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Someone Christ, King of the Jews. La costruzione sociale della figura messianica e del fenomeno miracoloso nell’opera “Jesus Christ Superstar”

screenshot-filmdi Paolo Carera e Niccolò Martini 

Vi sono opere cinematografiche che risultano ancora più apprezzabili se affiancate ad un’analisi filologica di testi storici e da un approccio antropologico delle dinamiche sociali inscenate nel film. È il caso di Jesus Christ Superstar – diretto da Norman Jewison (1973) e tratto dall’omonimo musical debuttato a Broadway nel 1971, basato sulle composizioni musicali di Andrew Lloyd Webber e sui testi di Tim Rice – musical che, raccontando gli ultimi giorni di vita di Gesù, esplora temi relativi alla fede, al tradimento e alla lotta interiore del profeta, attraverso un’interpretazione audace e innovativa del Nazareno.

Si tratta di un’opera che offre possibilità di riflessione su tematiche identitarie, culturali, sociali e di tensione storica della Palestina del I secolo. In particolare, mettere a confronto l’analisi del film di Jewison con gli studi sulla nascita del cristianesimo consente di evidenziare come l’opera cinematografica esalti dinamiche analoghe al processo storico che ha condotto allo sviluppo dei movimenti protocristiani e delle prime comunità cristiane.

Nella prima parte dell’articolo, intrecciando il contesto narrativo rappresentato nell’opera di Jewison a studi di ambito filologico e antropologico, introdurremo le dinamiche sociali che si celano dietro all’attribuzione di carattere messianico alla figura di Gesù di Nazareth. Proponendo un’analisi che integra il contesto socioculturale alle riflessioni delle scienze storiche e religiose, si cercherà di delineare gli elementi con i quali è possibile indagare la nascita di una figura messianica nella Palestina del I secolo.

Nella seconda parte verrà approfondito il tema del miracolo, ponendo particolare attenzione ai processi di costruzione sociale che si celano al suo interno. A questo proposito si tenterà di farne emergere l’elemento logico, decostruendo quelle prospettive che tendono ad interpretare il fenomeno miracoloso come prodotto culturale irrazionale.

A livello metodologico, poiché l’opera Jesus Christ Superstar valorizza una particolare narrazione del miracolo centrata sulle dinamiche sociali a scapito di quelle prettamente religiose, l’analisi è stata condotta attraverso il supporto dei contributi teorici della letteratura antropologica, storica e filologica. L’intento dell’articolo è quello di fornire degli strumenti di riflessione atti ad ampliare le prospettive della rappresentazione cinematografica del tema miracoloso e della figura messianica.

da Jesus superstar

da Jesus Christ Superstar

1. “We called you a man” – La divinizzazione sociale di Jesus

L’opera, innervata dal periodo storico-politico-culturale di produzione e delle correnti hippie degli anni Settanta, si apre mettendo in scena un gruppo di attori che giunge nei pressi di rovine in zona desertica per allestire le vicende dell’ultima settimana di vita di Gesù di Nazareth mentre un membro si allontana dal gruppo. Questi è Judas [1] che, intonando da solista il primo brano del musical, si impegna ad esaltare il profilo prettamente umano di Jesus mentre avanza una forte critica nei confronti degli eventi sociali che hanno avuto un ruolo sulla sua presunta divinizzazione. Egli si presenta come l’unico seguace che ha realmente compreso quanto la narrazione relativa al messia sia ora fuori controllo: Jesus sembra essere interamente immerso nelle prospettive di chi lo circonda – un uomo che ha appena iniziato a condividere le narrazioni sociali create sulla sua figura: «Jesus! You’ve started to believe the things they say of you» – e né lui né i suoi seguaci appaiono coscienti dell’imminente degenerazione sociale.

Il film già dalle prime immagini delinea le successive rappresentazioni degli elementi miracolosi. Effettivamente, se le discipline antropologiche guardano al miracolo come un fenomeno culturale interpretato socialmente come il contatto tra un agente e il divino, il musical descrive un individuo che mai si è presentato come soggetto in grado di compiere azioni oltremondane, le quali gli sono state invece attribuite a livello sociale. Il soggetto agente sarebbe quindi la massa sociale che, immersa in un contesto di forte disagio socioculturale, ha solamente, utilizzando le parole di Judas: «Too much Heaven on their mind».

La rappresentazione del personaggio di Judas – peraltro, l’unico vestito in abiti porpora, colore utilizzato già in epoca tardoantica per raffigurare la santità e la regalità (Testini 1980; Deichmann 1993) – sembra riflettere il suo omonimo del Vangelo di Giuda, resoconto gnostico della vita di Gesù redatto dal punto di vista del suo traditore, nel quale Giuda Iscariota viene mostrato come il discepolo prediletto, l’unico in grado di comprendere appieno gli insegnamenti del maestro e che permise a quest’ultimo di tornare nel regno spirituale abbandonando il corpo materiale che temporaneamente aveva occupato (Zagrebelsky 2011).

Alla rappresentazione mondana di Jesus si affianca quella relativa alla funzione strettamente politica del suo profilo. A tale proposito è esemplare il brano di Simon Zaelotes, il quale esalta Jesus sia per la sua figura messianica, sia per lo spiccato potere politico che potrebbe esercitare nei confronti dell’occupazione romana in Palestina: «But add a touch of hate at Rome». Questa sezione pone in risalto il contesto di spaesamento identitario per il quale la popolazione palestinese si trovava in un diffuso clima di attesa messianica e resistenza all’oppressione politico-culturale romana (Ehrman 2015), incertezza che nel film esorta le persone a seguire Jesus. La performance artistica che accompagna la canzone mette in scena una moltitudine di danzatori tesi ad evidenziare come essi abbiano scelto volontariamente di seguirlo, ma cantando aspettative e insegnamenti non pronunciati dal profeta.

gustavo-zagrebelsky-giuda-il-tradimento-fedeleIl personaggio di Jesus appare quindi in una condizione di passiva subalternità nei confronti delle masse sociali. Il primo frangente in cui sembra prendere consapevolezza di quanto la fede del popolo sia deviata rispetto ai suoi insegnamenti viene inscenato all’ingresso a Gerusalemme, quando al canto corale di: «Hey J.C., J.C., would you die for me?» l’inquadratura si stringe sul suo cupo cambio di espressione. Il volto di Jesus tradisce il suo timore per la morte, elemento che esalta con rilevanza l’aspetto umano a scapito di quello divino. Aspetto terreno che viene sottolineato con maggior risalto, a seguito della Purificazione del Tempio, all’incontro con il gruppo di malati richiedenti l’intervento taumaturgico del profeta. La folla, mossa da pettegolezzi (Hannertz 1992), chiede di essere curata secondo una modalità che con Frazer (2012) è stata definita come magico contagiosa: i malati chiedono che Jesus li tocchi o li baci così da ottenere cura e sollievo, ma qui il profeta non è in grado né di agire per vie oltremondane, né può curare gli individui. Di fronte alle richieste della folla, Jesus si rivela impotente: «There’s too many of you… Don’t push me. / There’s too little of me… Don’t crowd me. / Leave me alone!».

La trasposizione cinematografica rappresenta la completa assenza tangibile della componente miracolosa nel profilo di Jesus, ponendo invece l’accento sulla natura sociale del fenomeno. Nell’opera viene raffigurato un uomo comune le cui qualità divine sono attribuite da gruppi disorientati in cerca di coordinate culturali con cui dare senso al mondo. Tale spaesamento culturale emerge con risalto proprio con i malati bisognosi, i quali si distinguono come individui a cui sono venuti meno quei riferimenti culturali che danno concretezza attiva alla loro presenza sociale. Per questi individui la malattia avrebbe minato la loro capacità di esserci nel mondo e da qui deriverebbe la necessità di definire nuovamente il significato dell’esistenza attraverso l’intervento di un soggetto che, nonostante si presenti come un individuo mondano, a livello sociale si crede possa ripristinare quelle coordinate di senso ora perdute. Ancora una volta, è il discorso sociale ad attribuire significati ad un profeta che, come Mary Magdalene sottolinea: «He’s a man. He’s just a man».

Mentre la collettività esprime incondizionatamente la propria devozione, Judas appare l’unico individuo consapevole delle imminenti ripercussioni sociali e, nel desiderio di mettere un freno alla crescente intensità dell’irruenza, si rivolge al sinedrio per richiedere la cattura del profeta, azione che però verrà intesa come atto di tradimento. In questo contesto, diviene interessante affiancare la figura di Judas del film con quella di Giuda delle fonti letterarie. Se il tradimento di Giuda è un atto quasi certamente avvenuto, poiché secondo diversi autori rappresenta un atto che un cristiano difficilmente avrebbe ideato (Ehrman 2015: 201-202), le sue motivazioni rimangono invece ignote: alcuni racconti lasciano intendere che lo fece per soldi (Mt 26,14-15; Gv 12,4-6) ma essendo «trenta monete d’argento» un riferimento al compimento di una profezia veterotestamentaria (Zc 11,12-13), potrebbe non essere attendibile (Zagrebelsky 2011; Ehrman 2015). In ogni caso, rimanendo una figura chiave per lo svolgimento della Passione presenta importanti ripercussioni sul piano teologico (Zagrebelsky 2011).

9788839920256La dimensione squisitamente umana di Jesus viene sottolineata nuovamente durante l’ultima notte, quando la preghiera solitaria viene rivolta direttamente al dio cristiano chiedendo il perché del suo destino («I’d want to know, my Lord»; «You’re far too keen on where and how but not so hot on why»), se morendo diverrà maggiormente noto che in vita («Would I be more noticed than I ever was before?») o se avrà una ricompensa («If I die what will be my reward?»). Mentre l’atto di fede non dovrebbe esigere spiegazioni, qui Jesus desidera che gli venga mostrato lo scopo delle sue fatiche («Can You show me now, that I would not killed in vain?»; «Show me there’s a reason for Your wanting me to die») e solo al termine della scena egli accetta di morire, chiedendo però che avvenga istantaneamente così da scongiurare ripensamenti («Take me now, before I change my mind»). Nello sviluppo di queste scene, il film riprende il filone narrativo del Vangelo attribuito a Marco, secondo cui Gesù stesso nutriva dubbi sulle risoluzione del suo operato: nel Giardino di Getsemani prega tre volte di non subire il supplizio imminente ma Dio rimane in silenzio (Mt 14,26-42); viene abbandonato dai suoi seguaci (Mt 14,66-72); è condannato dai suoi sacerdoti (Mt 14,53-65); viene rifiutato dal suo popolo (Mt 15,8-15); è oggetto di pubblica umiliazione prima (Mt 15,16-19) e durante la crocifissione (Mt 15, 31-32) soffre il supplizio in silenzio sino al grido: «Eloì, Eloì, lamà sabactani?» (Mt 15,34). La narrazione della Passione dell’autore del Vangelo di Marco descrive un Gesù come il figlio di Dio sofferente, le cui emozioni tipicamente umane sono integralmente riscontrabili anche nell’opera di Jewison.

L’ultima scena in cui si sottolinea la dimensione umana di Jesus è quella raffigurante l’incontro tra il profeta e Herod. Questi, incuriosito dai pettegolezzi giunti al suo orecchio («You’ve been getting quite a name all around the place»), a più riprese chiede che gli vengano mostrati degli atti miracolosi («Prove to me that you’re divine; change my water into wine / Prove to me that you’re no fool; walk across my swimming pool / I’m dying to be shown that you are not just any man / Feed my household with this bread»). Jesus non solo non è in grado di dimostrare l’aspetto divino a lui attribuito, ma rimane inerte fino alla sua cacciata e infine alla crocifissione.

L’opera fino alla sua conclusione racconta la storia di un uomo vittima dell’immaginario divino attribuitogli, succube di un potere miracoloso che in realtà non possiede e che lo porta ad essere condannato. È dunque evidente la centralità del miracolo all’interno di Jesus Christ Superstar, un fenomeno sociale piuttosto che soprannaturale, che nella sua presenza/assenza ha contribuito a plasmare gli eventi storici e gli immaginari che da esso ne sono derivati.

da Jesus Christ Superstar

da Jesus Christ Superstar

1.2. “Prove me that you are divine” – La religione su Jesus

Affiancare l’analisi del film di Jewison agli studi sulla nascita del cristianesimo permette di rilevare quanto l’opera cinematografica presenti dinamiche parallele al percorso storico che ha portato alla formazione dei movimenti protocristiani e delle prime comunità cristiane. Centrale in questa riflessione è l’idea del cristianesimo come la religione su Gesù: esattamente come i primi seguaci iniziarono a modellare le coordinate del neonato movimento cristiano reinterpretando gli insegnamenti dopo la morte del maestro, nel film di Jewison è il piano sociale a generare prospettiva su Jesus. Qui, il profeta non appare come attore sociale attivo nel processo di costruzione del movimento religioso, il quale è invece interamente modellato dalla massa sociale che proietta le proprie necessità su un Jesus ancora in vita. Nel film rimane quindi costante l’immagine del rabbino come uomo in balia delle correnti sociali che sferzano la sua figura in direzioni non premeditate, dinamiche che porteranno all’edificazione di un nuovo movimento religioso basato su di lui.

Jesus viene rappresentato come un profeta soggiogato da problematiche personali contemporanee e di matrice occidentale, mentre le sue azioni assumono tono rilevante solo nel momento in cui non pare in grado di compiere miracoli. Il discorso sociale avrebbe quindi proiettato su di lui delle aspettative irrealizzabili, ragion per cui sarebbe possibile affermare che lo status sociale di Jesus non corrisponda al suo ruolo. Qui, diviene curioso notare come tale conferimento di aspettative non venga attribuito a seguito della morte del profeta, ma già nel corso della sua predicazione: nonostante Jesus non abbia mai dato parvenza di poter compiere atti miracolosi, il popolo rimane convinto che possa concretizzarli. L’ambito del miracolo viene quindi presentato come un fenomeno culturalmente connotato da un’alta permeabilità sociale, che però sfugge al controllo del profeta e dilaga nelle trame del sociale.

Nella Palestina del I secolo, l’evento miracoloso rappresentava un elemento socialmente diffuso e a molti individui venivano attribuiti compimenti miracolosi. Per mezzo di testimonianze giunte fino a noi siamo a conoscenza di numerosi altri individui che si diceva avessero guarito malati, predetto il futuro, scacciato demoni, risuscitato morti e che fossero stati assunti in cielo al termine della loro vita, tra questi spiccano Apollonio di Tiana, Honi Hameaggel e Hanina ben Dosa (Ehrman 2015). Ciò che intendiamo sottolineare è che chi avesse definito Gesù come un rabbino ebreo in grado di compiere miracoli sarebbe stato compreso da chiunque. 

da Jesus Christ Superstar

da Jesus Christ Superstar

2. “While you live, your troubles are many, poor Jerusalem” – L’indeterminatezza culturale e il fenomeno del miracolo nella Palestina del I secolo

Abbiamo evidenziato come nel film emerga un Jesus uomo al quale viene attribuita natura divina dal contesto sociale in cui è immerso e in che modo il miracolo, nella sua presenza narrativa e assenza empirica, abbia giocato un ruolo centrale all’interno dei processi sociali. Il termine miracolo deriva dal latino miracŭlum, “cosa meravigliosa”, vocabolo che a sua volta deriva da mirari, “ammirare”, “meravigliarsi”. Già dalla sua definizione si nota quanto sia centrale il carattere collettivo del miracolo: deve meravigliare, stupire e avvenire in contesto pubblico. I miracoli che vennero attribuiti a Gesù erano ricchi di testimoni, presentavano un riconoscimento sociale quanto più ampi erano i segni che il fenomeno lasciava nell’esperienza del popolo e – grazie alla costruzione cristiana successiva – furono impiegati per l’attribuzione dello statuto divino (Tabacco 1997).

Dal contesto storico-sociale in cui Gesù si sarebbe formato emerge un forte disagio di matrice culturale e la tendenza ad enfatizzare la propria appartenenza al popolo giudaico si affianca alla necessità di ripensare la propria organizzazione identitaria e culturale. Gesù stesso agì in seno alle coordinate culturali giudaiche ridefinendone i termini, aspetto importante da considerare per la comprensione degli elementi della sua predicazione, tra cui spicca quello del miracolo.

Nonostante poco sia noto sulla vita del Gesù storico [2], grazie ad una serie di studi dedicati al tema, è ipotizzabile che il contesto di interdipendenza tra gli insediamenti ellenici e giudaici della Palestina del I secolo abbia contribuito alla formazione della sua persona. Gesù sarebbe vissuto in un contesto connotato da opposizioni giudaiche ed elleniche, in cui diviene possibile analizzare la sua predicazione attraverso la prospettiva dell’indeterminatezza culturale e identitaria (Theissen, Merz 1999). La popolazione palestinese venne a contatto con una grande forma di alterità culturale, di cui l’ambito religioso emerge come quello maggiormente differenziato. «Fra tutte le religioni del mondo greco-romano, è ragionevole pensare che il giudaismo sia quella che più ci aiuta a capire Gesù e i suoi primi seguaci» [3], nonché potrebbe favorire la comprensione, a nostro avviso, del contesto sociale che ha permesso la diffusione del concetto di miracolo.

9788858108956Gesù nacque in un ambiente culturale giudaico, era ebreo, conosceva le Scritture giudaiche, venerava il dio degli ebrei, seguiva usanze ebraiche e predicava a folle di ebrei (Conzelmann 1976). Di conseguenza, non appare indiscreto pensare – considerando il profilo fluido del processo identitario, la cui genesi avviene tramite l’incontro con differenti visioni del gruppo sociale (Remotti 2001) – come un simile incontro abbia rappresentato un fertile terreno per il ripensamento interno quanto ad una demarcazione con l’esterno. Nel medesimo periodo, a seguito del diffuso senso di ingiustizia e sofferenza, sorsero innumerevoli ideologie di inclinazione messianica, movimenti di resistenza all’oppressione politico-culturale romana (Ehrman 2015). La popolazione palestinese si trovava in un diffuso clima di attesa di una concretizzazione di prospettive politiche e religiose. Nel corso del primo secolo, all’appellativo di messia erano attribuite concezioni di grandezza e potere: per alcuni designava il futuro re di Israele, che avrebbe liberato il popolo dagli oppressori; per altri indicava un liberatore cosmico venuto dal cielo (Ibidem).

Le azioni di Gesù rispecchiano scelte di ordine culturale, un profilo identitario e un atto di demarcazione sociale declinato dalle più ampie varianti storiche, politiche e culturali. La sola adozione del concetto di miracolo è indice di una scelta tramite cui definire la legittimità di un evento oltremondano. Qui, diviene interessante affiancare le analisi dell’antropologia italiana per evidenziare come una popolazione autoctona abbia edificato la propria appartenenza etnica nei confronti di un mondo culturale straniero e dominante. Se il miracolo, in quanto prodotto culturale, risponde a criteri di organizzazione sociale e di articolazione del pensiero volto alla classificazione e al raggruppamento (Durkheim, Mauss 1903) ed essendo il mondo un ambiente complesso, l’interpretazione dell’uomo sarà costantemente tesa alla decomplessificazione e all’attribuzione di significato alle esperienze. Secondo Remotti (1996), ciò che caratterizza le dinamiche di antropopoiesi è un impoverimento delle altre possibilità di completamento, ma che permette all’essere umano di porsi in essere in un contesto particolare a discapito di altri, i quali diventeranno forme di alterità. Secondo questa prospettiva, quel che avvenne per mezzo delle azioni di Gesù fu una edificazione identitaria a seguito di un contatto con un’alterità (Remotti 2010). 

da Jesus Christ Superstar

da Jesus Christ Superstar

2.1 “I believe you can make me well” – Ontologia culturale del miracolo 

Ma in fondo che cos’è un miracolo? Non è forse un qualcosa che definito grazie ad un collegamento con una realtà soprannaturale? Allora, in questo, non è simile alla magia? Come può il popolo continuare a credervi anche senza delle prove empiriche della sua efficacia? Come si diffonde all’interno di una società una simile credenza?

Questi interrogativi spingono a riflettere sullo statuto socio-ontologico del miracolo in quanto frutto di precise scelte culturali:credere nel miracolo significa innanzitutto attribuirgli un determinato valore. Adottando la visione weberiana dell’uomo come animale intrappolato in reti di significato intessute da egli stesso – con l’intento di carpire tali significati culturali, considerati da Geertz (2007) un “documento agito” – il miracolo appare come epicentro fondamentale per l’analisi sociale del protocristianesimo, poiché costituisce un nodo cardine nelle reti di significato che particolari gruppi sociali hanno iniziato a tessere a seguito della morte di Gesù. La creazione di un canone scritto al cui interno si manifesta il miracolo porta all’attuazione di un determinato tipo di scelta culturale che delimita il confine tra ciò che è considerato miracolo e ciò che è magia, producendo di conseguenza un’identità collettiva in cui riconoscersi e un’alterità da cui differenziarsi.

Molto spesso, quando l’analisi scientifica si accosta a tematiche soprannaturali relative ad epoche passate, vi è il rischio che queste vengano interpretate come semplici superstizioni o finzioni culturali. A causa dell’Illuminismo e della sua influenza sulle moderne concezioni di progresso e razionalismo scientifico – idee che continuano a permeare il pensiero occidentale riguardo a tematiche sociali e individuali – vi è tutt’oggi la tendenza diffusa a pensare le società del passato nella cornice del regresso. Eppure, adottando delle prospettive estranee al contesto di riferimento, non sarà possibile avvicinarsi alla comprensione delle società studiate, siano esse del passato o del presente. Interrogarsi sulla veridicità dell’atto del miracolo potrebbe essere quindi fuorviante e ciò da cui, invece, sarebbe necessario partire è la consapevolezza che, nel contesto sociale della Palestina del I secolo, non solo veniva attribuita concreta autenticità al fenomeno miracoloso ma contribuiva a creare legami sociali attorno ai nuovi movimenti religiosi.

stregoneria-oracoli-e-magia-tra-gli-azande-798Per comprendere i processi sociali che si celano dietro all’ontologia del miracolo nella Palestina al tempo di Gesù può essere utile riflettere per analogia su un sistema di credenze che presenta un simile percorso storico: la scienza occidentale. Secondo Francesco Remotti – tirando le somme delle indagini antropologiche della scienza occidentale a partire dai pionieristici contributi di Durkheim e Mauss (1903), seguiti da Evans-Pritchard (2002) e Lévi-Strauss (1966) – la scienza occidentale sarebbe stata fondata attraverso le medesime dinamiche che hanno permesso la teorizzazione della magia e del miracolo (Remotti 2013). L’antropologo piemontese fa notare come nessun sistema umano crei un apparato di credenze a cui affidarsi se non ne ritiene valida la concretezza: i più vari sistemi antropici mettono in atto costruzioni culturali non con il pensiero della fallacia delle stesse, ma nell’intento di dare senso al mondo.

La scienza occidentale è nata tramite la stessa spinta esplicativa e rappresenta il frutto del desiderio di comprensione della realtà che circonda gli esseri umani. Ogni società produce un sistema conoscitivo che riflette i propri interessi e tale sistema viene costituito in modo specifico e particolare. Citando Lévi-Strauss, è essenziale tenere a mente che «both science and magic however require the same sort of mental operations and they differ not so much in kind as in the different types of phenomena to which they are applied» [4].

Una volta creato un sistema esplicativo, la società lo dota di un meccanismo di autoconservazione che gli permette di resistere a ciò che potrebbe minarne le fondamenta; in questo modo viene mantenuta una sorta di entropia culturale che partecipa alla produzione e reiterazione dell’identità collettiva. Vengono così costruiti dei confini in cui gli individui e il gruppo possono riconoscersi, poiché, usando le parole di Assman: «io sono una persona solo nella misura in cui mi conosco come tale; allo stesso modo, un gruppo è ‘tribù’, ‘popolo’ o ‘nazione’ solo nella misura in cui esso comprende, presenta e rappresenta se stesso nel quadro di tali concetti» [5]. Naturalizzando la propria particolare forma di umanità (Remotti 2002; 2013), l’essere umano diviene soggetto della propria creazione, rivelandosi prodotto del suo prodotto stesso.

L’uomo sarebbe quindi eternamente inibito da un imperativo ma inadeguato biologico, che spinge alla creazione di un mondo stabile mediante uno specifico, ma labile, apparato culturale [6] (Geertz 2007). La fede nel miracolo costituirebbe una risposta fondamentale a questa situazione garantendo, per mezzo del suo impiego intellettuale, una legittimazione dell’ordine sociale (Dawson 2005, 41-46). Così come la scienza occidentale ha creato un sistema all’interno del quale trova la propria validazione, allo stesso modo sarebbe avvenuto con la credenza del miracolo. Qui, emerge nuovamente la necessità di pensare al miracolo non come ad una superstizione, ma come ad un differente sistema di comprensione del mondo, delle circostanze sociali e degli avvenimenti.

Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, all’epoca di Gesù la spiegazione demonologica della realtà era ampiamente diffusa e l’atto miracoloso, facendo capo ad un sistema di credenza condiviso che ammette l’interferenza del soprannaturale nel quotidiano, rappresentava un fatto culturalmente accettato. A questo punto ci si può interrogare sul perché questo metodo sia stato preferito e si sia diffuso. Per guidare la riflessione, il lavoro svolto da Evans-Pritchard tra gli Azande del Sudan meridionale (Evans-Pritchard 2002) – nel quale si interessa dei motivi che portano ad invocare la stregoneria in caso di ferimento di persone a seguito del crollo di granai – fornisce un valido punto di partenza.

L’antropologo britannico fa notare come gli Azande siano consapevoli che il cedimento delle strutture portanti dei granai sia imputabile all’opera delle termiti del legno. Eppure, ciò a cui ambiscono è spiegare le motivazioni che hanno portato il ferimento di una precisa persona, in un particolare momento attraverso il crollo di un determinato granaio. Per rispondere a tale necessità conoscitiva, gli Azande fanno riferimento al sistema esplicativo che va sotto il nome di stregoneria. Per tali ragioni, la stregoneria Zande non andrebbe intesa come un qualcosa di primitivo, ma come un prodotto culturale volto ad indagare e organizzare la realtà. In questo non si differenzia dalla scienza occidentale, il processo è lo stesso ma cambia la domanda che stimola la creazione: la scienza cerca di capire come accadono i fenomeni, la stregoneria Zande si concentra sulle motivazioni.

archeologia-cristiana1993Il miracolo in quanto prodotto culturale riflette dunque lo stesso tipo di processo cognitivo, si potrebbe sostenere che la domanda di partenza è: chi opera per mano del dio cristiano? Il miracolo assume dunque una valenza conoscitiva squisitamente culturale e, riflettendo determinati desideri di indagine del reale tipici di una società, possiede il potere di diffondersi e di autoconservarsi in essa. In tal senso, la diffusione del miracolo nelle comunità protocristiane e la propagazione della stregoneria tra gli Azande richiamano analoghi processi conoscitivi di indagine del sociale.

Ma quali sono le forze che permettono ad una credenza culturalmente prodotta di avere presa su una società? Per rispondere a questo quesito può tornare utile il lavoro di Ernesto de Martino dedicato al tema della magia nell’area rurale della Basilicata degli anni ‘50. Secondo l’etnologo, la cultura risponde ad un desiderio di messa in ordine, una sorta di «demiurgia della cultura» (De Martino 1982), ma non in termini materiali, bensì di tipo strettamente psicologico.

L’analisi di de Martino mette in luce come i rimedi magici lucani, nonostante non ottengano dei risultati tangibili sul piano materiale e i rituali non si concludano con l’effettiva guarigione del malato, abbiano la facoltà di alleviare la psiche umana dalla quotidiana «potenza del negativo» (ibidem) e che, in tal modo, dissociandosi dal piano della realtà empiricamente esperibile, presentino un effettivo impatto per le persone che vi credono. La credenza magica presenterebbe quindi la concretizzazione di un’efficacia simbolica che opera sulla capacità di elaborazione dei singoli attraverso un riconoscimento sociale collettivamente condiviso, atto a far fronte alla «crisi della presenza»  – intesa come quella particolare esperienza in cui il senso del mondo cessa di essere naturalizzato e diviene problematico – che de Martino (2013) ha teorizzato analizzando il tarantismo pugliese: non essendo in grado di agire nella storia e facendo appello ad un livello magico-rituale, la pratica magica agisce a livello di meta-storia.

Diviene qui interessante far dialogare la pratica della magia lucana e la credenza nel miracolo per evidenziare come queste rappresentazioni siano delle risposte a specifiche contingenze – distinte nelle circostanze e distanti nel tempo – di crisi socioculturale. Come abbiamo già evidenziato, la situazione sociale contemporanea a Gesù aveva ampiamente posto le basi per creare una diffusa crisi della presenza collettiva, sia dal punto di vista individuale, sia da quello politico. L’Impero Romano aveva annesso al proprio dominio il territorio giudaico e, a seguito del processo di ellenizzazione imposto da Erode I, proliferarono numerosi dissidenti politici e predicatori. Chiaramente, non si vuole privare il miracolo del suo spessore concettuale sostenendo che si sia diffuso esclusivamente come resistenza ad una generale situazione di malessere. Il miracolo in quanto prodotto culturale è nato ben prima della conquista romana ed è frutto della cultura giudaica. In questa sede desideriamo evidenziare uno degli aspetti della diffusione di tale fenomeno: la crisi della presenza collettiva non basta a spiegare la fede nel miracolo, tuttavia rappresenta un ottimo concetto per comprendere le circostanze sociali tramite le quali gli individui si avvicinavano a tale fenomeno culturale e come questo ha contribuito alla creazione di un legame sociale.

Fondamentale per le riflessioni qui proposte è evidenziare quanto il miracolo fosse considerato, al tempo di Gesù, un fenomeno socialmente rilevante: «quello che è interessante è che le nostre fonti più antiche non interpretavano queste attività come segni della divinità di Gesù. Si trattava del genere di cose che i profeti giudei facevano. Gesù le faceva meglio di chiunque altro» [7]. 

erman2.2 “Will you touch, will you mend me, Christ?” – La sociogenesi del miracolo di Jesus

Il miracolo ha giocato un ruolo importante nella strutturazione identitaria del cristianesimo e continua a esercitare nei credenti un’affascinante influenza ancora oggi. A questo proposito, risulta ancora più interessante il ruolo del miracolo all’interno di Jesus Christ Superstar, poiché, come abbiamo visto, ne evidenzia il carattere squisitamente umano e sociale a scapito del divino.

Uno degli elementi più distintivi del film è la rappresentazione delle masse sociali secondo delle prospettive ambigue. Se da un lato, queste si distinguono come gruppi attivi e creativi nel processo di produzione immaginifica e culturale, presentandosi come manipolatori – anche opprimenti – degli insegnamenti di Jesus e proiettando particolari visioni sul profeta e sul movimento religioso stesso; dall’altro, vengono presentati come gruppi privi di agency – come nel caso di Simon Zealotes in Poor Jerusalem – quando si limitano a ripetere ciò che un particolare individuo ha appena affermato. Questa scelta cinematografica basata sulla dialettica tra il piano sociale del popolo e il piano individuale del profeta sembra riflettere, per certi versi, il percorso storico che ha portato il cristianesimo a strutturarsi come religione basata non tanto sugli insegnamenti di Gesù, quanto sulla sua morte e risurrezione (Conzelmann 1976). Naturalmente, le coordinate religiose cristiane non si sarebbero mai generate indipendentemente dalla presenza di Gesù, ma al contempo se quest’ultimo – come sembra – fosse stato un profeta apocalittico, il cristianesimo sviluppatosi a seguito della sua morte costituirebbe una religione differente dai suoi insegnamenti: «il cristianesimo non è tanto la religione di Gesù (ossia la religione proclamata da Gesù), quanto la religione su Gesù (ossia la religione basata sulla sua morte e resurrezione)» [8].

In questo processo storico di elaborazione culturale, l’interpretazione sociale della figura di Gesù e del messia ebbe un ruolo nodale. Gesù non avendo rovesciato l’oppressione politica, non si conformava alle visioni che guardavano al messia come una figura che avrebbe condotto il popolo di Israele al superamento delle ingiustizie: prima della diffusione della fede in Gesù, non vi era credenza nel fatto che il messia avrebbe dovuto soffrire, morire per i peccati dell’umanità e in seguito tornare nel mondo. I primi credenti nel profeta iniziarono ad interpretare dei passi nella Bibbia ebraica – tra cui Sal 22; 35; 69 –, in cui un uomo giusto avrebbe sofferto per mano dei nemici di Dio e da Dio sarebbe stato vendicato, come prefigurazione delle sofferenze di Gesù. Ancora più significativi divennero alcuni passi del profeta Isaia in cui un servo di Dio sarebbe andato incontro ad un atroce destino, sarebbe stato disprezzato e rifiutato (Is 53,3), percosso e ferito (Is 53,4-5), oppresso e afflitto; avrebbe sofferto in silenzio e sarebbe stato ucciso (Is 53,7-8) per riscattare i peccati del suo popolo (Is 53,4-5). Per gli storici il cristianesimo avrebbe quindi avuto inizio dopo la morte di Gesù, non con la sua risurrezione ma con la fede nella sua resurrezione (Ehrman 2015).

Nel film di Jesus Christ Superstar gli insegnamenti del profeta vengono già modellati prima della morte del maestro, questa scelta sembra voler sottolineare con maggior vigore il protagonismo proattivo del piano sociale nel processo di elaborazione culturale del movimento religioso. Sarebbe quindi la massa sociale a definire il movimento religioso sulla base delle proprie necessità o ambizioni, determinate a loro volta dalle circostanze politico-sociali della Palestina del I secolo. Secondo questa prospettiva, il reale protagonista del musical non sarebbe il profeta ma il contesto sociale, declinato di volta in volta in singoli individui, gruppi ristretti o folle di persone. Valorizzando la componente sociale presente nella pellicola, emerge pertanto una scelta cinematografica analoga al percorso storico che, per mezzo delle prime rielaborazioni sociali di stampo religioso, ha condotto all’affermazione delle prime comunità protocristiane.

51hot7ikotl-_ac_uf10001000_ql80_Conclusioni

Nei paragrafi precedenti è stato evidenziato come il film di Jesus Christ Superstar consenta ampi spunti di riflessione su questioni culturali, sociali e identitarie e sulle tensioni storiche avvenute nella Palestina nel I secolo. In particolare, il confronto tra il film di Jewison e gli studi sulla genesi del cristianesimo ha permesso di mettere in luce come la pellicola rappresenti dinamiche speculari a quelle che hanno dato vita al concetto di miracolo come strumento di rete sociale, determinando a loro volta il processo storico di formazione delle comunità protocristiane.

Il nostro intento è stato quello di ampliare i punti di vista, le prospettive e le interpretazioni della rappresentazione del fenomeno miracoloso, attraverso i contributi dell’analisi antropologica e dello studio filologico/esegetico delle fonti testamentarie applicati al musical Jesus Christ Superstar, nella speranza di fornire utili strumenti di riflessione da poter applicare anche ad altri contesti.

Attraverso la cornice narrativa dell’opera di Jewison abbiamo visto il ruolo centrale giocato dall’aspettativa sociale nella costruzione della figura messianica. La rappresentazione di Gesù che è stata proposta nell’opera delinea un individuo intrappolato nelle reti di significato che gli sono attribuite, vittima di aspettative di cui non ha controllo. All’interno di questa narrazione abbiamo visto emergere in modo preponderante il fenomeno miracoloso, il quale, se ricondotto al contesto storico, culturale e politico di iscrizione, si manifesta nella sua componente razionale e logica. 

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025 
Note
[1] Per agevolare la lettura, abbiamo deciso di utilizzare i nomi inglesi per differenziare i personaggi dell’opera cinematografica da quelli storici e neotestamentari, riportati invece in italiano.
[2] Della sua vita precedente all’operato pubblico ad essere conosciuto è molto poco e i Vangeli del Nuovo Testamento costituiscono la fonte principale per la ricostruzione della sua storia. In realtà, non si possiede alcun materiale estraneo al Nuovo Testamento che possa favorire la ricostruzione dei detti e dei fatti di Gesù: il suo nome non appare in fonti romane fino al 115 e.v e quella di Giuseppe Flavio rappresenta l’unica fonte ebraica del I secolo in cui il profeta viene menzionato. L’esistenza di altri Vangeli cristiani su Gesù, noti come apocrifi, non offrono particolare aiuto nel far luce sulla sua vita poiché furono scritti molto tempo dopo la sua morte e contengono materiale inquinato. Inoltre, i riferimenti alle azioni e alle parole di Gesù sono limitati sia in Paolo, sia negli altri autori del Nuovo Testamento, più interessati alla resurrezione che alla vita del profeta. Nella ricostruzione della vita di Gesù, è quindi necessario basarsi sui Vangeli attribuiti a Marco, Matteo, Luca e Giovanni, i quali però non vennero redatti per offrire informazioni biografiche sul profeta e furono scritti decenni dopo gli avvenimenti narrati, da autori che non furono testimoni oculari e riportarono i testi in una lingua diversa da quella di Gesù, basandosi su tradizioni circolate oralmente per molto tempo (Conzelmann 1976; Ehrman 2015).
[3] Ehrman B. D. (2015), Il Nuovo Testamento. Un’introduzione, Carocci, Roma: 49.
[4] Lévi-Strauss C., 1966, The Savage Mind, Weidenfeld and Nicolson, Weidenfeld & Nicolson, London.
[5] Assmann J., 1997, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi Editore, Torino.
[6] La mancanza di consapevolezza di questo processo deriva in larga misura dal fatto che la creatività in questione è un’impresa collettiva: la costruzione del mondo, infatti, si realizza in un processo sociale così complesso e dispersivo da impedire la comprensione immediata da parte degli individui.
[7] Ehrman B. D., (2015), Il Nuovo Testamento. Un’introduzione, Carocci, Roma: 224.
[8] Ivi: 239. 
Riferimenti bibliografici
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Paolo Carera, laureato magistrale in Antropologia culturale ed etnologia, specializzato nell’ambito dell’antropologia alpina. Membro fondatore del Festival dell’Antropologia – Bologna, ha partecipato a progetti di ricerca Spin-Off in Emilia-Romagna in strutture di riabilitazione. Attualmente è cultore della materia e membro delle commissioni d’esame per il per il settore scientifico disciplinare M-DEA/01 presso l’Università degli studi di Bergamo. 
Niccolò Martini, laureato magistrale in Antropologia culturale ed etnologia, specializzato nell’ambito dell’antropologia medica. Le sue ricerche si focalizzano principalmente sull’analisi dello spazio culturale della morte volontaria in Italia attraverso lo studio del fine vita medicalmente assistito. Tra le sue pubblicazioni: Martini N., 2022, Effige della mortalità. Analisi dello spazio culturale dell’eutanasia attraverso la prospettiva dei medici dell’Emilia-Romagna. AM. Rivista Della Società Italiana Di Antropologia Medica, 22(52).

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