di Anna Maria Calore
Mi trovavo a Tirana in quell’estate del 1990. L’Albania aveva da pochissimo aperto le sue frontiere ed io, insieme ad un piccolo gruppo di italiani, avevamo progettato quel viaggio, perché nutrivamo il desiderio di poter conoscere come si viveva in un Paese, così vicino e così diverso come “stile di vita” nel quale la Coca Cola non era ancora arrivata ma nel quale si riusciva a sintetizzarsi con i canali della Televisione Italiana, considerandola una finestra verso l’Occidente. In fondo, a dividere l’Italia dall’Albania, c’era solo un braccio di mare di circa una cinquantina di miglia nautiche, e le due coste opposte tra loro, erano bagnate dalla stessa acqua del Mar Adriatico. Un Paese, l’Albania, che culturalmente sembrava ancora chiuso al consumismo occidentale quindi, e forse lo sarebbe stato ancora per poco, ma un Paese nel quale, attraverso l’aere, arrivavano comunque e quasi ovunque lungo la costa, visioni di un mondo occidentale con consumi, valori e consuetudini diverse. Del resto, un antico detto popolare non afferma che l’aria, come del resto l’acqua ed il vento non potrai mai metterli in gabbia?
Giunti a Tirana prendemmo alloggio nell’Hotel risalente all’epoca delle costruzioni fasciste in Albania, vicinissimo alla Piazza Centrale di Tirana e poco lontano dal Kombetar edificato, anche questo teatro, negli anni trenta del ‘900. Fu così che prendemmo atto di come le opere più belle e significative della capitale albanese, fossero state costruite dagli italiani durante il periodo fascista. I cittadini di Tirana, che evidentemente, non nutrivano un pessimo ricordo degli italiani, ci riconoscevano da lontano e cercavano contatti con noi. Ci chiesero libri di grammatica italiana, dandoci i loro indirizzi perché li potessimo inviare una volta tornati a casa, ci invitarono al loro Festival Nazionale della Canzone Albanese, nel Teatro centrale di Tirana, il Kombetar appunto e, accadde pure che, una mattina che eravamo in fila per acquistare zucchero per i nostri caffè in Hotel, sempre troppo amari, ci fu una donna albanese che ci regalò, con un grande sorriso, il suo pacchetto di zucchero appena acquistato per risparmiarci la fila chiedendoci, in cambio, dei libri in italiano da poter leggere.
Tutte le persone che incontravamo in questo Paese, gente che si muoveva camminando a piedi o al massimo su carretti trainati da somarelli oppure pedalando su qualche vecchia bicicletta anche per lunghe distanze, ci salutavano con cordialità, compresi i bambini a guardia di pecore e capre esprimendo, con il loro sguardo e con il loro agire, un grande senso di dignità che non confliggeva con le loro aspirazioni ad una vita più ricca di stimoli, desiderio legittimo in un Paese dalle frontiere aperte solo da poco. Il paesaggio albanese era pressoché incontaminato, tranne che per le poche fabbriche chimiche che producevano solo a scopo industriale interno. Tutto questo mi portava a credere che l’Albania, potesse forse rassomigliare all’Italia del sud di inizio ‘900.
Poi una notte della prima settimana del luglio 1990, udimmo degli spari non lontani dal nostro Hotel in direzione dell’Ambasciata Italiana. La mattina dopo chiedemmo, alla reception, cosa fosse accaduto. La gentilissima ragazza del personale a nostra disposizione come hostess, con una spontaneità e pulizia di intenti stampata sul viso, ci disse testualmente: «mi è stato detto di dire che non è accaduto nulla!»
Invece era iniziato qualcosa e non da quella notte, bensì da almeno due settimane prima del nostro arrivo a Tirana, qualcosa che avrebbe cambiato la vita degli albanesi ed avrebbe costretto noi italiani, abitanti della prima terra verso occidente dove poter approdare, a fare i conti con un esodo dalle dimensioni impreviste. Ma quando si ebbe, concretamente la percezione di questa grande fuga dall’Albania? Ecco la descrizione in un articolo di Vincenzo Nigro, su “La Repubblica” del 3 luglio 1990:
«Il primo segnale allarmante è arrivato sabato 23 giugno: sei giovani albanesi su un vecchio camion hanno risalito a tutta velocità Ruga Labinoti, la strada dell’ambasciata italiana. All’altezza dell’ingresso della ambasciata hanno sterzato violentemente a sinistra, hanno sfondato il cancello e si sono offerti alle cure dell’ambasciatore Giorgio De Andreis. Ieri sera il gesto è stato ripetuto: altri 6 albanesi hanno aperto violentemente i cancelli dell’ambasciata con l’aiuto di un autocarro. È come se gli albanesi avessero trovato il loro Muro di Berlino da scavalcare: sperano di conquistare la libertà entrando nelle ambasciate straniere, ma naturalmente il problema generale dell’Albania non può essere risolto facendo rifugiare tutto un popolo nelle ambasciate, commenta un diplomatico italiano. Naturalmente il governo Andreotti aggiorna con particolare apprensione il conto dei rifugiati. Nella nostra ambasciata il numero degli ospiti è cresciuto in maniera spropositata, è difficilissimo per i diplomatici italiani riuscire a dar loro da mangiare, offrirgli assistenza, e contemporaneamente intavolare trattative con il Ministero degli Esteri albanese per farli espatriare. L’Italia, inoltre, sperava di poter avviare un serio confronto politico con il gruppo dei riformisti del partito comunista albanese guidati dal presidente Ramiz Alia. Questi nuovi rifugiati, però, ci inducono a credere che ormai non si tratti di una sommatoria di atti individuali, ma di una vera e propria messa in mora del sistema, sostiene un alto funzionario della Farnesina, per cui non possiamo non chiedere con forza sempre maggiore al governo albanese di andare sino in fondo al processo di riforme democratiche di cui parlano da tempo. Il problema è che, per non attendere ancora, molti albanesi hanno deciso di andarsene. In tutti i modi»
Abbandonare la propria terra anche a rischio della vita
E infatti gli albanesi cominciarono a partire in tutti i modi possibili, dai porti di Valona, Durazzo e Santi Quaranta (Saranda). Barconi stracarichi di persone dirette, perlopiù, verso il porto di Brindisi. Per l’Albania iniziò un periodo difficile e complesso. Un Paese schiacciato tra problemi economici legati anche alla creazione di “Piramidi Finanziarie”, da parte di spregiudicati avventurieri che, in un Paese ormai al tracollo finanziario, cercheranno di far uscire denaro – e si parla di milioni di dollari – in tutti i modi possibili, anche utilizzando le imbarcazioni stracolme di esseri umani diretti in Italia lasciandosi alle spalle un’Albania ormai in preda ad episodi di guerriglia nei quali verranno uccise circa duemila persone.
Migliaia di soldati e poliziotti avevano già disertato e il Governo Albanese perderà rapidamente il controllo del Sud del Paese. In pochissimo tempo aumentarono le fughe disperate verso l’Italia, fughe culminate nelle controverse “misure di dissuasione” della Marina Italiana che, cercando di contrastare il tentativo di approdo sulle coste italiane, si trovò pesantemente implicata nel naufragio della Katër i Radës, una nave carica di albanesi. Era il mese di marzo del 1997, quella notte morirono annegate, nel Canale di Otranto, 108 persone e questa tragedia prenderà il nome di “disastro del Venerdì Santo”. La sciagura del “Venerdì Santo” sollevò parecchi interrogativi sulla legittimità delle azioni che uno Stato può mettere in atto per limitare l’ingresso sul suo territorio di persone non autorizzate e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati criticò il blocco navale ordinato dall’allora Governo Italiano, considerandolo illegale.
Nel corso dei secoli precedenti, c’erano state altre fughe dall’Albania verso l’Italia. Tra il XV secolo, a seguito della morte dell’eroe nazionale Giorgio Castriota Scanderbeg ed il XVIII secolo, a seguito della progressiva conquista dell’Albania da parte dell’Impero Ottomano, numerose comunità albanesi (in particolare, ma non solo, della Morea e della Ciamuria – regioni oggi situate in territorio greco – si stabilirono in Italia, in particolare nelle Calabrie e in Sicilia, a Piana degli Albanesi, come pure in Basilicata, Puglie e Molise. Portarono con loro e continuarono a coltivare, tradizioni, lingua ed usanze del Paese di origine, definendosi “arbereshe” ovvero appartenenti a quell’insieme di aree geografiche chiamata Arberia che connota, di fatto, la minoranza etnico- linguistica albanese d’Italia.
Anima, valori, tradizioni: unico tesoro da portare con sé
Se si vuole comprendere l’anima di un popolo, il legame che ha con la terra dei suoi avi, i sogni, le speranze e la disperazione che nei secoli e nei millenni l’ha nutrita, bisogna rivolgere lo sguardo, l’udito e soprattutto la sensibilità verso i suoi miti, le sue leggende, le fiabe che venivano e tuttora vengono raccontate ai bambini e, non ultime, ascoltare le parole delle ninne nanne, sussurrate dalle mamme ai loro bimbi.
Accompagnando le parole con il ritmo del corpo e delle braccia che cullano il bambino, le ninnenanne trasmettono al piccolo, con modalità ricca di essenza primordiale, i rudimenti della propria appartenenza linguistica ma non solo. La voce cantilenante, unita alle espressioni del viso e al movimento avanti e indietro del corpo della madre, coinvolge la mente, le emozioni e il corpo del bambino. Attraverso queste vie, profondamente interattive tra la voce che canta e la percezione del piccolo che ascolta e sente non solo con le orecchie, emerge una intensa comunicazione di vicinanza corporea sia affettiva e parentale che di contesto sociale (famiglia, luogo, paese lingua, appartenenza etnica). Ed è così che i rudimenti delle informazioni e dei valori cominciano a trovare il sentiero di incontro tra generazioni diverse per una trasmissione necessaria di identità sociale.
Quanto appena descritto, vale per tutte le ninnenanne di tutti i popoli della Terra, ma il fenomeno diventa più complesso e drammatico quando un popolo è costretto a lasciare la propria terra d’origine, come nel caso degli albanesi, poi definitisi arbereshe, in fuga forzata dalle invasioni dell’Impero Ottomano, e approdati nella nostra Penisola. Giungere in un altro Paese per cause forzose, magari sperando di poter contare su di un improbabile ritorno, è un incentivo consapevole al non voler perdere la propria identità, unito alla necessità di voler scendere a patti con le usanze e le abitudini del popolo ospitante. È proprio allora che le ninne nanne, ma anche le fiabe, le narrazioni mitologiche, i canti, i balli e la poesia della tradizione linguistica alla quale si appartiene, svolgeranno questa funzione.
Attraverso la trasmissione di generazione in generazione di quel patrimonio orale “di identità, di appartenenza” che nessuno potrà mai rubare o distruggere. In questa operazione delicatissima di saper costruire ‘comunità’, un ruolo iniziatico lo svolge senz’altro il racconto mitologico che si rifà all’antico spirito guerriero delle popolazioni illiriche balcaniche, dalle quali discendono gli albanesi.
I canti epici e le rapsodie eroiche (kange kreshnikesh), la sensibilità affettiva e di amore verso la natura, la meraviglia legata ai monti, alle foreste e alla terra dell’antica “Shqiperia” ovvero “Paese delle Aquile”, per lunghissimo tempo continuarono a vivere esclusivamente attraverso le narrazioni orali di leggende, miti e poemi, quale unica possibilità di espressione di sentimenti di orgoglio e disperazione e quindi anche di ‘sollievo’ implicito di ogni narrazione che si fa immagine per se stessi e per gli altri. Al Popolo Albanese, impedito nel suo desiderio di consolidamento di una propria coscienza etnica e culturale sia dalla dominazione ottomana che dalle continue scorrerie dai Paesi confinanti, tutto si poteva togliere, ma non la propria voce e le proprie leggende.
Un esempio suggestivo e famoso è “il Liuto della Montagna” (Lahuta e Malcis), poema albanese di G. Fishta (1937), che narra, per iscritto, trenta canti sulla lotta del popolo albanese per la sua indipendenza, canti che, sino ad allora, erano stati trasmessi solo oralmente.
L’antico orgoglio illirico quindi, unito alla consapevolezza di aver avuto un eroe nazionale come Giorgio Castriota detto Scanderbeg (Gjergj Kastrioti Skënderbeu), principe albanese e re d’Epiro, abilissimo condottiero e diplomatico, che riuscì ad unire i principati d’Albania incitando alla resistenza il popolo albanese, riuscì a rallentare l’avanzata dei turchi-ottomani verso l’Europa. Ma non solo. La linfa più suggestiva, dotata delle radici più profonde per nutrire il bisogno di senso legato anche alla dimensione ‘magica’ delle leggende, il popolo albanese l’ha potuta attingere dalla propria voce che, anche quando impedita ad esprimersi apertamente contro gli invasori, riusciva a narrare simbologie e metafore attraverso un vasto repertorio di divinità minori, presenti nei boschi, sui monti e nei corsi d’acqua dell’Albania.
E così attraverso i racconti intorno al focolare si riusciva comunque a nutrire sogni e speranze, perché le giovani generazioni non soccombessero alla fame, alla disperazione e alle coscrizioni forzate nell’esercito ottomano. Nuset e Malit, (ninfe delle montagne) Këshëte (naiadi), Shtojzavalle (silfidi), Zanë (divinità dei boschi), tutte figure femminili legate alla natura pronte a guidare, salvare, aiutare pastori, cacciatori e fanciulle quando, dalle foreste impenetrabili, uscivano i giganti nefasti come Baloz e Katallâ.
Naturalmente nelle narrazioni intorno al focolare non manca Thopc, lo gnomo che si diverte a fare dispetti alle persone e non può mancare il lupo mannaro Karkanxhol. Nelle fiabe, poi, abbondano mostri di ogni genere (Përbindsh,) orchi (Gogol), Idre (kuçedër), chimere (lubi) e le metamorfosi sono frequenti: l’uomo si trasforma in cervo, in orso, in gufo: la donna in donnola, in cuculo, in tortora. Le divinità possono avere una forma umana (nana e votrës,) madre del focolare) e a tutte queste figure mitologiche e fiabesche, non di rado si affianca anche lo stesso Dio Onnipresente.
Per secoli e millenni i racconti orali rappresentarono, e continuano a rappresentare, un libro di storia vivente capace di connotare come comunità un villaggio, una terra, un popolo. Perché, il raccontare, da sempre ha preso per mano il cucciolo dell’uomo accompagnandolo nell’avventura dolce ed amara della vita e, la magia del racconto è collocato in una dimensione onirica portatrice di emozioni profonde senza spazio e senza tempo. Radici fluttuanti, capaci di legare le nuove generazioni con quelle presenti o già passate e che, ad ogni passaggio generazionale, si nutrono di nuovi arricchimenti interpretativi capaci di dare senso alla presenza di ogni essere umano, alla sua osmosi con la natura e con gli altri esseri viventi. Dare senso a tutti i fenomeni umanamente non controllabili ma capaci di incutere spavento o meraviglia come le tempeste, i temporali, la profondità del mare e l’altezza dei monti. Come pure elaborare timori e paure, spostandole dal proprio solitario immaginario interiore a quello più ampio di una storia popolata da eroi e di personaggi mitologici ed epici.
Ascoltando le gesta dell’eroe di una fiaba o di una leggenda, ci si rende conto di come non persegua una vittoria, ma piuttosto eserciti appieno il proprio coraggio per raggiungere ciò che desidera, la meta che ha sempre sognato quale obiettivo d’amore o di gloria. E quando si trova ad affrontare pericoli improvvisi, sentieri impervi o nemici più forti di lui, sarà il coraggio, la determinazione, il talento ed il proprio credere in se stesso che lo renderà vincitore. Perché leggende e fiabe contengono sempre due aspetti presenti nell’animo umano: il bene e il male. E l’alternanza di bene e male, spesso in lotta tra di loro accompagnate da sfide e coraggio, lotta e inganno che si alternano, possono diventare una visione capace di rendere comprensibile la realtà della vita umana, con i suoi drammi, i suoi tranelli e le sue opportunità di vittorie, sconfitte e amore.
Quanto appena detto vale per tutti i popoli dei vari continenti della Terra. In questo caso specifico stiamo parlando delle peculiarità di una terra ricchissima di leggende, canti orali, danze epiche e poesie: la Penisola Balcanica della quale l’Albania fa parte e dalla quale fuggirono, nei secoli passati e verso l’Italia, quegli albanesi che si sarebbero poi connotati come arbereshe. Fuggirono portando con sé e in sé sia l’identità come popolo shqipëtar, che come popolo capace di vivere in pace rispettando usi e costumi locali e, nel contempo facendo rispettare i propri. Questa capacità è ben espressa da un modo di dire, quando si vuole indicare compiutamente un processo non semplice ma neppure impossibile: «Tenere sempre acceso il Vatra Arbëreshe» ovvero il «Focolare italo-albanese», on tutta la simbologia positiva di pace e convivenza civile che questa accezione porta con sé.
Perché è proprio nell’intimità familiare che alle giovani generazioni viene trasmesso l’orgoglio di una identità da non perdere anche lontano dalla terra che ne ha dato origine. E questo è possibile ripercorrendo insieme ai propri cari, ‘contenitori’ viventi di legami e valori, un sentiero comune che sembra guardi verso il passato, ma che contiene valori sempre attuali e a rischio di decadimento (penso, ad esempio, al valore della parola data, che attualmente, nella nostra ‘non cultura’ intrisa di superficialità, sembra non conti più nulla).
Eppure, proprio la chiarezza di valori condivisi e trasmessi hanno permesso, nel tempo, la sopravvivenza di quella identità e di quella visione di sé che può connotare un intero popolo ed i suoi fondamenti di regole sociali come il rispetto (ndera) la fedeltà alla parola data (besa) la fratellanza (vellamija) e l’ospitalità (mikpritja).
Leggende antiche e recenti
Shpija para se me qenë e Shqiptarit, asht e Zotit dhe e mikut (La casa prima di essere dell’Albanese è di Dio e dell’ospite)
In tempi non troppo lontani, quando un viaggiatore si trovava ad attraversare il territorio albanese tra boschi e montagne, poteva passare di villaggio in villaggio, ospitato di casa in casa e di “bese” in “bese” perché se la parola data da uomo a uomo era quella di proteggere e rispettare l’altro, soprattutto se straniero e se veniva in pace, l’infrangere il giuramento sulla parola data, significava un alto tradimento, talmente grave e riprovevole da parte di tutta la comunità, da spezzare l’identità di un uomo che così, si trovava ad essere disprezzato e isolato dai suoi simili.
Era in questo modo che il viaggiatore poteva giungere sano e salvo a destinazione. Quindi, fare giuramento sulla parola data era essenziale. Ogni albanese ed ogni arabeshe che viva in territorio italiano, ben conosce la storia di Doruntina e di suo fratello Costantino che, pur essendo stato ucciso in battaglia, vuole rispettare l’impegno preso, quello di riportare Doruntina alla propria madre. Quindi, per placare il proprio senso di colpa e difendere il suo onore di uomo, esce dalla tomba per portare a termine ciò che la morte gli ha impedito di realizzare.
La leggenda cantata e trasmessa oralmente (Kënga e Kostantinit dhe Doruntinës) narra di una giovane ragazza, Doruntina, unica figlia femmina di una povera vedova madre di altri nove figli maschi, che viene data in moglie dal fratello Costantino a un uomo che abita in un lontano paese. La madre, che già vede partire tutti i suoi figli maschi per la guerra, si dispera perché teme di perdere i suoi figlioli ei combattimenti e di non vedere più la sua unica figlia femmina, sostegno affettivo per la sua futura vecchiaia. Costantino tranquillizza la donna, giurandole e promettendole di riportarle la figlia nel momento in cui ne avrà bisogno perché troppo anziana per stare sola.
Passano gli anni e giunge un inverno gelido come non è mai stato. Il paese è in estrema povertà a causa della guerra e fame e freddo uccidono bambini ed anziani. La madre di Doruntina ha perso tutti e nove i suoi figli in guerra, Costantino compreso, ed è rimasta sola nella casa dove ha cresciuto i propri ragazzi. Piangente, si reca sulla tomba di Costantino, e lo rimprovera di averle portato via Doruntina e di essere morto senza aver tenuto fede alla promessa e al giuramento (besa) di restituirla a lei, al paese dove la ragazza è nata e alla casa ormai vuota di voci nella quale, lei che è solo una madre vecchia e stanca, si trova sola con gli occhi che non hanno più lacrime da piangere.
Accade allora che la notte successiva alla visita della madre, Costantino torna alla vita, esce dalla sua sepoltura e, dopo un viaggio al chiarore della luna in groppa a uno spettrale cavallo, riporta la sorella Doruntina presso la vecchia e sofferente madre, mantenendo così la parola data da vivo e per poter riposare sereno nella sua tomba di guerriero da morto.
Un’altra tra le leggende albanesi più antiche: la fortezza di Rozafa
Il titolo di questa leggenda è emblematica, poiché il termine usato «fortezza» può significare sia l’essere forte fisicamente, che l’essere dotati di fortezza d’animo e di carattere, tant’è che, nella dottrina cattolica, la fortezza è una delle quattro virtù cardinali e uno dei sette doni dello Spirito Santo. Nel titolo di questa leggenda si allude, quindi, sia alla costruzione di una fortezza -Castello in muratura a difesa della città di Scutari, sia alla fortezza d’animo di una donna di nome Rozafa ed è una delle più antiche e struggenti leggende Albanesi.
La storia si svolge nella Città di Scutari (Shkodra) situata nel nord dell’Albania, affacciata sul lago che prende il suo nome sulle rive del quale si adagia parte della città. Il Lago di Scutari attraversa Albania e Montenegro, è uno dei più grandi per estensione dell’Europa meridionale. Essendo una leggenda trasmessa oralmente di generazione in generazione, ne esistono diverse versioni tutte simili nella sostanza, ma nelle quali la differenza la fanno piccoli dettagli, tutti tesi a sottolineare l’importanza, sin dalla notte dei tempi, della «Besa», ovvero della parola data nella cultura albanese. Il termine besa non ha corrispettivi nella lingua italiana. Può solo essere simile a fare un giuramento solenne oppure al mantenere la parola data sino alla morte. La leggenda che segue è una delle diverse versioni di una narrazione struggente, tramandata oralmente di generazione in generazione, con qualche piccola variazione. Io stessa l’ho ascoltata dalla viva voce di un albanese che parlava perfettamente l’italiano, al quale avevo chiesto di raccontarmela, prendendo appunti per non dimenticarla.
Sostanzialmente la narrazione, riguarda il coraggio e l’amore di cui è capace una giovane donna verso il suo bambino, la sua famiglia e la sua comunità. Una donna portatrice di vita comunque, anche quando si trova condannata a morte certa, forte e determinata sino al punto di rendere invincibile la fortezza di Scutari dagli attacchi di nemici che vorrebbero conquistare la città. Ecco, di seguito la narrazione de “La Fortezza di Rosafa”:
«Sulla cima della collina di Scutari, tre fratelli stavano costruendo una fortezza. Lavoravano sodo alzando alti muri per tutto il giorno, però di notte, come per effetto di una maligna magia, tutto crollava. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, loro costruivano le mura della fortezza che, misteriosamente, però, crollavano di notte. Una mattina, mentre stavano riparando le mura crollate durante la notte, videro un vecchio saggio avvicinarsi. Poi il vecchio saggio iniziò a parlare dicendo:- “io conosco il perché del crollo notturno di queste mura e saprei anche come bisognerebbe fare perché non accada più, ma ho timore di suggerirvi la soluzione perché so che commetterei un peccato”-
-“Il peccato ce lo assumiamo noi, vecchio saggio” – dissero i tre fratelli, ma aiutaci a terminare la costruzione di questo castello, siamo stanchi e affaticati e vorremmo portare a compimento questo lavoro” – Il vecchio allora parlò: -“Se volete che la fortezza rimanga eretta una volta per tutte, dovete prestare giuramento tra di voi di non dire nulla alle vostre mogli, di ciò che vi sto per proporvi”- I tre
fratelli giurarono di non raccontare nulla né alle proprie mogli e né all’anziana madre che abitava con loro. Allora il vecchio continuò: -“Una dalle tre mogli domani verrà a portarvi da mangiare quando il sole avrà toccato la metà del giorno, quale che sia la donna, dovrete murarla viva tra le pareti della costruzione. Questo sacrificio farà resistere il castello per ora e per sempre”. – Così detto, il vecchio saggio li salutò ed andò via!
Al calar della sera i tre fratelli fecero ritorno a casa tristi e spaventati per quello che avrebbe dovuta accadere il giorno seguente. Tutti e tre non volevano perdere la propria donna, ma non sapevano come fare per salvarla. Così il primo fratello ruppe il giuramento e raccomandò alla moglie di non essere lei a portare il pranzo all’indomani. Anche il secondo fratello ruppe il giuramento ed anche lui raccomandò alla moglie di non salire al castello il giorno dopo. Solo il terzo fratello non volle rompere il giuramento, convinto che anche i suoi fratelli avrebbero rispettato la parola data. Avevano giurato “besë” nelle mani di un vecchio saggio e nessuno poteva rompere un giuramento sulla parola senza perdere per sempre credibilità e buon nome! Pregò tutta la notte perché la sorte fosse benigna con lui e non fosse la propria amata a dover portare il pranzo su al castello. Sua moglie, una ragazza bella come il sole, gli aveva appena regalato un bambino e loro erano così innamorati e felici.
La mattina successiva i tre fratelli partirono all’alba per recarsi al lavoro e quando il sole salì sino alla metà del cielo, videro una figura femminile risalire la collina. Il fratello minore, quando si rese conto che si trattava della propria moglie, iniziò a maledire le pietre e le mura. –“Perché, maledici le pietre e le mura del castello, mio sposo?” – chiese la donna -“Oh, tu sei nata sfortunata, cognata nostra”, – disse il primo fratello - “serve un sacrificio e noi siamo costretti a murarti viva, perché solo così la fortezza che stiamo costruendo diventerà forte e possente e saprà meglio difendere la città di Scutari dagli invasori slavi ed ottomani” .- La giovane sposa impallidì ma con voce ferma rispose: -“E così sia cognati miei!” – se il mio sacrificio renderà protetta la città io non posso che accettarlo perché in questa città vivono la mia famiglia, il mio sposo e il mio bambino. Vorrei solo essere murata a metà, in modo da lasciare fuori dalle mura un occhio per vedere il mio piccino crescere, un braccio per accarezzarlo, un seno per allattarlo e una gamba per far dondolare la sua culla. Quando il mio piccolo non avrà più bisogno né del mio latte né di essere cullato vorrei che il mio seno, il mio occhio, il mio braccio e la mia gamba diventino pietre durissime a difesa della fortezza di Scutari.
I tre fratelli, stupiti e commossi da tanta forza d’animo, piansero a lungo, poi presero la donna e la murarono così come lei aveva chiesto. Ogni giorno le portavano suo figlio perché lei potesse allattarlo, vederlo, cullarlo e accarezzarlo. Poi man mano che i giorni passavano e il suo braccio diventava sempre più debole la sua gamba meno resistente e il suo occhio più velato, capirono che lentamente la donna stava morendo finché un giorno la vita abbandonò del tutto il suo giovane corpo. Solo dal suo seno continuò a scorrere il latte copiosamente e fintanto che il piccino ne ebbe bisogno. Quando anche il suo seno si spense, le mura divennero così forti che passarono i giorni, gli anni, i secoli e i millenni, ma la fortezza è ancora lì, sulla collina di Scutari a protezione della città e della popolazione perché quella fortezza ha le pietre legate dalla forza e dal coraggio della giovane madre murata viva, della quale porta ancora il nome: Rozafa».
Una leggenda più recente
«Nel mese di Novembre del 1944 in Albania, Scutari era l’ultima città che i tedeschi stavano abbandonando dirigendosi verso la Jugoslavia. Per proteggere la loro ritirata e per ostacolare gli alleati, i tedeschi avevano già distrutto altri ponti e minato gli ultimi due sul fiume Drin e sul fiume Buna, un magazzino di armi, l’arsenale e la centrale elettrica. Mia nonna mi diceva: “Si parla male degli italiani, ma sai, questa città esiste oggi, almeno come la vedi tu, grazie a due soldati italiani” e mi raccontò la storia di due soldati italiani che avevano salvato Scutari dall’esplosione, tagliando i fili delle mine installate dai tedeschi. Dei due soldati italiani uno di nome Aldo era stato poi catturato dai tedeschi e seppellito vivo, a testa in giù, in una fossa fatta scavare dagli stessi due soldati italiani. ( … ). Ogni volta che sentivo parlare dell’occupazione italiana in Albania mi veniva in mente il suo racconto. Spinto dalla curiosità ho fatto delle ricerche per trovare qualche notizia al riguardo; è stato tutto inutile. La mancanza di notizie e il passare del tempo hanno reso questo racconto quasi irreale: “un racconto della nonna” appunto». (tratto dall’ articolo di Gino Luka – ott. 2017 – Dossier Storia – Albania News ).
La storia vera
Dopo l’8 settembre 1943 il Regno Albanese sotto guida italiana, fu occupato dai tedeschi. In assenza di re Zog fu costituito un “Consiglio superiore della reggenza” con funzioni di governo provvisorio, ma i tedeschi in seguito favorirono l’istituzione di un governo retto da membri del movimento collaborazionista del Balli Kombëtar. I tedeschi confermarono il Regno nei massimi confini raggiunti durante il periodo dell’occupazione italiana: oltre all’odierna Albania, quindi, il Regno comprendeva anche buona parte del Kosovo, alcune regioni della Macedonia occidentale, la città serba di Tutin e una striscia di territorio nel Montenegro Orientale.
Il governo provvisorio proclamò unilateralmente l’Albania “Paese neutro”, citando l’analoga posizione tenuta all’epoca dall’Egitto (Stato indipendente e neutrale benché occupato dalle truppe britanniche e usato come base di operazioni dalle forze degli Alleati); questa distinzione era più formale che altro, e le forze armate del governo provvisorio collaborarono attivamente a fianco delle truppe tedesche nella repressione dei partigiani comunisti albanesi.
Nel Paese fu costituita nel 1944 la divisione delle Waffen SS 21. Waffen-Gebirgs-Division der SS “Skanderbeg”, così denominata in onore dell’eroe albanese Giorgio Castriota Scanderbeg, formata da collaborazionisti albanesi provenienti dall’Albania e dal Kosovo; la divisione fu impiegata nella lotta contro i partigiani albanesi e jugoslavi, ma si sciolse dopo poche settimane a causa delle numerose diserzioni, e quindi venne aggregata successivamente alla 7. SS-Freiwilligen-Gebirgs-Division “Prinz Eugen”.
Il Partito Fascista Albanese fu riorganizzato come Partito nazista albanese e indicato come titolare del controllo formale di tutta l’Albania e, dopo l’evacuazione dei reparti tedeschi e la presa della capitale Tirana da parte dei partigiani avvenuta il 29 novembre 1944, venne costituita la Repubblica Popolare d’Albania.
Il giornalista Gino Luka racconta (Albania News 7 Ottobre 2017), la propria appassionata ricerca di conferme storiche di quanto affermato da sua nonna, relativo all’atto di eroismo dei due giovani italiani, Bartolomeo ed Aldo. Un giorno lesse per caso due articoli in albanese che gettano luce sulla storia che i vecchi raccontavano. Il primo è un articolo di Riza Lahi, ex pilota nell’Aeronautica Militare, giornalista militare che ha lavorato presso l’OSCE – in Tirana, intitolato: “Due soldati italiani salvano Scutari dalla distruzione totale”; e sempre Riza Lahi intervista anche il Capo dei veterani LNCL di Scutari, Qemal Llazani (Movimento di Liberazione Nazionale). All’inizio dell’intervista il Sig. Llazani si lamenta poiché a Scutari mancano lapidi o monumenti che dovrebbero ricordare gli eroi italiani e dice che non è mai tardi per onorare il ricordo dei due giovani soldati italiani. Qemal Llazani racconta di essere stato nel campo di concentramento di Pristina, dove aveva avuto conferma, da alcuni testimoni, della veridicità di quanto narrato sui due italiani che, nella seconda guerra mondiale, salvarono Scutari dalla distruzione, i cui nomi erano Bartolomeo e Aldo. Qemal Llazani continua il suo racconto narrando lo svolgimento dei fatti:
«Tutto è successo alle ore 2.00 circa dopo la mezzanotte del 28 al 29 novembre 1944, quando l’ultima squadra tedesca partì. Eh… sì … in due grandi quartieri, al Livadhi i Sulçebegut, Perash e nel quartiere Skenderbeg, c’erano enormi quantità di munizioni tedesche. I tedeschi avevano intenzione di far saltare per aria i ponti di Shkodra, il Ponte di Buna e il Ponte di Bahçallek, quasi tutto l’esercito tedesco era partito, lasciando indietro solo gli esecutori del crimine mostruoso. Un plotone di militari in motociclette stava appiccando il fuoco alle micce ai punti, dove si trovavano i depositi di munizione, di cui ti ho appena raccontato. L’esplosione doveva diffondersi fino al punto di concentrazione principale di munizioni ed esplosivi, che di conseguenza avrebbero dovuto esplodere, per poi cancellare forse l’intera città. Le prime esplosioni sono state sentite in tutta Scutari, ma in seguito non si è sentito più niente. Meno male! Grazie a due italiani che disinnescarono le mine.
Questi due genieri erano prigionieri di guerra che prestavano servizio nell’esercito tedesco come specialisti, in genere nelle retrovie e senza armi. Non erano né partigiani né rifugiati. In un momento in cui una squadra di motociclisti ha appiccato il fuoco alle micce, entrambi questi due bravi soldati si sono precipitati a tagliarle. Hanno rischiato di rimanere uccisi da qualche proiettile vagante, dalle fiamme o dall’esplosione, ma è accaduto quello che forse essi non sarebbero stati capaci di immaginare. Gli aguzzini sono tornati indietro …, li hanno presi con le mani nel sacco. Uno è stato sepolto vivo a testa in giù, l’altro si dice che sia scappato dileguandosi nella notte e rifugiandosi rapidamente in una casa, dove si è messo in salvo da una famiglia albanese. Per esplodere, quegli ordigni avrebbero dovuto essere nuovamente riattivati e poi innescati, ma non c’era più tempo: gli esplosivi e i sistemi d’innesco erano stati danneggiati. Ci siamo interessati per conoscere i cognomi dei due soldati italiani. Anche il Consolato Italiano di Scutari è interessato, ma, per quanto ne so, nessuno sta riuscendo a rintracciare la provenienza dei due giovani, se hanno dei parenti, ecc. Saremmo onorati di poter contribuire a far conoscere la storia di questi eroi, figli del popolo italiano e del popolo albanese».
Oltre a queste testimonianze, ne esiste anche un’altra, anche se indiretta, quella del professor Ahmet Osia, docente di scienze agricole. Ahmet Osja racconta di una rapsodia, cantata da un contadino di Gur i Zi, scritta sulla scia del “Liuto delle Montagne” (Lahuta e Malcis di P. Gjergj Fishta, poema epico famoso in Albania), e tra quei versi essenziali e passionali emergono i nomi di entrambi gli eroi di Scutari: uno degli eroi si chiamava Bartolomeo e l’altro Aldo, ma i cognomi non li ricorda nessuno. A questa serie di testimonianze va aggiunta anche quella scritta a firma del Colonnello Sali Onuzi, che nelle sue memorie di guerra, sotto il titolo “Il 29 novembre 1944, giorno della liberazione dell’Albania dall’occupazione nazifascista”, scrive:
«Dopo la mezzanotte del 28 novembre 1944, dopo aver fatto saltare tutti i ponti prima di giungere in città e dopo aver minato l’arsenale al quartiere di Perash, i tedeschi tentarono di far saltare in aria anche altri edifici importanti. Una parte dei cittadini aveva abbandonato la città, altri aspettavano ansiosamente. Il piano dei nazisti di far saltare per aria gli edifici in parte fallisce perché due prigionieri italiani, costretti con altri militari a lavorare nell’installazione delle mine, dopo la partenza dei tedeschi tagliarono i principali collegamenti degli inneschi. Anche le unità guerrigliere hanno tolto le mine dal resto della rete minata. Così la fabbrica del cemento, la centrale elettrica e l’ospedale civile sono stati risparmiati.
Subito dopo un gruppo di militari tedeschi ritornò in città, riuscirono a catturare i due italiani, e li seppellirono vivi, uccidendo e ferendo allo stesso tempo anche alcuni altri cittadini di Scutari. Sino ad oggi, in assenza di documentazioni, confidiamo nella collaborazione di tutti. Tutti noi siamo debitori, così come i nostri genitori, perciò ci è sembrato doveroso rendere pubblico quello che sappiamo. Lasciate che il popolo sappia attraverso la stampa almeno una parte della verità; sono convinto che questo percorso ci porterà a una precisa identificazione dei gloriosi giovani italiani ai quali va tutta la gratitudine del popolo di Scutari. Il Comune di Scutari potrebbe e dovrebbe dimostrare la buona volontà di commemorare questi soldati dedicando loro un monumento. Un monumento del “soldato ignoto”, a ricordo dei caduti sui campi di battaglia, le cui spoglie sono rimaste insepolte o disperse. La consuetudine di onorare il ricordo di un militare morto in guerra e di cui non è stato possibile riconoscere l’identità è diffusa in diversi paesi del mondo ed esiste anche in Albania “Ushtari i panjohur”. Una tomba simbolica (cenotafio) dedicata alla memoria di tutti i caduti e i dispersi in tutte le guerre».
Da quest’ultima affermazione del Colonnello Sali Onuzi, ci arriva un segnale di considerazione e rispetto per tutti i militari che hanno perso la vita per servire la propria Patria, i propri ideali e il loro senso del dovere, che non termina con l’obbedire agli ordini ma prevede anche il correre rischi per salvare civili inermi da rappresaglie sconsiderate.
Dalla narrazione del coraggio di Bartolomeo ed Aldo, i cui cognomi forse non sapremo mai, è invece scaturito un mito di abnegazione tale che i loro nomi e il loro eroico atto a difesa della popolazione di Scutari, sono entrati a far parte delle gesta epiche, degne di essere trasmesse oralmente sull’aria cantata del “Lahuta e Malcis”, come raccontato da Ahmet Osja, attraverso la voce di un semplice contadino di Gur i Zi. Una ‘cantata’ che sa narrare, facendone emergere il valore attraverso versi essenziali e passionali, le gesta di Bartolomeo e Aldo, gli eroi italiani che, con il loro spirito di abnegazione messo in atto contro la furia distruttiva di una armata tedesca ormai allo sbaraglio, durante la notte tra il 28 e il 29 novembre 1944, salvarono la bella città di Scutari dalla distruzione.
Questa testimonianza emblematica, sembra voler restituire un senso compiuto a tutta la storia di interazioni, comprese quelle relazionali, affettive e drammatiche, tra il popolo albanese e quello italiano, avvenute sia in momenti storici passati che nei giorni nostri.
Perché, in fondo, tra i due popoli, quello italiano e quello albanese, c’è solo un braccio di mare da attraversare, circa una cinquantina di miglia nautiche, e le due coste, opposte tra loro, sono bagnate dalla stessa acqua del Mar Adriatico più volte attraversata da est verso occidente portando come bagaglio lingua e cultura albanese, e da ovest verso oriente, portando come bagaglio lingua e cultura italiana.