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Sistema capitalistico e diritti umani. Il Femminismo Intersezionale tra storie di risignificazione e pluralismo

n_donne_international_0di Mariangela Vitrano 

«The nations of the earth will never be well governed until both sexes, as well as each category, are fully represented and have an influence, a voice and a role in the implementation and administration of laws” – “Le nazioni della Terra non saranno mai ben governate finché entrambi i sessi, così come ogni categoria, non saranno pienamente rappresentati e non avranno un’influenza, una voce e un ruolo nell’attuazione e nell’amministrazione delle leggi» – pamphlet anonimo, Gran Bretagna 1847 .[1] 

Anne Knight, probabile autrice del pamphlet, impegnata nell’attivismo antischiavista degli anni venti dell’Ottocento, fu anche riformista, abolizionista inglese e una delle pioniere del movimento femminista. Nel 1825 la Knight partecipò al viaggio che la Ladies’ Anti-Slavery Society di Chemsfold aveva organizzato toccando diversi Paesi del territorio europeo, e così ebbe l’opportunità di conoscere le più importanti sfere abolizioniste continentali. Inoltre, nel 1840 prese parte alla convenzione antischiavitù, dove fu evidente la necessità di migliorare i diritti delle donne e, circa sette anni dopo, produsse quello che si pensa sia il primo volantino per il suffragio femminile, formando anche la prima organizzazione britannica di suffragio femminile a Sheffield nel 1851. Ciò che ci appare chiaro già da queste importanti rivendicazioni è il mancato riconoscimento davanti alla legge delle donne, e non solo, come individui meritevoli di libertà, diritti e opportunità pari agli uomini.

Anne Knight

Anne Knight

Il meccanismo e la struttura tradizionali dei diritti umani, anche se fondamentali, sono spesso stati insufficienti nell’affrontare le molteplici forme di oppressione sperimentate dai diversi gruppi marginalizzati. Il fulcro di questa falla risiede nel fatto che il sistema dei diritti umani ha assunto nel tempo un modello universale, non tenendo conto dei modi in cui fattori quali etnia, genere, classe sociale, sessualità, abilità, contesti e molte altre assi identitarie siano state incisive nella produzione di esperienze uniche, soggettive e non universali di discriminazione. Il femminismo intersezionale cerca di spostare il focus esattamente su questo punto, evidenziando come molteplici forme di discriminazione possano contemporaneamente intrecciarsi, mischiarsi fino a esitare in sfumature indefinite e particolari.

Le forme di marginalizzazione non dovrebbero più essere percepite come agenti singolarmente sulla vita di un individuo e risultanti in una discriminazione provocata da un singolo fattore marginalizzante, ma come molteplici forme agenti contemporaneamente e risultanti in forme di discriminazione singolari e uniche, variabili da individuo a individuo. Lo scopo della mia ricerca sarebbe quello di rivalutare e promuovere il femminismo intersezionale come mezzo per la protezione e per la re-interpretazione dei diritti umani, di modo che possa essere efficace nel rivolgersi alle diverse categorie, purtroppo ancora manchevoli, di diritti e riconoscimenti. Per fare ciò, prenderò in considerazione anche l’ingombrante spettro socioeconomico del sistema capitalistico che ha contribuito a disegnare un sistema dei diritti umani non prettamente equo. Mi piacerebbe proporre, nell’affrontare la tematica, un approccio multidisciplinare che adotti una lente umanistico-antropologica ma che accolga anche altri ambiti disciplinari quali la storia, le scienze politiche, la sociologia, la filosofia, in modo da estendere e trattare su più livelli la questione e offrirne un orizzonte più ampio possibile.

Sarebbe importante, inoltre, soffermarsi su quanto il sistema capitalistico possa essere effettivamente sostenibile e quanto compatibile con lo sviluppo, il supporto e la protezione dei diritti umani e su quali siano i suoi effetti in ambito pratico-sociale, politico, ambientale e via dicendo. La comprensione del capitalismo e delle sue peculiari caratteristiche è fondamentale per acquisire una competenza analitica che ci permetta di individuare le relazioni patriarcali e gerarchiche di cui lo stesso sistema è permeato e radicalmente intessuto sin dagli esordi. Tutti questi punti verranno sviluppati attraverso un approccio critico-letterario femminista che rappresenterà il filo conduttore della presente ricerca che ha, appunto, come obiettivo quello di esplorare la capacità del femminismo intersezionale di ricostruire il discorso sui diritti umani e garantirne l’effettiva protezione.

L’obiettivo, quindi, è presentare il femminismo intersezionale non solo come mera critica al sistema tradizionale dei diritti umani, ma soprattutto come approccio trasformativo atto ad una migliore gestione della complessità che caratterizza il movimento tra oppressione e privilegio attraverso le differenti assi identitarie. Prima di inoltrarmi nel cuore della questione, ritengo opportuno sottolineare che il mio lavoro cercherà di tenere in considerazione la limitatezza delle prospettive; tutte le prospettive sono finite, parziali, incomplete, limitate e, così, anche gli eventuali risultati potrebbero essere plausibilmente tali. Ciò che rende estremamente importante e cruciale un lavoro di ricerca è proprio la naturale propensione ad allestire il tavolo del dibattito con tutta questa incompletezza, per poterla mettere in discussione e per creare un dialogo che possa essere autentico, costruttivo, rigoglioso e multidisciplinare. 

stampa, 23 novembre 1911

stampa, 23 novembre 1911

La storia dei Femminismi

Nel 1886, durante la massiccia espansione coloniale, le maggiori potenze europee stavano rapidamente conquistando i territori asiatici e africani dando in questo modo vita a un assetto mondiale violento e profondamente gerarchico in cui le diversità culturali, e anche quelle di genere, divennero sempre più rigide e meno flessibili e, per questo motivo, l’avvenimento storico fu ed è ampiamente criticato da attivisti radicali, nazionalisti e anti-colonialisti. Dal colonialismo in poi, il mondo assisterà comunque via via all’accesso da parte delle donne all’educazione, al lavoro retribuito, all’uso della bicicletta, della macchina e dei mezzi pubblici e privati per spostarsi. L’analisi da un punto di vista storico ci permette di acquisire una più ampia comprensione della profonda trasformazione dei modi attraverso cui le donne hanno percepito se stesse e hanno vissuto l’esperienza del proprio corpo e l’esistenza del proprio spirito, nelle loro accezioni fisiche e spirituali.

Certo è che il femminismo è storicamente e culturalmente orientato; infatti, fin dal diciottesimo secolo (o antecedenti) le stesse rivendicazioni sono state formulate in maniera diversa nel tempo perché hanno seguito l’evoluzione sociale e i cambiamenti culturali annessi, così come è avvenuto per la definizione del movimento stesso. Ciò che caratterizza il femminismo come corrente filosofica è certamente la sua pluralità; non esiste una singola versione del fenomeno, come si è pensato fino ad un certo punto della storia in cui il femminismo era prettamente bianco, occidentale e borghese, ma una pluralità di esso.

Il femminismo della prima ondata aveva come obiettivo il raggiungimento della parità in termini di diritti civili, esattamente per contrastare il sistema sociale, visceralmente patriarcale, che vede le donne ancora come oggetti di proprietà, appartenenti a qualcuno (quasi sempre un uomo) e che necessitano di protezione (sempre da parte di un uomo), e per questo con nessuna possibilità di emancipazione quali individui. Una delle principali conquiste relative alla prima ondata fu il diritto di voto e alcuni diritti all’auto-determinazione, quali il diritto di aborto, l’istituzione del divorzio ecc. I diritti socioeconomici non erano ancora stati oggetto di attenzione, perché le femministe dell’epoca non sentivano la necessità di essere liberate da un sistema economico capitalistico, anch’esso estremamente gerarchizzato e patriarcale, piuttosto sentivano la necessità di comparteciparvi insieme agli uomini per poter beneficiare dei privilegi annessi al sistema. Focalizzandosi sulla decostruzione di queste radicate e disfunzionali dinamiche di potere, il femminismo intersezionale si può considerare una delle ultime ondate femministe che cerca di rivolgersi nel miglior modo possibile a tutti i gruppi marginalizzati dando loro voce e visibilità. È un approccio al femminismo che riconosce che le diverse forme di oppressione – quali razzismo, sessismo, classismo, abilismo, omofobia e via dicendo – non vadano considerate quali singole entità ma come entità in relazione, capaci di intersecarsi (da qui, intersezionale) per dare vita a esperienze di discriminazione che siano composte, multiple, contemporanee, sfumate: in una parola, uniche e soggettive. Il femminismo intersezionale è una lotta femminista che accoglie in sé, in modo consapevole e attento alla complessità e alla particolarità delle esperienze individuali, le lotte di tutte le voci rimaste inascoltate nel tempo.

Il Femminismo, in questo senso, è intessuto di legami e intrecci capaci di muoversi di luogo in luogo e soprattutto di confine in confine; è fatto di rifugiati e diaspore così come di relazioni tra etnie e culture diverse, miste, sfumate, non identificabili in una singola stazionaria identità. È per questo motivo che tutte le storie femministe sono da considerare parziali, frammentate, limitate e possono parlarci di inclusione, di accoglienza ma anche di esclusione. Il movimento femminista viene solo convenzionalmente suddiviso in ondate, si tratta di una suddivisione funzionale per chi studia a tracciare una linea temporale ed orientarcisi, che non rispecchia infatti la realtà fluida, evolutiva e cangiante del movimento.

Storicamente, perciò, può essere tracciata l’esistenza di un proto-femminismo, quindi gli albori di ciò che poi nel periodo illuminista tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800 quando furono pubblicate le prime opere significative e si diede vita alle prime manifestazioni sempre più dichiaratamente femministe, sarebbe diventato un movimento e una corrente socio-politica e filosofica. Gli studiosi solitamente introducono il femminismo con l’avvento della rivoluzione francese, che storicamente rappresentò un punto di svolta perché segnò la fine dell’assolutismo con il conseguente riconoscimento della figura e del potere del cittadino, e quindi dello stato non più di sudditanza ma di cittadinanza, che prevedeva il riconoscimento di un individuo (il cittadino, appunto) con diritti civili e politici che gli spettavano per natura, in quanto individuo (vedremo poi appartenente a quali categorie). Gli intellettuali illuministi rifletterono e scrissero molto su queste nuove dinamiche civili e politiche e sulle questioni a esse connesse. In quel momento, la prima spontanea questione sollevata dalle femministe riguardò le motivazioni per cui una donna non dovesse rientrare nel nuovo sistema sociale e nel riconoscimento dell’individualità del cittadino e del conferimento ad esso di diritti importanti nell’esercizio dell’auto-determinazione.

Mary Wollstonecraft

Mary Wollstonecraft

La maggior parte delle prime lotte femministe furono infatti incentrate sul raggiungimento dell’uguaglianza legislativa, si trattò più di una modalità assimilazionista lontana dalla valorizzazione delle diversità. Alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 seguì due anni dopo una corrispettiva dichiarazione, questa volta inclusiva del genere femminile, titolata in chiave provocatoria Dichiarazione dei diritti della Donna e della Cittadina redatta da Olympe De Gouges, considerata per questa ragione una delle madri fondatrici del femminismo. Nello stesso periodo Mary Wollstonecraft, che fu una donna autonoma e assolutamente indipendente per i suoi tempi, scrisse Rivendicazione dei diritti della Donna. Wollstonecraft fu una lavoratrice formata e intelligente: i principali diritti che rivendicava per tutte le donne erano il diritto all’educazione e all’indipendenza. «L’intera umanità dovrebbe essere educata secondo uno stesso standard», altrimenti le donne non avrebbero potuto dare il proprio contributo alla politica e alla società come facevano gli uomini, semplicemente per il fatto che venivano sistematicamente escluse dal sistema educativo e per loro risultava impossibile costruire gli strumenti per esprimere la loro opinione. Mary Wollstonecraft considerava questo come un enorme limite al rispetto dei diritti umani.

Alla prima ondata succede, appunto, la seconda caratterizzata dai movimenti socialisti e marxisti che durò circa fino agli venti e trenta del Novecento, momento in cui i suddetti movimenti ebbero maggior risonanza in tutto il territorio europeo. Gli obiettivi sui quali si proponevano di lavorare le femministe della seconda ondata furono infatti l’emancipazione e l’indipendenza economica; questo si configura come un femminismo molto materialista e pragmatico, particolarmente interessato a questioni pratiche e quotidiane che sono effettivamente quelle in cui le donne esperiscono maggiormente atteggiamenti discriminatori nei loro confronti. Da qui la necessità di puntare ad un obiettivo pragmatico quale l’auto-determinazione lavorativa ed economica. Di contro, assistiamo ad una percezione ancora binaria della storia in cui l’umanità viene ancora suddivisa in macro-categorie: oppressori e oppressi, sfruttatori e sfruttati. Anche la dicotomia uomo/donna si adatta perfettamente alle dinamiche patriarcali del sistema capitalistico.

Le spinte propositive e determinate del femminismo della seconda ondata furono pacate dall’illusoria convinzione che l’emancipazione femminile sarebbe stata conseguenza naturale dell’avvento della rivoluzione socialista con la relativa distruzione del capitalismo e il superamento della proprietà privata. Questa corrente femminista, anche se strettamente correlata al socialismo, mosse delle considerevoli critiche a Marx e al marxismo considerandolo ancora troppo ancorato a retaggi di tipo patriarcale destinato a  generare un sistema discriminatorio nei confronti del genere femminile e a includere, di conseguenza, prevalentemente uomini soprattutto nelle posizioni di spicco. Tra il 1960 e il 1980 ci fu un ritorno dell’ondata femminista socialista, anche se con nuovi pensieri e rinnovate teorie filosofiche. Il focus venne ampiamente spostato su tematiche importanti come il lavoro di cura e il lavoro riproduttivo, con le relative rivendicazioni per il riconoscimento di un adeguato salario alle figure, prevalentemente donne, che gestiscono il lavoro di cura in casa garantendo a tutti i membri della famiglia il supporto alle loro attività sociali e lavorative, che a sua volta influiscono nella partecipazione e, quindi, nella produttività della struttura sociale nella sua interezza.

Passando all’analisi del femminismo liberale, che è complesso e strutturato, possiamo dire che insiste su una concezione di liberazione della donna in quanto entità singola, più che su un concetto di liberazione collettiva. Diversamente dalla precedente, la corrente liberale non vuole sovvertire il sistema attraverso una rivoluzione radicale ma vuole prendere parte al sistema già esistente, mira quindi alla partecipazione ad esso. Il fulcro fu l’emancipazione comparata a quella maschile con un approccio partecipazionista e assimilazionista, invece che sulla totale liberazione delle donne dal sistema patriarcale nella sua interezza. In poche parole, le femministe liberali rivendicarono pari opportunità in ambito sociale e nell’ottenimento del successo economico, ma soprattutto la libertà di partecipazione al potere generato dallo stesso patriarcato. Non fu esattamente ciò che oggi definiremmo empowerment femminile, poiché non fu spinto da intenzioni dichiaratamente sovversive del sistema ma dal viscerale desiderio di partecipazione ad esso.

Fu questa tendenza ad essere aspramente criticata anche tra le più moderne fila femministe, perché aldilà del self-empowerment individuale non venne considerata la più ampia dimensione del contesto che risulta estremamente importante dato che non tutte le donne vivono lo stesso contesto sociale, politico, personale, lavorativo e, conseguentemente, non godono delle stesse opportunità, anche, banalmente, nelle loro possibilità di fare attivismo. E più tardi, oltre a una maggiore attenzione al contesto e al particolare, ci si chiese: quanto è funzionale la partecipazione a un sistema non etico come quello capitalistico, marcio e gerarchico alle radici?! Non dovrebbe prevalere invece la necessità di revisionare il sistema stesso, se non di capovolgerlo, o quantomeno di revisionare il concetto di potere in esso radicato? Nel fare ciò rimane comunque importante tenere presente che ogni donna non possiede le stesse condizioni di partenza e non nutre le stesse aspirazioni, perché in ambito femminista non esiste una teoria o una realtà che sia valutabile come universale.

cinziaIn Femminsmo per il 99%. Un manifesto, libro pubblicato nel 2019 e scritto da tre autrici – Cinzia Arruzza, Nancy Fraser e Tithi Bhattacharya – il Femminismo viene descritto come ad un bivio in cui da una parte si trova il movimento liberale identificato come «’femminismo dell’1%’’ proiettato al raggiungimento della leadership e delle posizioni di comando, dall’altra si trova il femminismo anti-capitalista e anti-neoliberista definito invece come ‘’femminismo per il 99%’’ che considera la libertà e l’eguaglianza come premesse, non aspirazioni, della lotta femminista e che lavora sul cambiamento radicale dell’attuale sistema di produzione e riproduzione. Sarebbe necessario sottolineare che, comunque, aldilà di queste classificazioni il femminismo rimane dialogico e ricco di punti di contatto e incontro, e anche se alcune questioni possono risultare molto divisive, e, naturalmente, creare contrasti, le diverse correnti di pensiero non sono mai totalmente disconnesse tra loro; al contrario si muovono attraverso evoluzioni e ramificazioni esattamente come qualsiasi altro fenomeno.

Nel 1960 nacque il femminismo radicale; il termine ‘radicale’, come afferma l’Oxford Dictionary, si riferisce a ‘alla radice, cioè all’intima essenza di qualcosa’, che nella sfera femminista rimanda alla riflessione su cosa possa esserci alla radice dell’oppressione femminile. A tale proposito, le femministe radicali individuarono esplicitamente l’origine di questa oppressione nella differenza sessuale, nell’idea di una basilare incompatibilità tra l’uomo e la donna; quindi la relazione tra i generi venne percepita come sostanzialmente incompatibile, quasi impossibile. Simone De Beauvoir nella sua opera Il secondo sesso spiega molto bene il concetto per cui l’uomo è sempre il soggetto e la donna è il resto, ovvero ciò che viene sempre definito in relazione al soggetto e mai come entità singola e indipendente da esso. Le riflessioni del femminismo radicale si focalizzano, appunto, sul sesso, sulla libertà sessuale e sulla maternità; quest’ultima inizialmente pensata come ostacolo al processo di liberazione femminile, mentre più tardi la questione sarà sviscerata in termini ampiamente più positivi.

9780745316635Nella storia ci sono stati esempi di femminismo radicale trans-escludente, in virtù del fatto che venivano riconosciute come donne solo coloro che lo erano biologicamente. Il movimento radicale raggiunse il suo apice durante i moti sessantottini, in cui raggiunse dei toni sempre più rigidi e centrati sulla differenza, costruita socialmente e culturalmente, da proteggere e valorizzare attraverso nuovi strumenti e metodi anche all’interno dello stesso movimento femminista. Le proteste si estesero a molti altri ambiti e finalmente vennero anche affrontati argomenti quali la libertà riproduttiva e sessuale, la questione sulla maternità che venne approfondita e meglio esplorata. Tra le prime ad introdurre la terza ondata troviamo teoriche del femminismo radicale, come l’attivista americana Andrea Dworkin. Gloria Jean Watkins, femminista e studiosa afroamericana, meglio conosciuta come bell hooks, fa della propria ricerca pionieristica la necessità di rifondare un femminismo nuovo, capace di riconoscere i vari livelli di oppressione di cui gruppi di donne diverse sono state e sono ancora vittime, affrontando di petto una delle questioni centrali del femminismo intersezionale ovvero il rapporto problematico tra la lotta per la liberazione delle donne nere e il movimento femminista.

Assistiamo anche alla nascita di altri importanti movimenti femministi che mettono in evidenza l’intersezione di diverse discriminazioni, quali il femminismo post-coloniale e il femminismo lesbico. Sostanzialmente il Femminismo iniziò ad estendere il potente strumento attivista a molte altre voci fino ad allora rimaste inascoltate; è così che il movimento cominciò a diventare intersezionale cioè ad accogliere in sé più di una sola lotta, sostenendo i diritti di tutte le categorie marginalizzate e fino a quel momento sistematicamente escluse dal movimento principale. In questo senso fu mossa una dura critica soprattutto al femminismo liberale e radicale, che aveva l’obiettivo di denunciare il razzismo implicito e interiorizzato della maggior parte dei movimenti di liberazione femminile che erano, inoltre, per la maggior parte bianchi. Furono introdotte quindi alla discriminazione di genere anche i primi fattori intersezionali di razza e classe, prevalentemente ignorati dal femminismo degli albori. Ci vollero due decadi di lavoro di critica da parte di femministe nere e indigene per arrivare nel 1989 a una concettualizzazione formale del Femminismo Intersezionale, che prese piede definitivamente e caratterizzò la cosiddetta quarta ondata femminista.

Il termine intersezionalità appare per la prima volta nella saggistica di Kimberlè Crenshaw, giurista americana che si occupa di casi che coinvolgono prevalentemente donne nere e che, grazie al suo lavoro, pose in evidenza il fatto che sessismo, razzismo e classismo potevano essere subite da un soggetto in maniera del tutto contemporanea. Possiamo definire l’intersezionalità come l’unione delle lotte di tutte le minoranze, che a sua volta identificarono una strategia comune per la rivendicazione del riconoscimento delle loro identità negate e, quindi, dei loro stessi diritti civili e politici. Con questo non si sottintende che le oppressioni siano sempre uguali, al contrario sono diverse e possono verificarsi contemporaneamente, quindi coesistono, e sono tutte egualmente meritevoli di attenzione. Le interazioni tra forme di discriminazione, che implicano effettivamente stratificazioni multiple di marginalizzazione sociale, richiedono una risposta politica altrettanto stratificata e complessa, plurale, differenziata e, ancora meglio, intersezionale. L’intersezionalità è capace di occuparsi di più di una sfera riguardante anche un solo caso specifico ovvero un solo soggetto discriminato.

Il Femminismo attuale si impegna esattamente nel cercare di non ricreare ulteriori categorie marginalizzate; trans-femminismo, studi sulla disabilità, gender e LGBT+ studies, anti-specismo, cyber-femminismo confermano l’intenzione di creare e promuovere un sistema sempre più inclusivo. Non tutti gli studiosi sono d’accordo sull’esistenza di una vera e propria quarta ondata distinta dalla terza, perché una può essere considerata in naturale continuità con l’altra, con l’unica differenza che quest’ultima sfrutta mezzi di comunicazione di massa, quali internet e i social media, per fare attivismo e per la diffusione e la circolazione di idee.

In conclusione, queste sono le ragioni per cui è bene considerare il femminismo nella sua pluralità; esistono molti femminismi e qualsiasi semplificazione di questi ultimi sarebbe incompleta e scorretta considerando il riconoscimento delle profonde differenze ideologiche presenti all’interno del movimento e la normalizzazione del fatto che persone diverse e donne diverse hanno esigenze diverse e semplicemente rivendicano libertà e diritti diversi. Sarebbe funzionale infatti che ogni ramificazione del femminismo che aspiri a un cambiamento sociale possa avere obiettivi, strategie, mezzi di significazione che siano adattabili alle diversità delle esigenze esistenti, a rimarcare il fatto che non può esistere una soluzione definitiva e universale adatta a tutti gli esseri umani. Il Femminismo è stato, è e sarà una realtà sempre politicamente rilevante e in costante evoluzione: «fare femminismo non è un punto d’arrivo, bensì un viaggio» (Delap: 2023: 253). Conseguentemente, la possibilità di definirsi come femminista, donna o sorella è sempre transitoria e mutevole ma è anche vero, come l’attivista italiana Irene Facheris afferma in uno degli episodi del suo podcast, che «Dare un nome alle cose, permette alle cose di esistere».

Nella storia la letteratura femminista ha offerto molti spunti di riflessione riguardo tematiche importanti quali la relazione tra uguaglianza e differenza, tra sfera pubblica e privata, includendo anche la condizione dei lavoratori e il lavoro di cura, la rappresentazione dei corpi femminili e la disciplina esercitata su di essi; tutte sfere che sperimentano una persistente condizione di disuguaglianza che necessita di un continuo e attento lavoro politico abbastanza saldo sui diritti umani. 

1Attivismo e linguaggio: strumenti per un cambiamento globale

Alla fine del diciannovesimo secolo, la strategia della quiete fu parte della diffusa credenza che il nuovo secolo sarebbe stato naturalmente caratterizzato da diritti e uguaglianza per le donne senza la necessità di scontri o conflitti. Quando fu evidente che la garanzia di riforme a favore delle donne sarebbe stata penosamente lenta, se non inesistente, acquisirono valore le strategie per la messa in pratica di cambiamenti sulla lunghezza d’onda della visione femminista. La soluzione non fu attendere che il cambiamento avvenisse, ma far sì che avvenisse anche attraverso un’ampia varietà di azioni femministe: dalla genialità delle campagne per il suffragio, volte ad ottenere massima visibilità, fino al sacrificio personale. In generale, per la conduzione della lotta fu condiviso il rifiuto di azioni armate che potessero ledere vite umane, così come l’attenzione e la cura per se stessi e gli altri e, sicuramente, la speranza di cambiare le cose. I concetti di militanza e violenza furono ripensati politicamente, e gli scioperi sindacali divennero dei potenti strumenti nelle mani dei lavoratori.

Nel ventunesimo secolo, il fulcro dell’attivismo femminista si è spostato maggiormente sull’autonomia riproduttiva e sulla riappropriazione dei corpi; uno dei più famosi esempi è stato il cosiddetto ultra-femminismo o neo-femminismo ucraino. L’attivismo femminista è stato creativo e ispirazionale, tant’è che acquisì forme molto differenti dando vita ad alleanze e solidarietà, ispirando una sensibilizzazione al cambiamento attraverso campagne di consapevolezza, proteste, boicottaggi per la rivendicazione di diritti che nel tempo contribuirono a generare speranza e resilienza nell’arduo cammino verso il raggiungimento di una giustizia equa. Come detto precedentemente, la suddivisione del femminismo in ondate fu uno strumento utile per l’orientamento temporale, ma che non coglie la complessità del pensiero femminista e neanche le reali sfumature dell’esperienza femminista fatta di attivismo, rivendicazione di diritti, proteste a colpi di sasso, ma anche estremismi sul potere e la solidarietà femminile.

Il Femminismo ha acquisito tantissimi significati senza la pretesa di rimanere identico per ogni donna nei diversi luoghi e tempi in cui è stato sperimentato. Per i primi tempi, il cosiddetto femminismo bianco o imperialista rappresentò un movimento di emancipazione femminile prettamente occidentale, ricco, bianco, borghese, abile ed etero-normativo, che si prefiggeva di portare avanti obiettivi femministi ma con metodi che non prendevano minimamente in considerazione l’opinione delle donne di cui si occupavano. Fu una fase di natura esclusivista, tendente a oscurare ogni possibile frammentarietà del movimento per poter apparire come un fronte compatto e fortemente unito. Per questo motivo i bisogni delle persone dettati dalla propria cultura, dal proprio modo di vivere, dalle proprie origini, dai propri obiettivi non sono stati sempre ascoltati e accolti come meritavano.

Le principali conquiste storiche del femminismo furono, sicuramente, il diritto di voto, la partecipazione alla vita politica e l’accesso all’educazione (anche alla formazione medico-scientifica) diversamente dagli anni novanta, anni in cui il potere politico, il successo economico e l’eredità culturale furono finalmente a disposizione delle donne. La certezza che il femminismo non ha esaurito i suoi compiti arriva esattamente nell’ultimo ventennio, caratterizzato da profonde crisi economiche, guerre, politiche crudeli e autoritarie. Il termine nacque alla fine dell’Ottocento e fu oggetto di numerose dispute, ci volle tempo prima che acquisisse un significato più chiaro e netto. La scrittrice inglese, Rebecca West – che nel 1911 aveva vent’anni – scrisse, sotto pseudonimo per paura di umiliare la sua famiglia, per il periodico inglese The Freewoman per cui lavorava che femminista era l’appellativo che le riservavano «ogni qualvolta esprimesse sentimenti che la differenziavano da uno zerbino». Le idee su parità di genere e giustizia sociale, sulle prospettive per una vita diversa, iniziarono ad influenzare anche l’universo maschile che, qualche volta, contribuì attraverso un impegno personale al raggiungimento di obiettivi femministi nella ferma convinzione che fossero obiettivi volti al beneficio di tutta la comunità.

Le evoluzioni del significato del termine femminismo iniziarono a seguire una strada più fluida e aperta a entrambi i sessi e questa sarebbe un’ulteriore prova che non esiste una mappa definita, né nell’ambito dei diritti umani o della geografia culturale per esempio, di un target esclusivo a cui il femminismo punterebbe; invece risulta di estrema importanza, nel tentativo di non cancellarle, il prendersi cura di ogni specificità locale o culturale che ancora costituisce lotte e forme di attivismo da non considerare come isolate ma realtà che condividono idee essenziali e traggono ispirazione reciproca in un continuo legame e in una continua interazione. L‘attivismo femminista è fluido, interconnesso, unito nella volontà di scoprire e decostruire la complessa e ben radicata relazione tra genere e potere.

9788858144145Il cambiamento è sostenuto anche dal linguaggio, visceralmente collegato alla cultura, dal momento che il patriarcato è racchiuso anche nella struttura linguistica, e passa attraverso essa. L’interesse verso la dimensione psicologica del linguaggio e per una rivoluzione di quest’ultimo sono progetti di enorme rilevanza per i movimenti di liberazione femminile, soprattutto se correlato con l’analisi del ruolo mediatico fortemente intriso di maschilismo e, peraltro, con una forte influenza sulla semiotica e sui sistemi di significazione. Così il termine Androcentrismo è un termine alternativo per definire quelle società organizzate attorno a una gerarchia di genere che mette gli uomini in posizione di potere e privilegio, in una sorta di struttura economica sessista che genera delle serie conseguenze ai danni dei diritti di genere, nello specifico, e umani, in generale. Non si tratta sicuramente di un sistema di cooperazione. In giapponese, per esempio, la parola Nannü si riferisce al legame tra la distinzione tra i generi e il modo in cui il corpo, il lavoro e il potere sono organizzati relativamente alle sfere economiche e culturali.

Al termine femminismo fu universalmente riconosciuto un significato univoco, o quantomeno prevalente, solo all’inizio del ventesimo secolo e da quel momento in poi, soprattutto in America Latina (Argentina, Chile ecc.), iniziarono a nascere centri associativi, redazioni giornalistiche a stampo dichiaratamente femminista. Nel 1905 fu organizzato il primo Congresso Internazionale delle Donne, mentre le campagne di Paesi come Ungheria e Filippine si focalizzarono prevalentemente sul miglioramento degli standard e delle condizioni lavorative che le donne si ritrovavano a vivere, sulla sicurezza e sull‘equità; tutti obiettivi atti a costruire strumenti per dare alle donne l‘opportunità di giocare un ruolo attivo e significativo nella società. Nel 1911 in Europa, più precisamente in Gran Bretagna, il primo giornale a dichiararsi apertamente femminista fu il Freewoman, che intese come femminismo tutto ciò che includesse sia il genere maschile che quello femminile avendo come comune denominatore un cambiamento rivoluzionario che rifiutasse apertamente le convenzionali istituzioni politiche e, quindi allo stesso modo, il movimento suffragista, principale rappresentante politico e istituzionale delle rivendicazioni femministe dell’epoca.

Furono esattamente la stampa e la comunicazione inglese le prime a condannare le campagne di attivismo, ma gli ambienti femministi non fecero altro che appropriarsi di appellativi offensivi e umilianti attraverso cui furono insultati. Sostanzialmente si trattava di una sorta di appropriazione creativa e sovversiva dell’epiteto utilizzato dall’opinione pubblica per sminuirle: ciò che avrebbe dovuto togliere potere e importanza al contrario glieli conferisce, è così che avvenne con il termine “suffragette” o con l’appellativo di ‘streghe’ o ‘puttane’. In Francia risiedette lo spirito pioneristico del movimento, in Germania il femminismo venne invece inteso come lotta per l’amore libero, mentre l’attivismo suffragista britannico fu considerato diverso rispetto al movimento delle donne. Non senza sospetto, l’interesse per questo nuovo concetto cominciò a diffondersi nel mondo e, di riflesso, alcune realtà femministe hanno spesso sentito il bisogno di prendere le distanze dal movimento attivista politico-liberale che rivendicava e lottava per il formale riconoscimento di determinati diritti civili e politici. Per questo motivo, alcune realtà preferirono definire, linguisticamente e concettualmente, se stesse come movimenti di liberazione femminile specificatamente a-politici e a-partitici. Le femministe francesi ripudiarono addirittura il termine perché credevano presupponesse un’idea di conflitto e quindi preferirono identificarsi come ‘donne in lotta’.

Con il tempo e una maggiore consapevolezza divenne più chiaro il fatto che ogni rivendicazione, per essere riconosciuta legalmente e politicamente come un diritto, deve necessariamente passare attraverso l’ambito politico-legale appunto. In breve, si capì che provare a racchiudere il senso del femminismo in un unico termine che contenesse tutte le possibili sfumature del movimento era un obiettivo irrealistico. L’ingenua illusione di muoversi tutti insieme in un unico blocco e verso una stessa direzione aveva tolto voce ai margini, creando un movimento mainstream che spesso finiva per praticare esclusione nel nome dell’inclusione. In questo senso anche il femminismo ha avuto e ha i suoi limiti, soprattutto nei primi tempi in cui cadeva spesso nel terreno fertile della marginalizzazione; tempi in cui si credeva che dare voce a più di una rivendicazione o spazio a più di un’esigenza togliesse importanza ed efficacia a quelle considerate essenziali e portate avanti da e per certe categorie di donne e di persone.

nacw2-1All’inizio del Novecento prese piede un nuovo modo di fare attivismo e di rappresentare le donne; la nascita del femminismo nero fu costellata dall’emergere di associazioni importantissime, quali la National Association of Colored Women fondata da Frances Watkins Harper che si occupò di discriminazione razziale e di genere. Seguendo lo stesso schema nacquero una serie di femminismi ognuno focalizzato su una sempre più specifica discriminazione. Da qui i pluralismi del movimento, in cui a poco a poco vennero considerati (e si considerarono, soprattutto) parte integrante anche gli uomini perché il femminismo non è solo per le donne, e non è solo un movimento plurale ma anche globale; è un dialogo, un flusso, assolutamente non un dogma eurocentrico con una missione civilizzatrice. Di certo, alla fine del diciottesimo secolo, vi furono delle donne che presero parte alle rivoluzioni americana e francese come le suddette Mary Wollstonecraft, Olympe De Gouges, Abigail Adams che furono le promotrici di idee e dibattiti dichiaratamente femministi in grado di influenzare l’intero secolo successivo con le campagne in favore dell’educazione femminile, del diritto di proprietà e di voto. Il punto è che il loro punto di vista e i loro bisogni in quanto donne bianche, educate, ricche, privilegiate non sarebbero mai stati uguali a quelli, per esempio, di Phillis Wheatley  che fu un ex-schiava e poetessa.

La storia del femminismo fu costruita intorno a un ristretto gruppo di madri fondatrici, la maggior parte cittadine bianche di Paesi storicamente e culturalmente imperialisti, come Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, ma il femminismo non inizia solo con loro per quanto il loro contributo sia stato fondante e fondamentale. Esistono degli episodi storici che vedono un background femminista a partire dalla fine del diciassettesimo secolo in territori non europei e non americani; per esempio, nel 1792 in Sierra Leone fu riconosciuto il diritto di voto alle proprietarie terriere, poi revocato nel 1808 quando il Paese divenne una colonia inglese; nel 1893, la Nuova Zelanda concesse il voto alle donne indigene residenti in territori colonizzati. Questi sono solo due tra i casi che mettono in discussione il primato occidentale nella pratica femminista (che poi i femminismi europei reclamavano per se stessi, gli stessi diritti che negavano alle popolazioni indigene). Le influenze e le interconnessioni globali si basano sulla migrazione di persone e, con loro, delle tradizioni, di idee che riescono ad attraversare i confini. La circolazione di quotidiani, giornali, di teorie attraverso federazioni, associazioni e conferenze ha sempre giocato un ruolo chiave nella divulgazione di informazioni e nella creazione di reti e mobilità che ispirarono anche la prima World Conference on Women organizzata dall‘ONU in Messico nel 1975.

Le politiche che diedero priorità a tematiche come la diversità dei corpi, la sessualità, l’emotività e il bagaglio personale di ognuno sembravano rinvigorirsi grazie ai movimenti femministi e sembravano essere caratterizzati dalla tendenza a fare politica alimentando attenzione, interesse, cura e cercando di mettere insieme tutte le realtà particolari che ci rappresentano: da una parte ciò che conosciamo e che sappiamo di volere, e una ragione comune nella pratica e nel pensiero politico dall’altra. È solo attraverso questa congiunzione che l’attivismo può allargare gli orizzonti e riconfigurare “dal basso” le leggi e i diritti così che possano essere permeate dalle diverse esperienze delle donne e delle persone nel mondo. È sicuramente un sistema che non può nascere dall’oggi al domani, può essere solo il risultato di un incessante lavoro di ri-significazione portato avanti da un consistente attivismo politico e dall’impegno nella costruzione di un compromesso che possa essere universalmente flessibile per una feconda co-esistenza tra molteplicità.

Il concetto di intreccio è di estrema rilevanza per avere chiari i modi in cui idee, persone, testi hanno attraversato e ri-attraversato i confini creando intersezioni multiple. Un’immagine astratta a cui potremmo pensare per meglio comprendere il concetto, come suggerisce Lucy Delap nel suo saggio Femminismi. Una storia globale, potrebbe essere quella di un mosaico femminista composto da tessere, frammenti, pezzi in grado di ripristinare la ricchezza, la bellezza e l’unione senza necessariamente perdere tutte le proprie caratteristiche e identità peculiari. È senza dubbio necessario non negare la divisione, la violenza e le difficoltà all’interno del movimento, perché il privilegio di guardare indietro al passato del femminismo è esattamente quello di acquisire una prospettiva globale; ed è uno strumento in più che abbiamo, rispetto a quelli che stavano facendo la storia a quel tempo. Tra l’altro, Il femminismo è sempre stato un invito a riflettere sul perché e su come la società adotta certe dinamiche e sui motivi per cui certi uomini possono godere dell’opportunità di avere una voce, avere più risorse e più autorità rispetto ad altri uomini e donne. Questo è il motivo per cui la critica femminista verrà utilizzata molte volte in diversi campi. Per concludere, il percorso femminista è tutt’altro che univoco e lineare e nessuna definizione universale può funzionare per descriverlo.  

3-immagine-di-copertina-del-libro-di-lucy-delapLucy Delap: ‘Femminismi. Una Storia Globale’ 

Il saggio scritto da Lucy Delap, insegnante di storia britannica moderna e di genere all’Università di Cambridge, traccia la storia delle numerose conquiste femministe attraverso un percorso concettuale molto inusuale e a dir poco originale. L‘autrice presenta un excursus non lineare che rende perfettamente l‘idea della complessità del movimento. È una modalità che calza a pennello con la natura plurale del femminismo che abbiamo descritto precedentemente. In pratica il saggio è suddiviso in capitoli, ognuno corrispondente ad un particolare concetto. L’idea introduttiva è quella del sogno, che fa trapelare una profonda e intima comprensione di ciò che motivò le prime femministe a dedicarsi all’attivismo e come possiamo immaginare i sognatori si evolvono e cambiano seguendo i propri sogni, che sono mutevoli anch’essi secondo il tempo e lo spazio in cui sono sognati e secondo i contesti sociali e storici in cui esistono insieme ai loro sognatori. I diversi contesti e le diverse origini del sogno femminista hanno un filo conduttore: trovare il modo di immaginare e rendere più eque possibili le relazioni tra i generi, poiché quella tra donna e uomo è tra le relazioni che appartengono a una delle sfere più profonde dell’essere umano che ha bisogno di includere il ruolo essenziale e partecipativo del lavoro femminile nella sfera sociale.

Il poter immaginare delle attività socialmente utili e creative ha rappresentato un obiettivo essenziale e condiviso, base per la realizzazione di uno spazio dedicato alla coltivazione di una libertà sia individuale che collettiva insieme. Ciò che facilitò la comparsa di questi spazi fu l’impiego femminile in posizioni lavorative fino ad allora riservate solo agli uomini da sostituire durante i periodi di guerra e le rivoluzioni industriali che furono momenti di lavoro intensivo sempre crescente. La timida realizzazione di questa immaginazione si dovette alla ferma convinzione che le donne avrebbero dovuto cominciare a vivere in maniera indipendente attraverso il potente strumento lavorativo, che fosse idealmente uno spazio femminile comune o spazi di supporto gestiti da donne. Per esempio, in India la scuola Sharada Sadan (in inglese, Home of Learning) è uno spazio da considerare tale, in cui ci si occupa di educazione e alfabetizzazione con il supporto e l’allestimento di librerie soprattutto scientifiche e letterarie che fungono da importanti basi per la costruzione dell’indipendenza femminile e dell’auto-sussistenza economica, che nel caso della specifica realtà scolastica è relativa ad attività di artigianato e agricoltura.

Raden Adjeng Kartini, preminente attivista indonesiana operante nel settore dei diritti e dell’educazione delle donne, prese ispirazione per il suo lavoro dagli spazi educativi già esistenti in India. Il preconcetto che solo le donne potessero essere femministe e partecipare e godere di questi spazi collettivi è lontano dall’essere sempre e in ogni caso vero, perché in alcuni casi anche gli uomini hanno apportato il loro contributo alla causa, nei limiti del loro privilegio e della loro radicata educazione patriarcale. Alcuni di questi uomini furono John Stuart Mill, Frederick Douglass, e l’ex-schiavo cinese e suffragista Jin Tianhe, che con la loro voce maschile inevitabilmente più visibile e influente si sono offerti come mezzo per veicolare i messaggi femministi. Come possiamo vedere il mosaico è costituito da tessere molto differenti, ma è proprio a partire dalla differenza che può essere fruttuosamente generata energia creativa e unione di intenti. Su questo tema, relativamente all’accoglienza della differenza e della vulnerabilità, Lorde [2] ha scritto: «Essere donne insieme non bastava. Eravamo diverse. Essere ragazze gay insieme non bastava. Eravamo diverse. Essere donne Nere insieme non bastava. Eravamo diverse. Essere lesbiche Nere insieme non bastava. Eravamo diverse» (Lorde A., 1982: 226)

395220Nel percorso tracciato da Delap, i sogni ispirano idee, teorie, analisi su campagne e prospettive di vita femministe. La fede, già illuminata, nella ragione e nell’educazione – vista come l’unica possibilità per fornire strumenti equi sia a uomini che donne per misurare equamente le loro abilità e attitudini – avrebbe dato l’opportunità di mettere in discussione l’idea che le uniche virtù femminili che fossero naturali ed essenziali erano la sottomissione e l’ottemperanza. L’Illuminismo diede priorità al riconoscimento dei diritti civili e politici ma anche all’equità morale e intellettuale che lentamente portò all’eliminazione dell’infantilizzazione delle donne e alla loro considerazione come fossero proprietà legali; per esempio, iniziarono a essere promosse azioni politiche finalizzate al progresso femminista, invece che a un femminismo più specifico e radicale che si svilupperà più tardi nel tempo poiché la consapevolezza circa i privilegi goduti esclusivamente dagli uomini, in una società ampiamente basata sulla marginalizzazione femminile, crebbe soltanto nel tempo.

Il concetto di patriarcato apparve, effettivamente, a metà del diciannovesimo secolo e poi accolto, compreso, rielaborato e messo in discussione dal femminismo per tutti i secoli successivi. Il concetto, inizialmente inteso come una forma di organizzazione sociale onnicomprensiva e sistemica che vede la donna costantemente sotto la dominazione maschile, fu formulato per la prima volta dall’etno-antropologo americano Lewis H. Morgan nel 1877 nell’ambito di uno dei suoi lavori, riconosciuto come chef-d’oeuvre dell’antropologia moderna, riguardante la complessità dell’organizzazione umana a livello sociale e sessuale. In sostanza, il patriarcato nacque e fu concepito come di origine femminista e strettamente legato allo sfruttamento lavorativo della donna sotto il sistema capitalistico; una visione largamente influenzata da un pensiero filosofico socialista, anti-fascista e anti-militarista, che immagina la realizzazione del socialismo attraverso l’alleanza tra uomini e donne nell’obiettivo comune di distruggere il sistema capitalistico.

Il movimento socialista delle lavoratrici femministe è diverso da qualsiasi altro femminismo esistente, diverso soprattutto dall’attivismo borghese, ed ha rappresentato la prima vera frammentazione del movimento. Per alcuni studiosi, la fine del patriarcato e delle discriminazioni di genere e di razza avrebbe corrisposto alla fine del capitalismo, dello Stato-nazione e della proprietà privata. Secondo il socialismo di Engel, l’emancipazione femminile sarebbe stata una diretta conseguenza di una rivoluzione socialista o comunista, ma si tratta di un punto di vista troppo semplicistico perché qualsiasi tipo di analisi critica suggerisce l’improbabilità di poter fronteggiare la questione semplicemente attraverso una rivoluzione di questo genere. Il sistema patriarcale si muove secondo le sue stesse dinamiche e, ancor più, è capace di adattarsi nel tempo apportando beneficio a un gruppo ristretto di persone. Ad una lettura del patriarcato come sistema economico, si aggiunge il punto di vista femminista che comincia a definirlo come un particolare modo di pensare, come una serie di valori capaci di forgiare non solo i campi politico e giuridico ma anche, e soprattutto, le norme culturali e sociali. Passando dal generale al particolare, esso permea le dinamiche familiari, i sistemi educativi, le relazioni interpersonali, e diventa indispensabile la comprensione di come la società organizzata e il diritto riservato agli uomini possano essere così profondamente e strutturalmente patriarcali.

La dominazione maschile e la sua pervasività, la tirannia, l’egoismo hanno necessitato e necessitano di una spiegazione. Tra gli istinti più forti della natura umana c’è il desiderio di potere, di dominio, di essere guardati con ammirazione.. In tutte le epoche e in tutti i Paesi gli uomini, persino i più modesti e i più oppressi, hanno trovato la possibilità di soddisfare tale desiderio esercitando il potere sulle mogli e i figli: «nella sua capanna, anche lo schiavo diventa padrone». Nel 1960, all’alba dei primi passi del movimento di liberazione, si diffonde una comprensione più ampia del concetto di patriarcato; esso venne inteso come la potenza psicologica generata dagli stereotipi sessuali che vengono promossi e alimentati, a sua volta, attraverso istituzioni quali la religione, la famiglia, il matrimonio per produrre una dottrina profondamente estesa e radicata della superiorità maschile.

Kate Millett, scrittrice e attivista americana, ha esplorato le sfumature del sistema patriarcale attraverso la letteratura e la filosofia approdando al concetto di eteronormatività, che si riferisce ad uno standard di interazione tra i sessi opposti imposto come condizione sociale predeterminata e normata. Solo a partire dagli anni ’70, le interconnessioni tra le diverse oppressioni sono diventate lampanti a molti attivisti ed è in quel momento che il femminismo nero ha conquistato visibilità e importanza. Il Comitato di Liberazione delle Donne Nere divenne inoltre il centro dell’attivismo per la giustizia sociale, l’antirazzismo e la liberazione femminile, che ebbe la peculiarità e la capacità di prendersi carico e occuparsi di molteplici forme di oppressione. Deborah King, autrice e avvocata americana, fu una delle prime a sottolineare che le oppressioni subite dalle donne nere non si sommano semplicemente con le altre, ma interagiscono tra loro. Fu lei infatti ad introdurre il concetto di oppressioni interattive, definito in seguito come la matrice della dominazione maschile dalla sociologa Patricia Hill Collins, o definito come intersezionalità da Kimberlé Crenshaw e Bell Hooks, che rappresentò uno dei contributi più importanti della teoria femminista afro-americana.

811ji6muxalNel 1978 Mary Daly, filosofa femminista e teologa americana di origine cattolica, scrisse Gyn/Ecology descrivendo un universo spirituale alternativo in cui l’emancipazione delle donne sarebbe stata correlata alla percezione del degrado ambientale disegnato a braccetto con il patriarcato globale. Ad oggi si tratta delle primissime considerazioni di pubblico dominio intorno alla tematica della crisi ambientale. Nel decennio tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, anche gli uomini hanno cominciato ad organizzare degli incontri per riflettere su varie domande poste dal femminismo e per cercare di capire con quali modalità poter essere partner, compagni, alleati delle donne e su come entrare in una connessione più profonda con le proprie emozioni e il proprio corpo, agendo diversamente rispetto a ciò che gli era stato tramandato culturalmente; nel tempo hanno provato ad assumersi maggiori responsabilità riguardo l’esercizio della paternità e la rinuncia dei loro privilegi, definendosi femministi e distanziandosi dalla mascolinità tossica, che è il tipico atteggiamento maschile sessista e machista.

La comprensione di come le società sistematicamente svantaggiano e privano le donne dei loro diritti è stata una strategia intellettuale fondamentale per le femministe, soprattutto funzionale allo spostamento del dibattito su questioni strutturali quali le disuguaglianze di genere attraverso la lingua, il lavoro, la religione, i sistemi giudiziari, la psiche e le famiglie. La stessa dinamica si fa matrice di tutte le discriminazioni, non solo di genere; per questo un lavoro di decostruzione dei meccanismi che portano al mancato riconoscimento o, addirittura, alla violazione di diritti già riconosciuti risulta importantissimo per poter essere in grado prima di comprendere e, poi, di migliorare e rafforzare l’attuale sistema di protezione dei diritti umani.

Dialoghi Mediterranei, n.72, marzo 2025 
Note
[1] Testo del pamphlet citato in “Femminismi. Una Storia Globale” scritto da Lucy Delap: 167.
[2] Audre Lorde fu una scrittrice, insegnante, filosofa, poetessa americana e femminista intersezionale, attivista per i diritti civili. 
Riferimenti Bibliografici 
Bohm, D., On Dialogue, Routledge : London and New York, New York, 2014.
Crenshaw, K., Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique
of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, University of Chicago Legal Forum, 1989: 139-167.
De Beauvoir, S., The Second Sex (tradotto da Constance Borde e Sheila Malovany Chevallier), London: Jonathan Cape, 2009.
Delap, L., Femminismi. Una Storia Globale (trad. Chiara Libero), Mondadori, Milano, 2023.
Fraser, N., Arruzza, C., Bhattacharya, T., Femminismo per il 99%. Un manifesto, Roma, Laterza, Bari, 2022. 
Hooks, B., Feminist Theory. From margin to center, cap. 2 “Feminism: a movement to end sexist oppression”, Boston : South End Press, 1984.
Lorde, A., Zami, a new spelling of my name, Watertown : Persephone,1982: 226. 
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Mariangela Vitrano, neolaureata magistrale in Cooperazione Internazionale e Protezione dei Diritti Umani all’Università di Bologna; precedentemente laureata in Lingue e Letterature moderne e Mediazione Linguistica all’Università degli Studi di Palermo. Tra le aree di maggior interesse prevalgono l’antropologia, il femminismo intersezionale e i diritti umani, seppur l’approccio tenda a mantenersi multidisciplinare.

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