«Alessandria, la città della mia infanzia, non è altro che un ricordo. (…), nient’altro che un mito (…), sopravvive nella memoria degli alessandrini cosmopoliti stabilitisi nelle loro nuove terre d’origine (..). Quando si incontrano nelle loro città adottive raramente parlano del cataclisma che li ha dispersi. Ci sono ferite che non si rimarginano mai; se ne tace per paura di riaprirle, e anche per decenza. Alessandria rivive nella memoria e nelle memorie di chi l’ha vissuta» [1].
Così scrive l’alessandrino di nazionalità francese Paul Balta [2]. Io aggiungerei che Alessandria rivive anche nei racconti dei suoi abitanti alle nuove generazioni. Sotto questa prospettiva e in questa atmosfera di sogno nebuloso a occhi aperti, ma a volte anche da incubo da ricacciare indietro, bisogna leggere “Retour en Alexandrie” (2023, Francia, Egitto, Svizzera). Si tratta del primo lungometraggio del regista svizzero egiziano Tamer Ruggli (1986), che sceglie anche un azzeccato titolo arabo, presente nella locandina in francese, ma non in quella inglese. Esso potrebbe spiegare meglio la detta dimensione onirica e surreale creata dalla memoria: Wahashtini (mi sei mancato/a). Forse si tratta di un messaggio indirizzato alla città, o a qualche affetto lasciato lì?
Il titolo arabo sottolinea il concetto di wahsha, solitudine, che è la cifra costante fin delle prime scene del film, ambientate in una tranquilla, quasi soporifera realtà svizzera, verde ma non molto soleggiata. Qui Sue, o Susy (l’attrice libanese Nadine Labaki), vive da sola, facendo la psicanalista e dispensando saggi consigli ai suoi pazienti. Ad una di essi, con fare convincente e sorridente, dice: «Ogni momento della vita è quello buono per cambiare vita». Facile a dirsi …, tanto che dopo aver ricevuto un messaggio sul cellulare, dense nubi cominciano ad addensarsi nella sua mente. In quella di Susy. Persino la sua cliente depressa se ne accorge. Che cosa le è successo di così scioccante? Da una telefonata con zia Enjy viene a sapere che la madre, Fayruz, (interpretata da Fanny Ardant) versa in gravi condizioni. Ed ecco che inizia a riavvolgersi il nastro della sua esistenza: cosa l’ha portata così lontano dal suo solare Egitto, in una casa immensa, ipermoderna, ma fredda, grigia e vuota, tremendamente vuota?
Da quel momento in poi si materializzano i fantasmi della sua infanzia, che la visitano a più riprese: prima le compare un bambino a lei familiare, poi a lui si aggiunge la madre. Lei è ancora bella e canta un brano di Dalida, la diva italiana d’Egitto. Forse le somiglia pure, non fisicamente, ma nel suo indicibile tormento. Almeno la cantante grazie alla musica era riuscita a sublimare il desiderio di essere amata e di amare, mentre la madre lotta contro forze ostili per vivere une vie en rose, per dirla con Edith Piaf.
Susy si precipita in Egitto, per rivedere la genitrice e fare così i conti con un passato familiare doloroso, dopo vent’anni di assenza. All’aeroporto del Cairo si sceglie un tassista belloccio, “casualmente” uno in camicia rosa, per raggiungere zia Enjy. In taxi, sulla melodia struggente del brano “Ahwak” [3] (“Ti amo”), cantato dall’immortale ‘Abdelhalim Hafez, quando sente dal tassista la parola “amore”, Susy sembra improvvisamente turbata. Il fantasma della madre le compare ad inibirla nella ricerca di un contatto umano. Per fortuna ad alleggerire l’atmosfera c’è sempre il bambino. Si chiama Bobby, apparentemente il fratello mai nato, che la madre avrebbe voluto al posto di Susy.
La casa della zia Enjy (l’attrice Menha al-Batrawy) è agli antipodi della sua in Svizzera. Straripa di mobili, suppellettili, ricordi, è baroccheggiante, forse troppo carica di memorie storiche. La loro è una ricca e blasonata famiglia egiziana, in cui dominano le donne. La zia esprime sentimenti contrastanti nei riguardi della nipote, la tratta con un piglio decisamente autoritario ma comunque le si mostra accogliente.
Il suo quasi monologo (parla quasi sempre lei e addirittura rimprovera la sorella, madre di Susy, per la sua loquacità) è di una teatralità esilarante. Serve anche a introdurci nei meandri del passato tra Susy e la madre. Chi conosce la società egiziana di qualche decennio fa non troverà strano il suo modo di esprimersi in francese, lingua dell’alta borghesia locale, per marcare il distacco snob dal popolo, dalla servitù, ed esibire il prestigio di classe. Ma non mancano le espressioni intercalari in arabo egiziano, soprattutto le frequenti parolacce.
La sua performance, da premio Oscar anche se dura pochi minuti, sembra la necessaria caricatura di una vecchia isterica appartenente ad una classe che è stata causa dell’immobilismo sociale del Paese. Come un pappagallo, tale borghesia, di cui fa parte anche la madre (che tuttavia le tarpa le ali) vuole imitare l’Occidente, ma lo fa solo di facciata. Forse così si può inquadrare l’attacco, più metaforico che reale, che quell’uccello sferra contro Susy, portandola poi alla sua vendetta.
Il film di Ruggli sembra comunque concentrato sulla storia privata di un conflitto vissuto in una famiglia, più che fornire modelli d’analisi sociologica. Ciò che emerge è la mancanza di libertà di amare e l’incapacità di amare una figlia: infelice era la madre, e infelici dovevano essere tutti quelli intorno a lei. Si intravede già la figura del misterioso amante della madre, un capitano francese, con cui la madre vorrebbe passare una vita en rose. Ma di quella vita sognata rimane solo il colore della sua Desoto decappottabile, che sullo sfondo delle piramidi sembra l’icona un po’ esoticizzante di questo film.
Al volante della mitica auto, Susy si avvia ad Alessandria. A bordo la segue sempre il fantasma della madre e del fratello, o alter ego Bobby, accompagnati dalla musica di Dalida. È finalmente giunto il momento delle confidenze e rivelazioni sconvolgenti, una sorta di seduta psicanalitica in movimento, un chiarimento dei drammi esistenziali di madre e figlia.
Nell’assoluto e angosciante vuoto del deserto, che è l’unico ad assorbire i loro discorsi, tra rancori e rimproveri covati per decenni, si sviscerano questioni mai affrontate, fino alla domanda più cruciale posta da Susy: “Ma tu, mamma, mi hai mai amata?”. Il giallo del deserto inghiotte il fantasma della madre, che non può che scappare, senza voltarsi indietro. La figlia riesce a perdonarla. Qualcosa è successo.
Alessandria è già alle porte, annunciata da un altro brano immortale di Najet, “Ba’shaq al-bahr” (“Amo il mare”) [4]. Si avvicina l’incontro fatidico con la mamma. Forse sarà quello il famoso attimo che può cambiare una vita, restituendola finalmente ad una dimensione adulta, alla effettiva capacità di amare e di farsi amare?
“Retour en Alexandrie” sembra un viaggio iniziatico di crescita, di maturazione, quasi un bildungsfilm, che si snocciola attraverso luoghi, oggetti, simboli, suoni e volti di una memoria turbata. Coloro che sono nati ad Alessandria, come il già citato Balta, o hanno semplicemente vissuto la loro fanciullezza in Egitto, potranno gustarsi in pieno questo delicato e delizioso frutto con la voracità di chi ne è stato privato, dopo averlo provato, per i tanti misteri della storia e del destino. Al di là di un certo manierismo, un po’ da cartolina, ma perdonabile e giustificabile, se si guarda al film come un lungo sogno, costoro vi ritroveranno colori perduti, forme, voci, e in essi si risveglieranno struggenti ricordi.
“Retour en Alexandrie”, che il regista definisce semi autobiografico, andrebbe letto come un tentativo di ricostruzione di frammenti di un mondo da lui interiorizzato ed elaborato per anni, grazie alle sue esperienze d’infanzia, o forse grazie ai racconti della madre egiziana, a cui solo si può credere. Perché, come dice il poeta Mario Scalesi,
«Rends-moi l’illusion propice, / Égrène-moi tes vieux récits. / Je crois aux contes de nourrice / lorsque c’est toi qui me les dis» [5].
In una scena dal sapore felliniano, le altre donne del film, la nonna e le tante zie, definite “meduse, gorgoni ed arpie”, nel loro ruolo oppressivo e repressivo, servono anche per comprendere le scelte della madre. Ma subito evaporano nella nebbia del fumo delle loro sigarette, come pesanti cimeli di una tradizione. Le donne di “Retour en Alexandrie”, compresa la madre, fanno e disfanno, sono vittime e nel contempo carnefici. Con buona pace di chi si crogiola di piacere nell’insinuare l’insostenibile pesantezza del patriarcato nel mondo arabo.
Se si valuta questo film che presenta un suo stile inconfondibile, scelte estetiche mature e una superba fotografia, sotto la lente della ricezione del pubblico proposta dai cultural studies [6], sembra però che esso non abbia un destinatario preciso. Ciò potrebbe essere anche un vantaggio, ma pone alcuni interrogativi: il pubblico europeo sarà in grado di apprezzarne l’atmosfera, i simboli, le colonne sonore, diegetiche e non, che sottolineano una nostalgia per un passato più vivibile dell’oggi cacofonico e alienante, soprattutto in Medioriente? Chissà. E il pubblico arabo ed egiziano, a prescindere da quei valori aggiunti summenzionati, ha forse bisogno delle immagini mitizzanti di certi luoghi (piramidi, hotel di lusso), che hanno ispirato tanti registi e scrittori, spesso con una visione orientalistica?
Bisogna comunque apprezzare il fatto che Ruggli si sforzi di restituirci lo spaccato di un Egitto non realistico, ma deformato dalle allucinazioni della memoria. Sicuramente lo fa con pennellate leggere, un certo humour e un amore autentico verso un Paese a cui sente di appartenere, e verso la sua gente gentile, generosa ed autoironica. Forse ancora erede, consciamente o meno, di una delle più raffinate civiltà dell’umanità.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] The Cosmopolitanism of Alexandria: IEMed
[2] Paul Balta (1929-2019) si è occupato nelle sue opere di mondo arabo e musulmano, e dei grandi avvenimenti che l’hanno attraversato. Ha diretto il “Centre d’études de l’Orient Contemporain” alla Sorbona.
[3] Abdel Halim Hafez – Ahwak | عبد الحليم حافظ – أهواك (youtube.com)
[4] Najat Al Saghira – I love the sea – نجاة الصغيرة – انا بعشق البحر (youtube.com)
[5] Citato da Rosy Candiani, in “Ricordare Mario Scalesi”, in Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020. Cfr. Mario Scalesi, I poemi di un maledetto (a cura di Salvatore Mugno), Transeuropa, Massa, 2021.
[6] Gli studi culturali applicati al settore cinematografico, oltre ad indagare il rapporto tra cinema e identità (genere, sesso ed etnia postcoloniale) sottolineano anche l’importanza di studiare la risposta del pubblico, che partecipa attivamente al processo di creazione di significato dei film, in base al suo background culturale.
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Aldo Nicosia, ricercatore di Lingua e Letteratura Araba all’Università di Bari, è autore de Il cinema arabo (Carocci, 2007) e Il romanzo arabo al cinema (Carocci, 2014). Oltre che sulla settima arte, ha pubblicato articoli su autori della letteratura araba contemporanea (Haydar Haydar, Abulqasim al-Shabbi, Béchir Khraief), sociolinguistica e dialettologia (traduzioni de Le petit prince in arabo algerino, tunisino e marocchino), dinamiche socio-politiche nella Tunisia, Libia ed Egitto pre e post 2011. Nel 2018 ha tradotto per Edizioni Q il romanzo Il concorso di Salwa Bakr, curandone anche la postfazione. Ha curato per Progedit la raccolta Kòshari. Racconti arabi e maltesi (2021).
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