti a riportare i giovani nel ballo in piazza e ora appare normale una loro presenza che andava diminuendo sino a minacciare di scomparire. Storicizzare, considerare la cultura popolare nel tempo e nell’azione degli uomini era il criterio che seguivamo. Per questo apparve opportuno raccogliere ciò che rimaneva nella memoria e nei quaderni familiari della ricca produzione poetica in lingua sarda. Pubblicammo nel 2001 Poetas seneghesos, un volume che definiva ciò che era rimasto della tradizione e dava spazio agli autori ancora attivi anche tra i giovani. Avevamo anche collaborato all’organizzazione delle serate letterarie di Pimpirias che si tenevamo presso l’Osteria Al bue rosso. Si chiudeva in questo modo una filiera economico-sociale: l’allevamento bovino della vacca sardo-modicana otteneva il riconoscimento Slow Food dopo l’organizzazione di un consorzio di produzione, nasceva per la prima volta un ristorante dove il visitatore poteva apprezzarlo, le serate letterarie provavano ad animare la vita di paese, intristita soprattutto nella stagione invernale. Gli autori della rinascenza letteraria sarda, nata sulla scia dell’opera di Sergio Arzeni, divennero amici del festival.
Erano gli anni di Renato Soru e il nostro ambiente lo sostenne con entusiasmo. Questo portò alcuni tra gli scrittori che avevano creato Isola delle Storie a Gavoi a scegliere Seneghe come luogo adatto per associare al festival dedicato alla narrativa un festival che si occupasse di poesia. Nel paese barbaricino tra i protagonisti dell’iniziativa erano nati dei dissensi, il loro numero rendeva difficile operare uniti, questo portò alla nascita dell’iniziativa di Seneghe così come a quella di Tuttestorie, il festival dedicato alla letteratura per ragazzi. Per il Cabudanne de sos poetas (è stata Perda Sonadora a proporre un nome in sardo accanto a quello italiano; col tempo si è imposto grazie soprattutto alla simpatia che suscitava negli ospiti “continentali”!) era prevista la costituzione di un’apposita associazione dedicata. Il gruppo dei fondatori era molto impegnato in attività che impedivano una conclusione.
Il festival di poesia di Seneghe ha potuto mettere radici, consolidarsi e durare nel tempo per diverse ragioni. La prima è costituita dalla qualità delle proposte avanzate dal gruppo degli scrittori, Flavio Soriga, Luciano Marrocu, Paola Soriga, Bruno Tognolini per i primi anni. Grazie a loro si è avuta sin dall’inizio un’apertura nazionale che ha portato a Seneghe i maggiori poeti italiani, da Mariangela Gualtieri ad Antonella Anedda, da Valerio Magrelli a Valentino Zeichen, da Milo de Angelis a Maurizio Cucchi. Dal primo anno e sinché l’età glielo ha consentito ha avuto un ruolo molto importante Franco Loi che scriveva ogni settimana di poesia sul domenicale di cultura del Sole 24 Ore. Si deve a lui anche l’apertura internazionale con l’invito di poeti francesi, olandesi, svizzeri, spagnoli. Noi di Perda Sonadora abbiamo portato il contributo del nostro lavoro sulla poesia in sardo, sia di quella legate alle varie forme di canto, sia di quella contemporanea. Abbiamo cercato anche di fare in modo che l’iniziativa venisse sentita come propria dalla comunità locale. Siamo partiti dai giovani studenti. Ci siamo rivolti alla forma di aggregazione più sentita, quella per età, memore delle leve militari.
In paese i diciotto anni compiuti da tutti, maschi e femmine, costituiscono un passaggio da vivere collettivamente. I giovani organizzano una festa. Noi abbiamo chiesto loro di partecipare al festival dandoci una mano nell’organizzazione. Per diversi anni lo hanno fatto volentieri. Allo stesso modo ci siamo rivolti all’associazione degli anziani, Su Sotziu de sos Mannos attenendo ugualmente una risposta positiva.
L’immersione nella realtà impedisce la possibilità di uno sguardo prospettico che consenta di valutare se e quanto l’attività culturale svolta abbia inciso sulle trasformazioni della società seneghese. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte alla classica tela di Penelope, un succedersi di iniziative che lottano inutilmente contro il processo inevitabile di decadenza dovuta alla crisi demografica e a uno sviluppo economico che condanna all’estinzione realtà come quella sarda. Ma quante nobilissime cause sono state sconfitte? Il mondo potrà fare a meno del popolo sardo così come ha fatto a meno di tanti altri popoli sconfitti e dispersi. È triste vedere un mondo in cui non nascono più bambini. Proprio per questo ai pochi che ci sono dobbiamo dare il meglio di quel che la vita ci ha insegnato, aiutandoli a vivere meglio.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
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Mario Cubeddu, nato a Seneghe, ha studiato a Cherasco e a Oristano, si è laureato in lettere classiche all’Università di Cagliari nel 1971. È autore di Un riparo dalla tempesta. Storia di Seneghe in età moderna (1600-1850), uscito nel 2013. Successivamente sono usciti i risultati delle sue ricerche sul sardofascismo che ha visto la presenza a Seneghe di due tra i suoi rappresentanti più conosciuti, Paolo Pili e Antonio Putzolu. Dalla nascita nel 2005 al 2017 ha avuto la responsabilità giuridica del Cabudanne de sos poetas, festival di poesia che quest’anno è arrivato alla ventesima edizione. Questa esperienza lo ha portato alla poesia; nel 2021 è stato pubblicato dall’editore Vydia Areputzu/ Asfodelo di Montecassiano (Macerata), un volume di poesie in sardo e in italiano.
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