di Leandro Salvia
I Social media rappresentano un mondo virtuale dove le esperienze condivise consentono alla gente di sentirsi comunità. Sono caratterizzati da un processo simbolico significante. Creano quella che John Thompson, a proposito dei mezzi di comunicazione di massa, definiva “comunanza despazializzata”. Rendono possibili – infatti – relazioni e solidarietà tra individui a prescindere dallo spazio fisico in cui si trovano.
In pochi vivono oggi una vita puramente locale e queste vite interagiscono mettendo in moto nuovi processi sociali, da cui possono scaturire antagonismi o influenze. Si assiste così a una “interconnessione” dei luoghi e delle persone che vivono sia nel mondo reale che in quello virtuale, sempre meno separati e sempre più interdipendenti. Quando ci si “connette” alla Rete non si visita più soltanto un sito internet, come avveniva fino a vent’anni fa, ma si entra in connessione con altre vite. Si interagisce all’interno di un luogo digitale, il cyberspazio, che assume così le caratteristiche di una comunità a rete. Le connessioni costruiscono infatti un nuovo spazio sociale che permette di avere una medesima percezione delle pratiche sociali (habitus), senza la necessità di un unico luogo fisico, ma con una moltitudine che si de-territorializza in una “eterotopia”.
Facebook, Instagram, X, TikTok, WhatsApp, Telegram, Youtube possono essere considerati esempi di “altri luoghi” perché, come gli spazi descritti da Michel Foucault, sono in grado di sovvertire le logiche temporali e spaziali. A una prima osservazione si tratta di interazioni soggette a una apparente disaggregazione (disembedding), simili a quelle descritte dal sociologo britannico Anthony Giddens, perché ristrutturate in archi di spazio-tempo indefiniti. I social media danno prova però anche di fenomeni di re-embedding quando integrano e spesso rafforzano le comunità territoriali che si ritrovano nei gruppi Facebook o WhatsApp.
I flussi di comunicazione immateriale infatti, secondo la sociologa Dina Salzano, starebbero fornendo nuove logiche di incorporazione (embedding) perché introducono «un nuovo modello spaziale policentrico, orizzontale, a rete e nodi. Non è infatti più la distanza a definire i margini e l’alterità, ma i flussi, le connessioni, gli spazi deterritorializzati delle relazioni». I social media sono dunque “eterotopie” e “contro-spazi” che somigliano al teatro di cui parla Foucault, all’interno del quale si susseguono una serie di luoghi estranei e contraddittori. Sono un archivio generale che mescola storie del presente e del passato, sono dunque anche “eterotopie del tempo”, che si accumula all’infinito, come i musei o le biblioteche. E sono in tal senso anche esempi di “eterocronie” perché sovrappongono tempi asimmetrici. Nei newsfeed degli utenti dei social si mescolano eventi passati, presenti e futuri. “Accadde oggi” e “Visualizza i tuoi ricordi”, che consentono di riproporre post e foto pubblicate negli anni precedenti, sono due delle funzioni più popolari di Facebook, dove imperversano inoltre pagine di amarcord che l’algoritmo propone agli iscritti in base ai dati raccolti e ai loro comportamenti.
Facebook è, in tal senso, un esempio di eterotopia aperta al mondo esterno, che Foucault descriveva così: «Tutti possono entrarci ma, in verità, una volta entrati, ci si accorge che è un’illusione e che non si è entrati da nessuna parte» (Foucault 2006: 23). Si tratta di spazi che contestano tutti gli altri, creando «un’illusione che denuncia tutto il resto della realtà». I social, soprattutto Facebook, sono pieni di esempi di contestazione e indignazione. In molti casi si tratta però di bufale che, sfruttando la “viralità”, creano volutamente disinformazione. Le eterotopie di cui parla Foucault hanno anche una “funzione anarchica” perché in grado di liberare l’immaginazione e realizzare tutto quello che altrimenti non si riesce a realizzare. I social lo fanno nel bene e nel male, creando illusioni autobiografiche o fake news. Le informazioni false diffuse sui social rispondono però spesso a logiche di potere e sono in grado di condizionare l’immaginario politico. Perché lo spazio, che sia reale o virtuale, non è mai un medium neutro. A teorizzarlo nel 1974, col volume Produzione dello spazio, è Henry Lefebvre, filosofo e geografo marxista, che introduce nel dibattito culturale i concetti di «spazi percepiti, spazi concepiti e spazi vissuti». È la “trialettica della spazialità” nella quale lo spazio non è più un semplice luogo di relazioni sociali ma è un fenomeno soggetto all’egemonia ideologica e all’uso politico.
Negli anni Novanta del secolo scorso a ispirarsi alle teorie sullo spazio di Lefebvre e di Foucault è il geografo postmoderno Edward Soja che propone un viaggio intellettuale alla scoperta del “terzo spazio”. Un viaggio oltre il confine, fatto di molteplici “contro-spazi” dove è possibile la negoziazione tra gli opposti. Per Soja nel cyberspazio si sperimentano infatti eterotopie in grado di superare il confine tra spazio mentale e fisico, tra reale e immaginato. Uno spazio mobile e molteplice che diventa flusso. Il suo essere liquido è già insito nell’etimologia della parola cyberspazio, il cui confisso è ricavato dal sostantivo inglese cybernetics, che a sua volta deriva dal greco κυβερνήτης (timoniere, pilota di una nave). Il cyberspazio è dunque uno spazio navigabile. Così come lo immaginò agli inizi degli anni Ottanta lo scrittore di fantascienza William Gibson, autore dei romanzi Burning Chrome e Neuromante, dove il termine compare per la prima volta per indicare un’allucinazione vissuta consensualmente ogni giorno da miliardi di operatori, «linee di luce allineate nel non-spazio della mente».
Identità condivise nei nonluoghi antropologici
Il cyberspazio sembra ricordare anche i Nonluoghi di Marc Augé, che ha definito i social “la quintessenza dei nonluoghi”. L’antropologo francese, in un’intervista rilasciata a Rainews24 nel 2017, a proposito di internet, disse:
«Ha cambiato le nostre vite, non c’è alcun dubbio, le relazioni si sono moltiplicate, ma se ci riflettiamo, più si hanno delle relazioni virtuali – si pensi a Facebook e ad altri social network – e più si è soli. Internet promette la negazione dello spazio e del tempo, ma è solo e soltanto un’illusione, perché le relazioni sociali non possono esistere che nel tempo e nello spazio».
I nonluoghi sono per Augé quegli spazi della quotidianità dove la gente non ha relazioni sociali organiche. Luoghi di passaggio come aeroporti, autostrade e centri commerciali. A un primo sguardo i social possono sembrare luoghi di socializzazione, ma l’antropologo della “surmodernità” mette in guardia: «Si presentano come un’entità che stabilisce delle comunicazioni. Il problema è se possiamo usare il termine relazione per indicare questi legami di comunicazione». Per Augé gli spazi di comunicazione sono – infatti – “nonluoghi empirici”, all’interno dei quali l’individuo è decentrato rispetto a se stesso.
«Si dota di strumenti che lo pongono in contatto costante con il modo esterno più remoto. I telefoni cellulari sono anche apparecchi fotografici, televisori, computer. L’individuo può così vivere singolarmente in un ambiente intellettuale, musicale o visuale completamente indipendente rispetto al suo ambiente fisico immediato. Questo triplo decentramento corrisponde a un’estensione senza precedenti di quelli che definisco i ‘nonluoghi empirici’, ovvero gli spazi di circolazione, di consumo, di comunicazione» (Augè 2019: 8).
I social, demoltiplicati e onnipresenti, sembrano dunque rientrare tra i “nonluoghi antropologici” che creano quella che Augé chiama “una contrattualità solitaria”, affidata a parole, immagini e ideogrammi che ricordano le “modalità d’uso” presenti negli aeroporti, nelle autostrade e nei supermercati. I pulsanti “mi piace”, “condividi”, “commenta”, “segui”, “rispondi” servono infatti a organizzare la circolazione degli utenti nello spazio virtuale. Sono la mediazione che stabilisce un legame degli individui con il loro ambiente nello spazio del nonluogo per tentare di creare un’“identità condivisa”.
Il senso del luogo nel Web
Partecipare ai sistemi di comunicazione elettronica è sentirsi parte di un network globale che fa sviluppare un senso del luogo universale all’interno di una dimensione senza spazio. È quella che il sociologo francese Jean Baudrillard chiama “l’estasi della comunicazione”: l’abbandono del corpo in cambio di un’identità di superfice, fatta di schermi.
«Quando tutto è sottoposto alla luce cruda e inesorabile dell’informazione e della comunicazione, non siamo più nel dramma dell’alienazione, siamo nell’estasi della comunicazione. È questa estasi è oscena. Osceno è tutto ciò che mette fine a qualsiasi sguardo» (Baudrillard 1997: 15).
La comunicazione attraverso i social media avviene in quello che Augé chiama “lo spazio della surmodernità”, fatto di interazioni tra individui esposti alla “tentazione del narcisismo”. A determinare il carattere “surmoderno” dei social è, infatti, la presenza delle “tre figure dell’eccesso” citate da Augé: la sovrabbondanza di avvenimenti, la sovrabbondanza spaziale e l’individualizzazione dei riferimenti. Nel primo caso basta scorrere il newsfeed di una piattaforma e in qualunque giorno verranno proposti migliaia di contenuti che assumono la forma di avvenimenti. Dalla cena in pizzeria agli arresti per droga; dal compleanno alla presentazione di un libro. Sono infatti le foto digitali, scattate e pubblicate in eccesso, a “eventizzare” i momenti della nostra giornata. Immagini e parole virtuali che trovano spazio in sovrabbondanza nell’etere senza confini, dove, nonostante l’abbondanza di spazio, le individualità, svincolate da un progetto collettivo, sembrano sgomitare per sovrapporsi l’una all’altra. Le piattaforme digitali rientrano così perfettamente in quella «complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così peculiare che spesso mette l’individuo in contatto solo con un’altra immagine di se stesso» (Augé: 2009: 73). Perché, come fa notare lo stesso antropologo francese, «nello spazio del nonluogo non si creano né identità singola, né relazione, ma solitudine e similitudine» (Augé: 2009: 88).
La distinzione tra luogo e nonluogo passa attraverso il rapporto tra luogo e spazio. Il primo è infatti una categoria interpretativa costruita per dare significato al secondo, che attraverso un processo significante diventa luogo identitario. È quel “senso del luogo” di cui ragiona la geografa culturale Gillian Rose, che descrive tre modi identitari di rapportarsi: identificarsi con un luogo, identificarsi contro, non identificarsi. Perché sono le persone a dare significato ai luoghi, che diversamente resterebbero soltanto “spazi”.
Un luogo diventa identitario quando i componenti di una comunità vi si riconoscono e ne condividono una storia comune. L’osservazione di alcuni comportamenti degli utenti, soprattutto su Facebook, potrebbe far ipotizzare l’esistenza di processi identitari, non con la piattaforma, ma con alcuni suoi contenuti. In particolare con le pagine tematiche e con i gruppi, all’interno dei quali può avvenire un processo di adattamento delle singole identità. I social non sono, infatti, semplici incroci di mobilità, come gli aeroporti o le autostrade dove il rapporto principale si svolge tra il luogo e l’individuo, ma prevedono al loro interno delle relazioni. In Rete nascono gruppi che possono diventare “comunità di pratica”, ma possono trasformarsi anche in “hub della disinformazione” che sfruttano le capacità dei gruppi di influenzare gli iscritti alle community.
Si può dunque appartenere a un gruppo social territoriale, politico, sportivo o tematico. In ogni caso a svolgere una funzione identitaria sono il territorio, l’ideologia, la fede calcistica o la sensibilità su determinate tematiche. Il gruppo Facebook è invece un collante che sembra avere una funzione “rafforzativa” e che può diventare funzione “vicaria” nei casi di distanza geografica o in caso di eventi eccezionali come il lockdown del 2020.
Un’indagine etnografica, coordinata da Daniel Miller, dal titolo Why we Post e contenuta nel volume pubblicato in Italia col titolo Come il mondo ha cambiato i social media, evidenzia come siano «potenzialmente in grado di riaffermare la connettività sociale».
«Sono diventati uno spazio online dove uomini e donne si possono sentire parte della famiglia estesa, del lignaggio o della tribù anche solo passando un po’ di tempo a guardare le immagini e le fotografie, e a leggere le notizie sui loro parenti. I social media hanno in questo modo configurato forme nuove, moderne, di alleanza tribale. In parte questo compensa migrazioni e migrazioni forzate per cui le persone non vivono più vicine le une alle altre, e così c’è ancora un modo per rimediare» (Miller 2018: 223).
Secondo questa ricerca in Italia, ad esempio, le famiglie separate usano spesso una combinazione di Facebook, Skype e WhatsApp per ricostruire gli spazi domestici con una funzione di “complemento” per rimettere in sesto la vita sociale offline.
Spazio, corpo e utopia
Lo spazio “geometrico” in cui viviamo, ricorda Merleau Ponty, diventa spazio “antropologico” ed “esistenziale” perché noi siamo proiettati nella prossimità del mondo, ma non possiamo fare a meno del nostro corpo come forma di intermediazione.
«Il mio corpo è il perno del mondo: io so che gli oggetti hanno svariate facce perché potrei farne il giro, e in questo senso ho coscienza del mondo per mezzo del mio corpo» (Merleau-Ponty 2003: 120).
La percezione tramite la corporeità sarebbe dunque la condizione di ogni nostra conoscenza. La Rete crea però interazioni “disincarnate” e sembra per questo poterci liberare di quello che Foucault chiama il “luogo assoluto”: il nostro corpo, «spietata ‘topia’ a cui siamo condannati senza appello» (Foucault 2006: 32). In questo gli spazi digitali sembrano assumere le caratteristiche dell’utopia, luoghi fuori da ogni luogo «in cui io avrò un corpo senza corpo, un corpo bello, limpido, trasparente, luminoso, veloce» (Foucault 2006: 33). Grazie ai filtri per le foto presenti su Instagram, Facebook e TikTok, oltre a eliminare veri o presunti inestetismi, si possono infatti modificare i tratti del viso e del corpo per renderli più conformi ai canoni estetici visti nel Web. Così, grazie alle App, si possono mostrare un viso più bello e un corpo più giovane.
Potremmo dunque dire che i social media rappresentano una scorciatoia per un’aggregazione senza l’ingombro dei corpi e senza il peso dell’empatia. Un’aggregazione diversa da quella della vita reale, dove i nostri corpi hanno bisogno di occupare uno spazio e comunicano ancora prima delle nostre parole e insieme a esse. Soddisfano quella curiosità e quel desiderio di andare oltre i confini del nostro corpo in cui siamo relegati. Un corpo che diventa “utopico” perché può apparire o scomparire a nostro piacimento. I social somigliano dunque a quel “paese delle fate” di cui parla Foucault, «il paese in cui si è visibili quando si vuole, invisibili quando lo si desidera» (Foucault 2006: 33).
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Riferimenti bibliografici
M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, 2009
J. Baudrillard, L’altro visto da sé, Costa & Nolan, Milano, 1997
M. Foucault, Utopie Eterotopie, Cronopio, Napoli, 2006
W. Gibson, Neuromante (1984), Mondadori, Milano, 2017
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 2003
D. Miller, Come il mondo ha cambiato i social media, Ledizioni, Milano, 2018.
___________________________________________________________________________
Leandro Salvia, giornalista freelance, cura la comunicazione mediale di progetti del Terzo settore. Ricopre incarichi di docente di Comunicazione nell’ambito della Formazione professionale e del Lifelong Learning. Si interessa inoltre dell’impatto che la fruizione dei media ha sui processi di apprendimento e sulla costruzione identitaria. Dal 2019, con l’associazione Kaleidos Cultura e Natura, organizza laboratori di scrittura giornalistica e uso consapevole dei social media nelle scuole del territorio palermitano. Ha studiato all’università di Palermo, dove ha conseguito la laurea magistrale in Studi storici, antropologici e geografici con una tesi su «Identità mediali, funzioni e narrazioni nell’era dei social media».
______________________________________________________________