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Siciliani in Tunisia e stranieri in Italia

Estate 1954 - Spiagge di Tunisi - Gruppo di famiglia (l'autore è il più piccolo vestito di bianco)

Estate 1954 – Spiagge di Tunisi – Gruppo di famiglia (l’autore è il più piccolo vestito di bianco)

di Marcello Bivona 

Me ne andavo l’altra sera quasi inconsciamente/ Giù al porto Bosforeion là dove si perde/ La terra dentro al mare fino quasi al niente/ e poi ritorna terra e non è più Occidente./ Che importa a questo mare essere azzurro o verde! Francesco Guccini – Bisanzio 

Torniamo in patria: profughi! 

Sono nato in una famiglia emigrata a Tunisi all’epoca dell’emigrazione proletaria dal sud d’Italia, principalmente dalla Sicilia, verso la Tunisia. Fenomeno esploso nell’ultimo decennio del XIX secolo a seguito dell’instaurazione del protettorato francese nel 1881. Tre dei nonni provenivano dalla Sicilia, il quarto dalla Sardegna: il nonno materno era nativo di Iglesias. Io, quarta generazione, sono nato quando la nostalgia dei miei antenati per i luoghi abbandonati si era trasformata in nuova energia dando vita ad una figura sociale di una modernità assoluta, il cui tratto distintivo era il plurilinguismo, frutto della convivenza tra etnie, religioni, culture diverse.

Il prima di questa condizione era cancellato. Dimenticata la Sicilia, la Sardegna, l’Italia, entità delle quali sopravviveva un’idea, un involucro che incubava nuove identità. Tre anni dopo l’indipendenza della Tunisia (20 marzo 1956), la nostra storia fu destinata nuovamente al cambio di rotta per via del rimpatrio forzato in una patria (l’Italia) che non ci conosceva e non conoscevamo.

Nella mia famiglia la data che segna nuovamente il confine tra un prima e un dopo è il 15 aprile 1959. Mio padre a Tunisi lavorava come taxista. Questa, fu la prima categoria di lavoratori “stranieri” ad essere colpita dalle misure prese dal governo Bourguiba che aveva deciso di ritirare i permessi di circolazione agli italiani per favorire l’occupazione dei tunisini. Nei primi mesi del 1959, dalla mattina alla sera, quaranta chauffeurs italiani si trovarono senza lavoro. L’Ambasciata italiana, presso cui si erano rivolti, non poteva fare altro che pagare e organizzare, per ogni famiglia che ne faceva richiesta, il viaggio di ritorno in “patria”. I tunisini alle nostre proteste rispondevano “tornate al vostro paese!” Come far capire loro che era quello il nostro Paese?

state 1959 - campo profughi di Gargnano (BS), in occasione della  cresima della sorella Antoinette

state 1959 – campo profughi di Gargnano (BS), in occasione della cresima della sorella Antoinette

Patria, rimpatrio, furono parole molto usate in quel tempo e presto se ne aggiunse un’altra: “profugo”. Furono presenti in ogni momento della nostra vita; intestavano certificati, documenti, moduli di varia natura burocratica, ricorrevano nelle domande di lavoro, iscrizioni scolastiche, dichiarazioni sottoscritte. All’epoca, avevo cinque anni, la mia infanzia ha assorbito come una spugna il dolore provato da mia madre, mio padre, mia nonna, i fratelli maggiori. Ho incarnato odori, profumi, sapori. Immagazzinato gesti, aneddoti, sconforti, nostalgie, assenze, abbandoni, sacrifici, lettere che giungevano dalla diaspora di parenti sparsi per tutto il Mediterraneo.

La mia Tunisi, che non avevo vissuto per via dell’età, la conoscevo ora tra la nebbia della periferia milanese, dove ci eravamo trasferiti dopo il rimpatrio. Imparavo ad amarla attraverso l’amore che mia madre provava per la sua città. Un amore talmente grande che non poteva finire con lei e continua in me. Mio padre aveva deciso, a differenza di quasi tutti i parenti, che avevano optato per la Francia, di fermarsi in Italia, al nord, dove c’era il lavoro. Non voleva più essere “straniero” da nessuna parte. Non immaginava che quel mercoledì 15 aprile 1959, nell’atto di tornare in patria, per la prima volta, per il resto della vita, si sarebbe sentito straniero. Tornavamo in patria da profughi, sentendoci stranieri. Con la partenza da Tunisi il suo mondo era crollato, silenzioso resisteva nel Paese dell’esilio. Partiva all’alba, cambiando diversi mezzi pubblici stipati di pendolari assonnati, per un lavoro da operaio in una grande azienda chimica sperduta tra la nebbia di una città che non gli apparteneva. Lo ricordo con il suo impermeabile di nylon e il basco blu calcato sulla fronte rincasare dal lavoro con sguardo rassegnato. Un bacio sulla guancia ruvida di barba era il mio saluto quando lo vedevo sbucare dall’angolo della strada. Apriva il portamonete e mi porgeva 20 lire per un gelato. Correvo in latteria e leccando avidamente la crema alla vaniglia tornavo a giocare. Avessi saputo allora ciò che viveva l’avrei abbracciato per sempre. Quando è morto, annientato dagli accadimenti della vita, avevo 20 anni, troppo pochi per abbracci di quel genere.

Il 15 aprile 1959 era la nostra data, ogni famiglia aveva la sua. La data del “confine” fra un prima e un dopo. Prima e dopo la “partenza”. Poco tempo per decidere sul poco consentito come bagaglio. Il resto, una vita intera, abbandonato, regalato, svenduto. Da dimenticare. “Lo sapete che giorno è oggi?” era la domanda di rito che il 15 aprile di ogni anno ci faceva la mamma. La guardavo con gli occhi sgranati e rivolta a me continuava “a quest’ora ci stavamo imbarcando, tu piangevi come un vitello orfano…”. Poi, papà e mamma disquisivano sull’ora in cui la nave aveva tolto gli ormeggi. “Erano le tre, almeno…” diceva la mamma, e papà replicava “le quattro passate, avevo guardato l’orologio mentre cercavo la cabina che ci avevano assegnato” e la mamma “ecco perché nella foto che ci hanno fatto sul ponte tu non ci sei, peccato…”.

 15 aprile 1959 ,Porto di Tunisi, con la famiglia sul ponte della nave

15 aprile 1959,  Porto di Tunisi, con la famiglia sul ponte della nave

Ero piccolo ma quel giorno lo ricordo bene. Siamo sul ponte del piroscafo, aggrappati al parapetto. Il suono grave della sirena penetra come un taglio di lama nel cuore di ognuno. Sono in braccio alla mamma, indosso le scarpe bianche e la barboteuse a quadretti bianchi e blu che mi ha cucito lei. Mia sorella Antoinette ha i calzoni rossi. Stringe forte il suo poupon dagli occhi azzurri. Ho paura di guardare il mare verde, profondo. La sirena fischia ancora, i gabbiani fanno da coro al suo struggente lamento. La nave si muove, nessuno parla. Solo lacrime e centinaia di fazzoletti bianchi sventolanti dal molo che si fanno sempre più piccoli. Addio Tunis la blanche, città d’acqua, di sole, di vento. Città dell’accoglienza, della convivenza, di cento lingue di popoli che sul tuo suolo si sono incontrati, scontrati, divisi ed uniti. Cala la notte, siamo in mare aperto. Destinazione Napoli, Italia, patria. Torniamo in patria. Freddo, umido. Le lacrime di mamma e papà, in balìa di un destino sconosciuto, si sono asciugate da un pezzo. Cercano un riparo, un poco di caldo per noi. 

Il viaggio 

La prima tappa è Palermo. Palermo è come Tunisi. Mare, luce accecante, strade bianche, palme. La nave attracca in tarda mattinata, abbiamo tutto il giorno a nostra disposizione prima di ripartire per Napoli. Al porto ci attende nostro cugino ‘Gnazzino, figlio di tata Rosa, sorella di mamma. Ha sposato Enza, una palermitana, e da qualche anno vivono a Palermo. Ci porta a casa dei suoceri. Ricordo un giardino con molto verde dove alcuni bambini della nostra età si divertono con un’altalena. Giochiamo con loro fino a quando i grandi ci chiamano per il pranzo. Mangiamo ancora maccarruna e pisce fritto. ‘Gnazzino racconta le sue difficoltà, parla di partire per il nord in cerca di un avvenire per i figli. No, Palermo non può essere l’Italia se non c’è lavoro. Mentre i grandi parlano, noi bambini riprendiamo a giocare.

Verso sera siamo nuovamente sulla nave. Prima di riprendere il mare, ci propongono un campo profughi in provincia di Bari. I rappresentanti della comunità consigliano di rifiutare. Il campo profughi è una ex caserma sperduta tra le campagne. Non ci sono mezzi per raggiungere il centro abitato molto distante, inoltre da quella città tutti scappano perché non c’è lavoro. Anche Bari, dunque, non è l’Italia. Si riparte per Napoli dove giungiamo la mattina seguente.

Al porto di Napoli alcuni pullman ci prelevano per portarci in una vecchia scuola. In un grande refettorio improvvisato ci servono da mangiare un piatto di pasta immangiabile e qualche fetta di mortadella col pane. Viaggiamo da due giorni senza possibilità di lavarci e riposare. Non sappiamo ancora in quale località del nord finirà questo viaggio. Dopo il pranzo, i pullman ci trasferiscono alla stazione di Napoli. Veniamo trasbordati su un vecchio treno con i sedili in legno messo a disposizione per noi. Per i locali siamo i connazionali africani. Si avvicinano venditori ambulanti di tutto, ci dicono “menu male che ghiate ‘o nord, cca’ nun’ è cosa, ‘a fatica non ce sta, primme o doppo ce ne jamme pure nuje…”. Anche Napoli non è l’Italia.

Cominciamo a capire che la nostra “Patria” è un posto dove tutti ancora scappano da qualche parte in cerca di lavoro, come avevano fatto cento anni prima i nostri nonni.  Qualcuno finalmente ci comunica che avendo scelto il campo profughi di Gargnano, la nostra destinazione sarà Brescia. Troveremo finalmente l’Italia?

estate 1959 , la famiglia con amici al campo profughi di Gargnano (l'autore in piedi sulla roccia con cappello di marinaio).

estate 1959, la famiglia con amici al campo profughi di Gargnano (l’autore in piedi sulla roccia con cappello di marinaio)

Il viaggio è lungo, riposiamo sulle panche di legno alla meno peggio. Papà, come fossi un bagaglio, mi sistema nell’ampio portabagagli sopra i sedili, dove mi addormento. La mamma non mi perde d’occhio. Dopo molte ore di treno, nel tardo pomeriggio, siamo a Brescia. Altri pullman vengono a prelevarci, ci portano a Gargnano, sul Lago di Garda, dove verremo sistemati in un campo profughi. Il pullman si inerpica in salite e discese lungo la strada che costeggia il lago. Il nastro d’asfalto è molto stretto, in alcune curve pare di precipitare di sotto. A Tunisi era tutto in piano, gli orizzonti sempre molto ampi. Questo nuovo paesaggio ci spaventa. Alcuni per sdrammatizzare fanno battute e ridono, mia zia Sabbettina in preda ad un attacco di panico prende a inveire contro il povero autista: “Dove ci state portando?! Basta! Ora siamo stanchi!”. L’autista cerca di calmare gli animi: “State calmi, tra poco arriviamo”.

A Gargnano i pullman rallentano, accostano sul bordo della Provinciale. Finalmente siamo arrivati. Alla nostra sinistra scorgiamo una vecchia costruzione con un ampio portone. Scendiamo. Ci viene indicato di entrare nel grande cortile. La luce è sempre più tenue ma ci rendiamo conto di essere finiti in una caserma dismessa. La caserma Magnolini sarà la nostra dimora provvisoria come “Centro Raccolta Connazionali della Tunisia”, “Campo Profughi” nella sostanza. All’epoca della Repubblica di Salò, era stata sede dei Battaglioni M, il corpo di guardie personali di Mussolini. In tempi più recenti ha accolto gli esuli istriani e poi gli alluvionati del Polesine. Ora tocca a noi. Un funzionario del Comune di Gargnano, direttore del Campo, ci spiega che ogni nucleo famigliare avrà uno spazio assegnato; potrà scegliere tra una baracca, vuota e fatiscente, o una porzione di camerata da dividere con altre famiglie. Noi scegliamo la baracca vuota e fatiscente. Come al solito la scelta della mamma è quella giusta. Una volta sistemata ci darà intimità e calore.

Siamo stanchi, vogliamo riposare, se possibile dormire, ma come? Le baracche e le camerate oltre ad essere vuote, sono fredde, umide. “Tutti gli uomini vengano con noi!” ordina il direttore del campo. In una palazzina sono ammucchiate cataste di reti arrugginite, montagne di materassi sporchi e puzzolenti: i giacigli da distribuire. In un’altra stanza sono stipate montagne di vecchie coperte militari. Gli uomini capiscono che non è il momento delle polemiche ma quello di far dormire le donne e i figli. Si rimboccano le maniche e alla luce fioca dei lampioni accesi inizia una processione di ombre che trasportano reti, materassi, coperte. Le donne puliscono come possono gli spazi assegnati. Un amico di famiglia, partito con la moglie e tre figli piccolissimi, ha gli abiti inzuppati e trema per il freddo. Filippo uno dei gemellini l’ha inondato di pipì mentre dormiva tra le sue braccia. Giuseppe, l’ultimo nato ha solo sei mesi. Da giorni ormai la sua culla è il grembo della mamma che sperava di trovare al “campo” un posto dove far riposare finalmente i bambini. A notte fatta non c’è ancora nulla da mangiare oltre ai panini che ci hanno dato a Napoli per affrontare il viaggio. È notte fonda quando stremati da tre giorni di viaggio e privazioni tentiamo di addormentarci sui vecchi maleodoranti materassi appoggiati sulle reti sfondate che i nostri papà hanno trasportato e montato.

Sul Campo ora regna un silenzio cupo, intristito dalla debole luce di qualche lampada che oscilla nel cortile. Sicuramente dormiamo solo noi bambini. Nelle camerate, nelle baracche, i grandi vorrebbero piangere ma sono troppo stanchi per farlo, sono stanchi anche per prendere sonno. Pensano a quello che abbiamo lasciato, si chiedono se la scelta di partire sia stata quella giusta. Abbiamo attraversato tutta l’Italia, siamo giunti quasi alla fine dello stivale, ma le uniche tracce di Patria sono quelle dei campi profughi di Tortona, Gargnano, Imperia, Arezzo, Gaeta, Frosinone, Napoli, Aversa, Bari, Altamura…

Dopo averci costretto cento anni prima ad emigrare in cerca di un lavoro, ora ci accoglie in baracche vuote, sporche, in camerate immense dove le famiglie, per cercare intimità, stendono coperte sulle corde tirate da una parete all’altra per delimitare un luogo, un posto che non c’è più, per sempre perduto. Eppure in questa patria i nostri padri devono inventarsi un nuovo futuro per le loro donne, per noi figli e per i genitori anziani che non hanno più futuro.

Da quella notte, gli abbracci tra parenti e amici che giorno dopo giorno lasciavano il campo profughi per destinazioni definitive, avrebbero segnato il compiersi di una diaspora dolorosa che spezzava per sempre famiglie, affetti, certezze, allegria. Questa è la cronaca del nostro primo impatto con l’Italia. Il modo in cui mio padre, mia madre, con la loro semplicità hanno affrontato pagine di Storia mai raccontate. Ne sono stati travolti, umiliati, feriti, calpestati. Ci sono passati dentro senza rendersene conto, provandone vergogna. Hanno avuto la forza, il coraggio di rialzarsi, ricostruire la loro vita per sempre divisa in due. 

Primi anni '50, spiaggia di Hammam Lif ,  La famiglia con nonna e zio

Primi anni ’50, spiaggia di Hammam Lif , La famiglia con nonna e zio

Memoria 

Dopo l’indipendenza, nell’arco di una decina di anni, si è compiuta la disgregazione di una comunità di oltre 100 mila italo-tunisini che in Tunisia avevano trovato condizioni di vita estremamente favorevoli. Le cause della diaspora, iniziata e conclusa tra la fine degli anni 50 e la fine dei 60 del ‘900, sono molteplici e complesse. Dopo un oblio di decenni, oggi la distanza storica permette una comprensione più lucida di queste vicende i cui protagonisti a volte sono stati chiamati “il popolo muto” o ancora “i nati morti”. Da qualche anno fioriscono studi, saggi, analisi, testimonianze, affiancati da opere di varia natura: narrativa, cinema, musica.

Non è intento di queste pagine l’analisi delle cause che hanno portato alla sua fine. Ampia è la possibilità di reperire informazioni su una bibliografia a riguardo. La rete, dal suo canto, ha dato un grande aiuto per constatare la vitalità di questa comunità che sembrava oramai morta e relegata alla sfera dei ricordi personali e di famiglia. Facebook accoglie diversi gruppi di “reduci”, e loro eredi di nuova generazione, che pubblicano ricordi e pensieri da Francia, Italia, Tunisia. I siti hanno i nomi più disparati: “La Tunisie d’antan”, “Italiani di Tunisia”, “Per chi ha genitori e nonni nati in Tunisia”, ecc. Il comune denominatore di questi gruppi è l’appartenenza a un mondo dove la convivenza tra etnie, culture, religioni e lingue diverse ha dato vita ad una figura sociale estremamente attuale. La loro “missione” oggi non è solo lo scambio di esperienze e ricordi, ma l’affermazione di una visione del mondo frutto di quanto vissuto.

Non è mia intenzione mitizzare quegli anni prescindendo dai conflitti causati dal colonialismo che relegava all’ultimo gradino della scala sociale i tunisini. Impossibile prescindere dai forti attriti che dilaniavano la politica tra Italia e Francia o Francia e Tunisia. Ma i rapporti tra le comunità di italiani (principalmente siciliani), tunisini, ebrei, maltesi, russi, spagnoli, greci, nella vita di tutti i giorni erano amichevoli, di rispetto e comprensione reciproca. Le identità erano chiare perché basate sul concetto di convivenza e non di integrazione. Numerosi sono gli esempi di empatia tra i vari gruppi sociali che partecipavano vicendevolmente dei riti e delle usanze dell’“altro”. Si viveva in equilibrio su un filo sottilissimo ma molto resistente. Quando si spezzò fu il baratro per tutti.

La diaspora ha generato perdita di identità, straniamento, nostalgia per un mondo perduto e mai più ritrovato. L’impoverimento umano non ha investito solo le comunità costrette a lasciare il Paese ma anche i tunisini che, se da una parte con sofferenza hanno raggiunto l’indipendenza agognata, dall’altra hanno perso un patrimonio ricchissimo di diversità culturali e linguistiche.

aprile 1959, l'ultima foto coi vicini di casa prima di partire (l'autore è l'ultimo a destra in braccio ad una vicina)

aprile 1959, l’ultima foto coi vicini di casa prima di partire (l’autore è l’ultimo a destra in braccio ad una vicina)

Nel febbraio 2022, con l’Istituto di Cultura Italiano di Tunisi, abbiamo presentato in anteprima a Tunisi, con grande successo, il docufilm di cui sono autore, prodotto da Alfonso Campisi Siciliani d’Africa – Tunisia terra Promessa. Il film racconta le vicende della comunità siciliana in Tunisia (i siciliani componevano oltre l’80% dell’emigrazione italiana), fino all’esproprio delle terre nel 1964. Sala stracolma ad ogni proiezione e grande interesse da parte di un pubblico composto da esponenti della vecchia e nuova comunità italiana ma soprattutto da giovani e meno giovani tunisini che poco o nulla sapevano di questa grande storia vissuta dal loro Paese. Intensi i dibattiti che hanno seguito le proiezioni con molte lacrime e nodi alla gola. Ebbene, da parte dei tunisini si è manifestato vivo interesse per un tempo in cui la Tunisia era crocevia di razze, culture, religioni. Senso di colpa per l’ingiustizia arrecata alla comunità italiana, fatta di lavoratori e piccoli agricoltori, che a differenza dei coloni francesi, non aveva nessun ruolo direttivo sul Paese.

Oggi mentre la cosiddetta globalizzazione livella e unisce tutto il mondo, riemerge con prepotenza la politica dei nazionalismi e dei muri a protezione dei confini. Spesso le scelte governative di Paesi che fomentano odio e divisioni divergono dalla volontà dei popoli che vorrebbero una vita di pace. Il contesto attuale è completamente cambiato ma le motivazioni esistenziali che muovono le persone a partire sono le stesse: migliorare la vita e affermare di esistere. Per conquistare questo diritto si rischia la vita. Pensiamo all’energia vitale che muove uomini e donne ad attraversare deserti, subire violenze e torture nelle carceri libiche, rischiare la vita in mare aperto su barche di fortuna….

Qualche tempo fa, in Tunisia, per la prima volta sono andato a visitare il paese dove era nato mio padre. La località si chiama Schiggui, distante una sessantina di chilometri da Tunisi, verso l’interno. Colline e vallate infinite. Era un giorno invernale. Il cielo plumbeo e il verde intenso dell’erba facevano da cornice alla chiesa cattolica in totale abbandono. Due o tre casolari dai tetti spioventi e le tegole rosse svelavano antiche presenze di italiani e francesi. L’immagine complessiva rimandava a un piovoso e freddo paesaggio irlandese. Pensai ai miei nonni e bisnonni…sbarcare su qualche spiaggia deserta…inoltrarsi in piena campagna selvatica, sconosciuta, senza nulla che non fosse la loro forza…e poi quelle case, quella chiesa, nate dalla loro fatica e volontà. 

Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023 

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Marcello Bivona, è nato a Tunisi nel novembre 1953. All’età di cinque anni lascia la Tunisia a causa delle vicende che costringono la comunità italiana al rimpatrio. Da allora vive nella provincia di Milano. Il tema dell’Identità e della memoria sono presenti in tutta la sua opera. Lo strappo lacerante della partenza, l’esperienza disorientante della nuova vita in Italia, sono la base dei suoi racconti che siano scritti o filmati. Ha lavorato per molti anni come bibliotecario e organizzatore di eventi culturali realizzando diverse opere tra cui: Clandestini nella città, lungometraggio, prod. C.O.E., 1992; Ritorno a Tunisi, docufilm lungometraggio, prod. C.O.E, 1998; L’Ultima Generazione, romanzo, edizioni BESA, 2019; Siciliani d’Africa – Tunisia TerraPromessa, docufilm lungometraggio, prod. A. Campisi, 2022.

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