Alberto Moravia sosteneva, a proposito dell’America latina, che all’isolamento geografico e alla povertà economica di un Paese si accompagna sempre una grande ricchezza culturale. Lo stesso potrebbe dirsi in fondo della Sicilia, un’isola dalle mille contraddizioni, dove a meravigliosi paesaggi naturali, rovine archeologiche millenarie e monumenti artistici di grande pregio si oppongono le catastrofi ambientali, la criminalità mafiosa, le precarie traversate a mare con i tragici approdi dei migranti, la povertà e la disoccupazione.
Ma forse è tutto questo che sta alla base di quel sentimento di attrazione/repulsione che lega chi è nato in Sicilia, o chi è scappato via, chi è passato per caso e ha finito col mettervi le radici: un Mal di Sicilia, lo definisce Francesco Terracina, giornalista dell’Ansa e scrittore, così intitolando il suo ultimo volume edito da Laterza. Un mal di Sicilia che prende corpo in queste pagine attraverso una galleria di personaggi presentati nel dettaglio e scoprendone i lati più nascosti e sconosciuti: scrittori e artisti, magistrati e uomini politici, diversi per scelte e vocazioni, uniti dal legame con questa “zattera del Mediterraneo”, punto di approdo e salvezza per alcuni e di fuga per altri. È quello che succede a chi resta tenacemente abbarbicato a quest’Isola senza mai spostarsi, chi fugge per necessità o per scelta, chi a volte ritorna e chi arriva per caso e vi rimane sedotto dalla singolarità di questa terra. Siciliani di nascita e siciliani di adozione: come quel marinaio tedesco Gisbert Lippelt che, trovandosi per caso in vacanza alle isole Eolie, sceglie di vivere per sempre a Filicudi, in una grotta, isolato dal mondo e dalla tecnologia. Il suo fare silenzioso, da eremita, finisce per diventare senza volerlo un modello di vita per la comunità. A tal punto da fare muro contro gli ambiziosi progetti di speculazione edilizia da parte di alcuni boss mafiosi.
Alexandre Hardcastle, capitano della marineria britannica, si riduce in rovina economica per aver investito tutto il suo patrimonio finanziando gli scavi archeologici della Valle dei Templi: isolato e guardato con diffidenza dai residenti locali, morirà pazzo nell’ospedale psichiatrico di Agrigento. Persino un ex calciatore del Milan, Benigno de Grandi, entrerà nella ritrattistica del libro, come testimonianza di una vita conflittuale vissuta a Palermo fra alti e bassi fino alla sua morte.
Si raccontano ancora le storie di vita di tanti scrittori siciliani, andati via in gioventù come Elio Vittorini, siracusano, o rimasti per sempre, come Stefano D’Arrigo, messinese. Il primo abbandona la sua terra giovanissimo per non tornarvi più, se non occasionalmente. Dopo una tappa a Gorizia, sceglierà di vivere a Milano in cui vede il simbolo della modernità e del progresso. Torna nella sua Ortigia nel 1950 e saluta di buon occhio la trasformazione della zona circostante che proprio in quel tempo si stava convertendo a modello industriale col polo petrolchimico di Augusta: investimenti che tuttavia non decollarono mai. Vittorini li interpretò come segni di un possibile cambiamento in una terra afflitta dalla lentezza, dalla noia e dall’immobilismo. A differenza di tanti altri scrittori siciliani della sua generazione, Vittorini mantenne una posizione fortemente critica verso i luoghi delle sue origini. Da qui il giudizio negativo sul Gattopardo e sulla figura del principe di Salina, un romanzo a suo avviso di stampo ottocentesco, che rifiuterà di pubblicare nella collana “il Gettone” dell’Einaudi. Tuttavia, malgrado le sue apparenti intenzioni – dirà infatti che il romanzo avrebbe potuto essere ambientato in qualsiasi parte del mondo – la Sicilia tornerà prepotentemente in Conversazioni in Sicilia attraverso il tema del viaggio e del ritorno di un esule nella propria terra.
Anche il monumentale Horcinus Orca di Stefano D’Arrigo è incentrato sul tema del viaggio: la storia di ‘Ndria Cambria che all’indomani dello sbarco degli americani nel 1943, decide di far ritorno a piedi da Napoli in Sicilia. Un’esperienza interminabile, irta di difficoltà, che presto si trasforma in qualcosa di irreale e di fantastico. Il registro narrativo assume qui un taglio visionario soprattutto in prossimità dello Stretto di Messina, fra Scilla e Cariddi: luoghi mitici per eccellenza, spazi di frontiera, liminari, popolati da mostri come le fere, specie di delfini feroci ma soprattutto dall’Orcaferone, detta appunto Horcinus Orca.
La scrittura diviene così un modo per ricomporre lacerazioni e fratture che sul piano razionale, dell’esperienza, sono insanabili. Un modo per idealizzare una Sicilia che probabilmente non esiste, fissarla nella memoria, trasporla sul piano del mito rendendola universale: un fermo immagine secondo l’autore. Ma anche, come direbbe Sciascia, una Sicilia come metafora.
Diversa e per altri versi simile è la storia di Goliarda Sapienza, catanese di nascita, vissuta fin dall’adolescenza a Roma in un ambiente progressista. Il padre, siciliano, avvocato socialista e anticlericale; la madre, lombarda, anche lei rivoluzionaria, fondatrice dell’Unione delle donne italiane. Navigare controcorrente è per Goliarda il suo modo di stare al mondo, lo fa quasi naturalmente avendolo appreso fin dalla nascita. Il suo romanzo L’arte della gioia vedrà la luce dopo vent’anni dalla prima stesura, dopo una lunga catena di rifiuti editoriali. La storia di Modesta, la principale protagonista del libro, è quella di una trasgressione contro l’ambiente che la circonda, la Sicilia dei primi decenni del Novecento, ma è anche il segno di un riscatto.
Altre due scrittrici siciliane andate via in gioventù dalla propria terra testimoniano questo difficile rapporto con l’Isola. La prima, Livia De Stefani, palermitana, vissuta fra Roma e il feudo Virzì nei pressi di Alcamo, di proprietà della sua famiglia, racconta le vicende del latifondo siciliano nel suo ultimo romanzo, La mafia alle mie spalle, che narra di un fatto autobiografico avvenuto in gioventù: il rapimento del fratello Giuseppe da parte di alcuni boss mafiosi in contrada Lochicello. Lasciata la Sicilia a soli diciassette anni è costretta a ritornarvi vent’anni dopo, avendo ereditato quelle terre. Si sente trascinata da un mondo all’altro, dal mondo della capitale, della Mondadori prima e della Rizzoli poi, dove la scrittrice lavorava, alle campagne siciliane e ai rapporti con la criminalità, negli anni della strage di Portella delle Ginestre, del bandito Giuliano e dell’omicidio di Gaspare Pisciotta.
Laura di Falco, di Canicattini Bagni, in provincia di Siracusa, scappa giovanissima dalla Sicilia per frequentare l’università di Pisa e poi trasferirsi a Roma. È autrice del romanzo L’inferriata che si apre con lo schianto di un lampadario dal pedigree aristocratico. È un fatto simbolico: l’oggetto, appartenuto a una famiglia di marchesi, ha un ruolo centrale nella residenza nobiliare. Ha il compito di illuminare e guidare: frantumandosi in mille pezzi perde quella funzione e crea un disorientamento generale. I cocci restano sul pavimento per un lungo periodo, finché non compare sulla scena un borghese arrivista che procura uno specialista in cocci per il restauro di quel prezioso lampadario. Anche in questo caso la storia della protagonista del romanzo, Diletta De Marco, è la storia del desiderio di emancipazione e di una rottura con l’ambiente aristocratico siciliano, angusto ed opprimente. Il trasferimento nella capitale segna il distacco dalla tradizione e l’apertura al progresso. Ma il dissidio non si ricompone tant’è che la scrittrice, sopraggiunta la vecchiaia, manifesta il suo ultimo desiderio, quello di essere seppellita nel cimitero del suo paese.
A ben riflettere anche il teatro di Franco Scaldati, detto “il Sarto”, celebrato dai governanti locali solo dopo la sua morte, è la storia di un riscatto e di un ribaltamento dell’ordine esistente, dove il linguaggio dei poveri, il turpiloquio come lessico degli emarginati, la vita di strada, diventano espressione di una poetica universale. Palermo – annota tristemente Terracina – «s’è lasciato portar via il poeta dalle scene e oggi l’archivio di Scaldati, è stato raccolto, per fortuna dalla Fondazione Cini di Venezia: un ordinario caso di emigrazione verso il Nord».
Anche la pittura di Tino Signorini presenta, mutatis mutandis, una Palermo inedita, fissata nei suoi chiaroscuri con l’uso del carboncino. Un artista venuto da lontano, tripolino di nascita, romagnolo per linea paterna e siciliano per via materna, aveva vissuto a Triste, per trasferirsi definitivamente a Palermo nel 1946, attraversando un’Italia devastata dalla guerra. Negli anni Settanta il centro storico di Palermo era terra di nessuno, dominata dal caos edilizio e dal “caso” mafioso. Era questa la città che il pittore puntellava con le sue matite, con le sue ferite e i suoi dissesti mai risolti. Una denuncia silenziosa e mai dichiarata, condotta col riserbo di un uomo schivo, lontano dai centri del potere, che vuole rappresentare le rovine di un mancato senso di progettazione, dove il piano urbanistico dal dopoguerra in poi è andato avanti senza soluzione di continuità, senza appartenenza civica.
Vi sono ancora i racconti di vite stroncate precocemente per mano mafiosa: Gaetano Costa, capo della Procura, ucciso dalla mafia nel 1980. Pio La Torre e Giovanni di Salvo il suo collaboratore, tornati in Sicilia per dedicarsi alla politica. Mauro Rostagno, sociologo, che dal Nord si sposta nell’Isola e si stabilisce vicino Trapani, per fondare una comunità di recupero dei tossicodipendenti. Il ricordo di queste vittime e di tante altre che si sono susseguite sul finire del Novecento, ha assunto da quel momento i toni retorici della celebrazione della memoria di “eroi” che hanno creduto nella possibilità di una Sicilia ideale.
Ma attenzione – avverte l’autore – a non cadere in immagini stereotipate della Sicilia. Potrebbe accadere, con un sorprendente cambio di prospettiva, quello che Vittorini rivendicava alla sua Milano. Presentare la Sicilia come l’Isola del sole, del mito, delle sirene e dei ciclopi, del buon cibo e delle vacanze, includendo anche gli eroismi e il crimine mafioso, potrebbe lasciare fuori i concreti misfatti della storia, il degrado e le case abusive, le strade impercorribili: sono parole dell’autore. E continua: «cibo, cantine, archeologia, mare, vivace dialetto letterario sembrano risarcire l’umanità verghiana, sembrano pagare il debito contratto con Rosso Malpelo, con i Malavoglia, con i naufragi della storia. Persino la piovra, nella sua rappresentazione cinematografica, ottiene il passaporto per i depliant turistici». La scelta di enfatizzare tutto e di ricorrere al mito per mascherare il presente e le sue contraddizioni è un rischio troppo grande.
Ma forse è anche questo una conseguenza del Mal di Sicilia – conclude Terracina: costruire un luogo immaginario per poterne provare nostalgia.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).
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