omaggio a Guatelli
di Monica Citti e Sandra Ferracuti
Era il 1994 quando, nel quinto numero del periodico “Ossimori”, veniva pubblicato uno scritto di Ettore Guatelli, Museo e discarica [1], nel quale Ettore anticipava la necessità, oggi trasformatasi in emergenza, di riflettere sul tema degli scarti, dei rifiuti, mosso da una visione del recupero e del riciclo che faceva della discarica uno spazio e al contempo uno strumento di democrazia della storia.
Ettore Guatelli ci ha donato non semplicemente un museo ma un mondo e, con esso, la possibilità di reimparare ad osservare ponendosi in ascolto, e lo ha fatto lasciando parlare oggetti manipolati e ripensati nella loro “seconda vita”, attraverso il suo mondo di cose mantenutosi poeticamente in viaggio come l’Ulisse di Saba «nei relitti del tempo» [2].
Il Museo Ettore Guatelli, nella ricerca e nel connubio di incontro e narrazione, del frammento di diversità racchiuso nell’accumulo armonico di oggetti di vita quotidiana, diviene simbolicamente rappresentativo di un processo di
«[…] patrimonializzazione irriverente […] perché libera dagli orpelli della rappresentatività nella quale gli oggetti e le opere sono “inchiodati” dalla ricerca di autorità e gerarchia» [3].
Sbirciare attraverso gli oggetti/soluzione [4], incontrare le storie degli altri, per costruire la mescolanza e la contaminazione del giardino planetario [5]. Rimanere in silenzio per lasciare che l’apparenza dello scarto divenga parola viva, prenda forma nell’assemblaggio di parti o nel rattoppo di tessuti, solletichi la memoria e rinvigorisca l’immaginazione, facendosi preludio per l’incontro e la comunicazione.
La meravigliosa presenza degli oggetti del Museo Guatelli testimonia una profonda attenzione ecologica, dedita al riuso e al riutilizzo, nata spontaneamente nel secolo passato da una classe contadina che per necessità faceva del rattoppo e dell’assemblaggio i capisaldi di un’economia di sussistenza fondata sul “non gettare nulla”. È un mondo a cui l’opera di Ettore Guatelli e la sua museografia spontanea hanno ridato vita. Un mondo sempre attualmente vitale e densamente comunicativo, utile per riflettere ed affrontare le sfide dell’agire contemporaneo. Una folla di oggetti che, allo stesso modo del mondo delle cose che ci circondano, spontaneamente sovvertono un’idea di museo che vuole elevare l’oggetto al rango di “cimelio sacro” e tenerlo distante, materialmente e idealmente, da chi lo osserva.
Nei rifiuti, rimossi e tenuti ben lontani dall’ordine del mondo pensabile ma al contempo sue intercambiabili facce, la società contemporanea può ravvisare il perturbante freudiano, spaventoso e familiare, che ci trascina nel mondo fluido del residuo, del transitorio, del caotico variare di ciò che non è possibile prevedere.
Come dire che l’obsolescenza degli oggetti, sotto i dettami del gusto, della moda e dell’ingegno umano, non faccia altro che produrre “materia morta”, illudendoci che il deperimento delle cose e forse più in generale, dell’esistenza, possa essere controllato attraverso la manipolazione dei segni, delle tracce, del tempo.
Oggi, trascorsi ventisette anni dalla pubblicazione di quell’articolo, il Museo Ettore Guatelli, per gli aspetti che costituiscono i caratteri della sua unicità e non riproducibilità, si trova ad essere chiamato a riflettere sui medesimi temi da un’importante istituzione europea, la House of European History di Bruxelles che affronta una urgenza di democrazia più che mai legata ai temi dell’economia circolare e della sostenibilità ambientale.
“Rubbish! A History of Europe and Waste” è il titolo del progetto promosso dalla House of European History che porterà, nel 2023, all’allestimento di una mostra temporanea nelle sale del museo di Bruxelles sul tema delle origini, delle forme e delle direzioni dei “rifiuti”.
Nel mese di Ottobre 2021 la Fondazione Museo Ettore Guatelli ha preso parte, in qualità di museo partner, ad un primo scambio di idee sul progetto “Rubbish!”, in un’intensa due giorni di co-progettazione e brainstorming che ha visto la partecipazione di rappresentanti della House of European History e del Natural History Museum di Vienna (Austria), dell’Austrian Museum of Folk Life and Folk Art di Vienna (Austria), del Musée de la vie Wallone di Liegi (Belgio), dell’Estonian National Museum di Tartu (Estonia), del MUCEM-Musée des Civilisations de l’Europe et de la Méditerranée di Marsiglia (Francia), del Museum of European Cultures di Berlino (Germania), del Latvian National Museum of Art di Riga (Lettonia), del National Ethnographic Museum di Varsavia (Polonia), del National Museum of the Romanian Peasant di Bucarest (Romania) e del Museum of Recent History di Celje (Slovenia).
Il progetto, oltre alla realizzazione di una mostra temporanea a Bruxelles, si propone di creare una stabile piattaforma online che consenta ai musei partner di condividere buone pratiche, idee, oggetti ed attività connesse ai temi del rifiuto e del riciclo intesi nel modo più ampio possibile. Si vuole mettere così a disposizione dei pubblici di tutta Europa spazi fisici e virtuali dedicati all’apprendimento e la riflessione su temi ed emergenze già così cari – e chiari – ad Ettore ed oggi pienamente al centro della scena globale.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
Note
[1] Guatelli E. (1994), Museo e discarica, in “Ossimori”, num. 5: 66 (riportato in Appendice)
[2] Clemente P., Il museo che non è un museo, in Turci M. (a cura di), 2017, Il museo è qui. La natura umana delle cose. Il Museo Ettore Guatelli di Ozzano Taro, Sant’Arcangelo di Romagna, Maggioli Musei: 52
[3] Turci M. (a cura di), 2017, Il museo è qui. La natura umana delle cose. Il Museo Ettore Guatelli di Ozzano Taro, Sant Arcangelo di Romagna, Maggioli Musei: 37
[4] Ivi: 36
[5] Clément G., 2005, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata
APPENDICE
Museo e Discarica
di Ettore Guatelli
Il pretesto per parlare di questo rapporto, me lo ha dato, poco tempo fa, un mio amico cantautore di Carpi, amareggiato per le disposizioni di quel municipio che vieta l’accesso alle discariche e ai cassonetti. Si è sfogato dicendo che i Comuni son diventati i maggiori distruttori di memorie, di testimonianze, impedendo a intenditori e appassionati di recuperarle. È naturalmente non di serie, questo amico che non sopporta o sopporta male un lavoro da dipendente e che si arrangia a integrare, quando ci sono, le entrate degli altri di famiglia. Non ha bisogno di tanto, anche se la moglie non sa sempre quanto avrà per quel giorno, di moneta, per far bollire la pentola. È un poeta che gira dai rottamai, sgombra, se chiamato, solai e cantine, divertendosi, ma più godendo a trovare, in un cassonetto o in discarica, un pezzo o più pezzi buttati da ignari, che non saprebbero di che fame.
E che cosi salva anche dalla distruzione, oltre che a ricavarne qualcosa con cui si contenta di vivere. Non è il solo, e non è solo nel suo comune che si fa così. Da quando mi conosce, prende su anche oggetti non commerciabili o in cattive condizioni che non sarebbe conveniente riparare, e li porta a me in regalo: «Son robe guatelliane, che mi piace di vedere qui, dove son tenute in considerazione».
Cantautore a parte, sono anni che dico e che scrivo della possibilità, da parte dei comuni, di farsi gratis o con poca spesa un museo delle memorie popolari, incaricando i suoi funzionari, un suo esperto, del recupero in discarica o in cassonetto, ma anche in fase precedente. Ci sono vecchi senza nessuno che vanno in ricovero, senza potersi naturalmente portar dietro niente da un appartamento che il municipio deve sgombrare. A parte mobili con cassetti pieni di “vita”, di quotidianità, con casse o valigie piene di documenti che alcuni conservano gelosamente da decenni, memorie di vita quotidiana attuale e remota, foto, riviste, giornali, libri, santini, ecc. ecc. Ci sono a volte cose uniche, originali, che i funzionari preposti allo sgombro hanno imparato a conoscere e che naturalmente non lasciano andare in discarica. Quindi, ai fini della salvezza dell’oggetto in sè, questo avviene ed è positivo. Ma sono poi le cose umili, quelle di cui in gran parte è fatto il mio museo (dove naturalmente non c’è tutto, ancora, e forse non ci sarà mai) che vanno sprecate, perdute. Perché non sono importanti. È molto difficile anche ad addetti, iniziati come me, non discriminare. Ma non si può scrivere tutto quel che potrebbe significare un criterio del genere: ognuno, buttata lì l’idea, salverebbe cose che un altro lascerebbe perdere. In ogni paese, città, regione, ci sarebbe la possibilità di testimoniare le differenze o le non differenze, le particolarità. E bisognerebbe far presto, perchè ci si sta “omogeneizzando” con prodotti e cose uguali in tutto il globo.
Manca nel mio museo, un archivio, un settore di archivi famigliari. Ho fatto l’errore inizialmente di suddividere per genere, invece di lasciare intatti per singola famiglia o solaio (sono andato anch’io a sgombrare, ed è una gioia) il tutto trovato: ho messo tutti i libricini da messa insieme, i libri (misere bibliotechine), i depliant, bollettini di chiese, santuari e partiti. Le vite di santi e capipartito, Togliatti, Marx, ecc…, tutte le bollette della luce, le cartoline, ecc… Non son partito sapendo ma per curiosità istintiva, inizialmente. E del resto non sapevo che avrei trovato e accumulato tanto. Da dover ammucchiare, anche, per far posto. Per farci stare tutto. Dico queste cose, perché non ci si senta in colpa unici “sciocchi” a far cose del genere, ma anche perché si rifletta e si eviti di farle, di ripeterle.
Sono anni che al museo arrivano oggetti dalle discariche. Dall’Emilia e dalla Lombardia. E sto sul generico, per non compromettere chi continua a portarmi roba malgrado regolamenti e divieti. E senza alcun interesse: solo per il piacere di contribuire a far crescere il museo e di vedere la mia gioia per un pezzo, magari insignificante, che non ho. A volte chiedo cose mirate. Nella ricostruzione di giocattoli che i visitatori mi descrivono spesso con dovizia di particolari perché fatti da loro ragazzi, o visti a quei tempi, che loro dicono di non aver tempo o voglia di ricostruirmi, il materiale diventa la cosa più preziosa. Deve essere il più possibile del tempo, dell’epoca. Per ricostruire due ruote di barroccio, alte, e con molti raggi, dovevo avere vecchi scheletri di ombrelli, con le stecche di ferro (facendoci la punta diventavano a loro volta frecce di un arco fatto con una o più stecche legate insieme) che dovevano essere i raggi partenti dal mozzo. A diventare tale era il tubetto che scorreva lungo il manico dell’ombrello stesso. C’è una persona a cui, dopo i miei, voglio più bene; è un piacere andar via con lui non ho più la patente e ci vedo poco: a lui non sfugge niente, anche in mezzo a una montagna di rottami o in un angolo buio. I primi ombrelli che mi ha portato avevano il “mozzo” di plastica, di quella veramente vecchia, con tutto il ferro, non ne venivano, malgrado continuasse a portarne. I pochi che sono arrivati non ho avuto coraggio a guastarli e sono lì come testimonianza e così il barroccio non è ancora stato fatto. Saran trecento, e cosi son diventati collezione, pur se partenti da altro scopo, da altra idea. “Non ne hai abbastanza?”, mi chiede. “Solo se sei stanco tu”, gli dico. E continuano a venire. Troppo nuovi? Un giorno magari saran più preziosi e rari di quelli “belli” che tutti conservano (ma capita con ogni cosa) specialmente perché nella civiltà dei consumi si butta tutto: chi ha la mentalità e lo spazio per conservare, ora? E son venuti dalle discariche. Perché i comuni han vietato il recupero “libero”? Ci saranno delle ragioni, naturalmente. Ma sono più importanti del valore delle cose che così non andavano perdute?
Io credo che in un mondo dove le testimonianze di epoche passate si vanno esaurendo, il non consentirne il recupero, non permetterlo, sia un grande delitto. Ma credo sia delitto ancor più grande non recuperarle alla e per la comunità. Basterebbe vedere cosa si può trovare, sia in discarica che nelle case di gente che muore senza avere nessuno che va in ricovero. Naturalmente i consapevoli, i furbi (anche professionisti che non si vergognano a prendere su un oggetto da un bidone) si guardano bene da fare pubblicità su questa “miniera”. Che si può solo sfruttare in minima parte, e con rischio, e che si esaurirà entro poco, per ordinanze sempre più restrittive e severe. Discutibili? Come minimo, modificabili o da regolamentare. È quello che sento e che quindi penso. E con questo è bene che chiuda.
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Monica Citti, dopo la laurea triennale in Lettere presso l’Università degli Studi di Catania, con una tesi in Filologia della letteratura italiana, nel 2017 consegue con lode la Laurea Magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Bologna, con una Tesi in Antropologia del Sistemi Religiosi dal titolo: “La memoria nei beni culturali. Prospettive e narrazioni della festa di Sant’Agata a Catania”. Nel marzo 2019 ottiene il Diploma di Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici con l’Università degli Studi di Perugia, discutendo una tesi dal titolo: “I percorsi del quotidiano: dal design spontaneo al ready made contemporaneo. Suggerimenti dal Museo Ettore Guatelli”. La sua ricerca si concentra sugli studi di cultura materiale, con particolare attenzione per gli oggetti della collezione del Museo Guatelli che appartengono al mondo del Design Spontaneo. Attualmente con Sandra Ferracuti, è coordinatrice del progetto europeo Rubbish! promosso dalla House of European History di Bruxelles.
Sandra Ferracuti è un’antropologa culturale, attualmente docente a contratto di Antropologia dell’arte all’Università di Udine. Tra il 2010 e il 2021 ha insegnato, nella stessa veste, Antropologia Culturale, Antropologia dei Patrimoni Culturali e Museologia all’Università della Basilicata (Matera) e all’Università “Sapienza” di Roma. Dal 2005 al 2015 è stata membro del consiglio direttivo della Simbdea (Società italiana per la museografia e i beni demoetnoentropologici); ne è stata vice-presidente dal 2008 al 2013 e presidente dal 2013 al 2015. Tra il 2004 è il 2005 è stata curatrice per il Museo Guatelli di Ozzano Taro-Collecchio (Parma) e dal 2016 al 2020 ha diretto il dipartimento “Afrika” del museo etnografico statale Linden-Museum Stuttgart (Germania), per cui ha ideato e realizzato la mostra permanente delle collezioni africane Wo ist Afrika? Storytelling a European Collection” (2019).
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