di Stefano Montes
Mi sento di cominciare così: «Ci sono inverni che non cadono e non finiscono mai/come guanciali aperti sopra la menzogna del sonno/inverni miserevoli in cui le foglie cadono pesantemente/a terra/come pietre miliari, alberghi in cui tutto trema e tutto/si dissolve in un peregrino passaggio verso la notte» (Merini 2009: 10). Mi sento di cominciare con l’impeto dei versi – di vari per me veri versi – perché non c’è niente che io possa fare e ne parlo, forse proprio per questo, con voce d’altri, da un altrove introverso: per ingannare l’urgenza del tempo e l’affanno inesorabile dell’esistenza. Mi sento di cominciare con il senno della poesia perché – presumo a tratti, a volte e a senso – non ho voglia di fare altro e mi sfogo come meglio io credo e posso: per addomesticare l’emozione, la sua insurrezione, le coordinate singolari del vivere, del tempo a venire ancora per poco assente, sempre per poco a sé presente.
Mi sento di iniziare con una rapida, iniziale, benché alquanto passiva nonché resiliente, filtrazione in azione del mio sentire in corso di formazione, nel suo darsi, nel suo fievole affermarsi: non avrei niente da fare, non avrei voglia di fare altro, se non cadere al fondo sconclusionato dell’emozione rappresa, ragionandoci un po’ sopra, distillandola per cercare di carpirne i meccanismi impliciti della sua logica talvolta disattesa. Distillandola? Sì, sono arrabbiato e sono antropologo, mi accordo sprazzi filtrati di razionalità, mi lascio sorprendere dall’emotività per carpirne i meccanismi strutturanti, capirne i processi in atto: alterno l’una all’altra, mi concedo diffusamente al loro sovrapporsi, considerandole insolentemente intreccio da osservare pur nella partecipazione dell’azione sofferta, attillata e attinente. (Osservazione-partecipante? Dall’interno, dall’esterno? Ci rifletto. Me l’accordo.) Mi sento di dirlo adesso e lo dico: indulgo all’irrompere del sentire, indugio sull’accadere dell’evento. Parlo, mi sfogo, ci scrivo su, torno a parlarne nuovamente: perché, volenti o nolenti, nel bene e nel male, qualsiasi «process of writing invariably brings discoveries» (Narayan 2012: X).
Uso un’insolita scrittura come valvola di fuoriuscita catartica, me ne servo, me ne avvalgo – oserei dire, per assaggi emotivi e gorgheggi cognitivi – allo scopo di fiondarmi all’interno di me stesso e fuoriuscirne, all’esterno, più vulnerabile che mai, di nuovo e daccapo, nel mondo in attesa della mia proiezione ed estrazione. (L’interiorità? Chi l’ha mai vista! Eppure la invoco. A vanvera? A ragion veduta in questo caso?) So soltanto – vengo a saperlo giusto ora, nell’imminenza dello scrivere riottoso – che mio zio ha un tumore, è stato operato, si sottopone a sedute di chemioterapia. (Un tumore? La sua vita è in pericolo? Cosa prova in questo momento? Mi spiace, comunque sia, sono impreparato.) Mi consola forse il fatto che la malattia può talvolta rappresentare un percorso iniziatico che rivela, una volta superato il momento critico, nuove finalità dell’essere, un migliore senso di inserzione individuale nel mondo sociale. (Lo spero per mio zio. Lo spero per tutti coloro i quali soffrono. Lo vorrei per tutti loro, gli ammalati, indistintamente.) Così, infatti, descrive Stoller il suo percorso di malattia e guarigione: «I have lived in the stark shadows of sickness. At first, the shadows are fearful. But once you adjust to their presence, they can be revelatory. They’ve enabled me to see my own shadow as the immaterial aspect of my being. That awakened vision transformed the perception of my place in the world» (Stoller 2014: 115). Stoller descrive il processo vissuto personalmente come un aggiustamento che porta con sé una sorta di risveglio interiore e di riposizionamento individuale. Lo descrive sinteticamente, avvalendosi di metafore. (È mai possibile, infatti, sbarazzarsene, delle metafore, al fine di rendere esperienze che sfuggono, difficili da tradurre in crude parole?)
Io vado rapidamente con la mente a Stoller, al modo in cui ripensa la sua malattia nel complesso nel suo libro e la ricerca del benessere sociale, mentre la notizia relativa alla malattia di mio zio è ancora nell’aria, cagliata come liquido tuttavia ostile alla mia ricezione insorta. Io ne sono appena venuto al corrente di fatto. Non so punto come replicare. Non so reagire coerentemente all’infame novità. Giusto ora, alle prese col caffè e col cucchiaino che rimesta sul fondo di zucchero rappreso, mi giunge inattesa questa notizia scagliata come un sasso appuntito: in un momento di apparente calma interiore, di sospensione dell’essere disatteso, di inappropriata ricezione di spesse parole. (Chi se lo aspettava? Chi lo avrebbe detto? Perché mai? Sono esterrefatto e cerco di rimediare scavando dentro di me, all’interno delle mie emozioni come se fossero quelle d’altri.) In segno di reazione alla situazione, le sensazioni gustative e olfattive – per conto loro, per intimazione all’agire presupposto dalla notizia – fanno inizialmente a pugni con la ragione, poi si rassegnano a fare parte di un contesto in cui comunicazione e impressione, osservazioni e distillazioni di impressioni e ricordi, si mescolano disordinatamente. (Filtrazione, distillazione e comunicazione? Che giusto filo teorico trarne da questa inusuale combinazione di concetti e percetti? Si vedrà nel corso della scrittura, spero!). Per il momento, sul piede di guerra, sensazione e ragione si lanciano una sfida sottile tirando in ballo – strattonandola – la mia coscienza in frammenti, frazionata, in bilico fra l’una e l’altra, per adesioni e sovrapposizioni l’una sull’altra. “Potrebbe farcela, potrebbe”, dice intanto mia zia, mentre io butto giù un altro sorso di nero caffè diluito da sottili nuvolette di latte bianco. Io la guardo falsamente impassibile, contratto e insieme attento alla modulazione dilatata delle sue parole volutamente scandite con chiarezza, con semplicità e direzione. Lei parla, io seguo l’onda d’urto invadente dell’aria prodotta dalle sue parole: non la interrompo, non ci penso nemmeno, il profumo del caffè sale diritto alle mie narici in teso agguato. Lei, mia zia, è trasparente nel suo dire molle; le mie idee si fanno invece opache, inconcludenti, mentre le nuvolette di latte ingrigito dal caffè si spezzano sempre più, gradualmente, poco alla volta, confondendosi sotto i miei occhi con i pensieri in frenetico subbuglio. (Assisto, sospeso e coinvolto insieme, al disporsi in atto di un conflitto a mia insaputa col mondo esteriore? Che posizione devo assumere rispetto a questo evento inatteso?).
Il senso di sospensione, di non-finalità (o lenta retroazione?), richiama per contrasto alla mia mente quella bella poesia di Pasternak in cui, in pochi versi, il poeta russo riesce invece a esprimere una concezione del vivere fondata sulla pianificazione del fare che si manifesta nel voler concludere, nel voler portare a compimento i propri progetti di vita: «In ogni cosa ho voglia di arrivare/sino alla sostanza./Nel lavoro, cercando la mia strada,/nel tumulto del cuore./ […] Eternamente aggrappandomi al filo/dei destini, degli avvenimenti,/sentire, amare, vivere, pensare,/effettuare scoperte» (Pasternak 2001: 209). Che senso avrebbe la vita, d’altronde, se ognuno di noi non tendesse verso un fine pianificato? Potrebbe, la vita, avere un senso senza finalità? Io sono sospeso, colpito dalla notizia, preso nel tempo che scorre azzerando il senso di finalità individuale intanto che la poesia di Pasternak mi ricorda il corso normale degli eventi: vivere, cioè, secondo programmi che si tenta di portare a compimento in vita; vivere, in fondo, in sintonia di programmi il cui valore si antepone sovente all’azione. (In conformità a quale forma di vita più generale? Secondo quale cultura particolare?) Nel frattempo, sovrapponendosi ai miei pensieri, in piena autonomia d’azione, le nuvolette resistono al meglio della loro forza alla nerezza del caffè; al contempo, stranamente, acquisendo più spessore, sento che mi rimescolano al fondo del mio essere, retroagiscono, si risistemano diversamente, mi mandano un richiamo il cui senso mi è ancora ignoto allo stato attuale delle cose. (Senso della finalità o precipitare nell’istante prolungato che sospende in un tempo indefinito? Accomodarsi degli eventi senza colpo ferire o reagire e imporre i propri programmi esistenziali all’andazzo del mondo? Dubito e lo so. Dubito e penso con la testa mentre il mio corpo esige invece spazio comunicativo per sé.)
Per il momento, sull’onda dell’istante dilatato, so sicuramente di essere sospeso nel vuoto dell’ignoto! La rabbia è però un’occasione – una sonda vagante lanciata contro l’ignoto altrettanto vagante – per conoscere e conoscersi attraverso la distillazione di un crescente moto interiore: la rabbia è un pretesto per conoscere come si conosce seguendo l’impatto di sensi ed emozioni e il loro intrecciarsi con il flusso di pensieri occasionali e non. Me ne rendo conto, mi lascio andare all’osservazione distillata degli eventi. Da parte loro, le nuvolette sembrano – lo percepisco confusamente, or ora, forse pure impropriamente – ingaggiare un duello col caffè e io avverto, per tutta risposta, una collera ovattata salire dal basso mentre il profumo del caffè sorprende ancora le mie narici stizzite, distratte dalla notizia, e la mia immaginazione intirizzita cerca insperate vie di fuga proiettandomi in luoghi lontani, nel fluttuar di parole di un antropologo francese, in viaggio nel tempo e nello spazio, dalla Francia al Brasile:
«Ho imparato che la verità d’una situazione non risulta tanto dalla osservazione giornaliera, quanto da quella distillazione paziente e frazionata che l’equivoco del profumo m’invitava forse già a mettere in pratica, sotto forma di uno spontaneo giuoco di parole, veicolo di una lezione simbolica che non ero in grado di formulare con chiarezza. Più che un percorrere, l’esplorazione è uno scavare: una rapida scena, un angolo di paesaggio, una riflessione colta a volo, permettono da soli di comprendere e interpretare orizzonti altrimenti sterili» (Lévi-Strauss 1960: 45-46).
Che c’entra Lévi-Strauss? Inutile ragionarci sopra in questo frangente, sento soltanto una sorda collera aggredirmi felina dal basso, la sento irrompere in linea verticale nel mio corpo, mentre, per contrasto, in dissidio, alcune considerazioni sulle modalità del conoscere, intrecciate alla situazione che sto vivendo attualmente, ora e adesso, si fiondano di traverso nella mia mente, mio malgrado, con qualche resistenza, lasciando comunque fare, osservandone il divenire in atto, in una sorta di attesa rilasciata dall’attrito di cognizione ed emozione. (Qual è allora la verità della situazione che sto vivendo? Posso dire, senza timore alcuno, che l’emozione produce uno sganciamento dell’io centrale; posso soltanto dire, senza tema di mia e altrui smentita fenomenologica, che un moto interiore governa in parte le mie reazioni.). Tutto ciò che so sul momento è che vorrei esplodere di rabbia, esplodere come una bomba a tempo, per l’impeto sdegnato, per istintiva reazione, ma mi trattengo e rimando alla scrittura – incanalando la tensione, dirigendola verso altro – il compito di chiarirmi le idee: a me stesso e alle idee che mi pensano, a mia insaputa, mentre sono impegnato a fare altro, a guardare le nuvolette di latte, a gustare il caffè, a sentire il prossimo fresco della sera. (Infine e ancora: che lezione posso trarne antropologicamente da quanto detto, se non altro – giustificando la deviazione teorica da me adesso intrapresa scrivendoci, distillando profumi e parole, pensieri e azioni – per distrarmi dall’esperienza in corso?)
Più che di osservazione-partecipante, alla luce di questa insospettata affermazione di Lévi-Strauss, si potrebbe parlare di distillazione-partecipante del conoscere e riconoscere: più che ‘esplorare’ – longi- tudinalmente, separatamente, dall’alto, in un’unica direzione – le mie sensazioni attuali, io potrei al contrario ‘distillare’ l’intreccio di sensi, pensieri e azioni che sto vivendo in questo momento nel loro frenetico andirivieni. Distillando? Un semplice profumo? Che me ne viene? E perché mai? Secondo Lévi-Strauss, per comprendere e interpretare non sono sufficienti sistematiche osservazioni giornaliere, ma è fondamentale, guardando indietro nel tempo, estrarre dai sensi – per esempio, dal profumo, sedimentato attraverso la memoria olfattiva – la verità di una situazione vissuta personalmente. In qualche modo, dunque, Lévi-Strauss accenna qui all’ipotesi proustiana di riconfigurazione del tempo – ripresa, a tratti e in seguito, nel proseguo del suo lavoro – secondo cui la conoscenza è il risultato di un va-e-vieni tra la prossimità e la distanza, tra posizionamenti interni ed esterni, tra ciò che è vicino e ciò che è lontano, tra i sensi e il disporsi della memoria nel tentativo di recuperarli: «Non sarebbe possibile nessuna conoscenza se non si distinguessero i due momenti [la prossimità e la distanza; il fuori e il dentro]; ma l’originalità dell’indagine etnografica consiste in questo va-e-vieni incessante» (Lévi-Strauss 1988: 214).
La distillazione di cui parla Lévi-Strauss mette inevitabilmente in parallelo il presente in cui vive il soggetto e il passato da recuperare – riacquisendolo – attraverso il filtro dei sensi e della memoria. Potrebbe sembrare del tutto ovvio pensare che il tempo – la distanza del tempo, nel tempo – contribuisca a suo tempo, per tempo, a conoscere meglio qualcosa di già vissuto nel passato; potrebbe sembrare altrettanto scontato dire che la memoria, in quanto tuffo nel passato da recuperare, è partecipe delle varie modalità del conoscere e riconoscere. È ugualmente poco sorprendente vedere Lévi-Strauss opporre la metafora del percorso a quella dello scavo: al puro cammino orizzontale è infatti necessario – nell’usuale procedere metodologico dello strutturalista – sostituire un efficace lavorio di scavo, quasi geologicamente inteso, al fine di venire a capo dei rebus posti dai miti, dalla cura sciamanica o da altro oggetto di studio. Risulta alquanto sorprendente invece che Lévi-Strauss riservi un ruolo speciale – dal punto di vista discorsivo, ammettiamolo pure, è un traslato – alla distillazione del profumo, dei sensi, del ricordo olfattivo. Per capirci: cosa fa allora, più particolarmente, Lévi-Strauss? Ebbene associa il Brasile e la sua esperienza vissuta in quel Paese in passato a un profumo bruciato, a un equivoco, la cui sostanza deve essere sottoposta al setaccio del pensiero che, procedendo anche per immagini, goccia a goccia ne penetra – distilla – l’apparenza e spezza la loro impressione di casuale arbitrarietà, di apparente lontananza e oblìo.
Io penso a tutto ciò – riflettendoci con un senso di finta cedevolezza, di movimentata rassegnazione – e a maggior ragione mi lascio invadere dal profumo sottile di caffè. Io penso in punta di piedi (e di gomiti) e associo la situazione che vivo in questo momento, davanti una tazza di caffè fumante, ad altre, più o meno simili, più o meno lontane del mio stesso passato. Io penso per flussi e sono sorpreso. Io penso in situazione e sento una cupa collera irrigidirmi da dentro, dall’interno, sotto la pelle vigile, irritata, da grattare: monta su da qualche parte del mio corpo e non accenna a scemare; monta e mi contrae fisicamente; monta e mi costringe a tenere la bianca tazzina di nero caffè bollente, per quanto piccola sia, a mo’ di schermo tra me e lei, tra me e i miei pensieri. Io penso e mi lascio pensare dalle emozioni in combutta col profumo del caffè che le sollecita senza l’intervento diretto del mio pensare, delle mie intenzioni. È possibile d’altronde ‘pensare’ – sganciandosi totalmente dal contesto in cui ci si trova – con la misurata coerenza di un ‘io’ centralizzato? Scrive Wittgenstein, «I really do think with my pen, for my head often knows nothing of what my hand is writing» (Wittgenstein 1998: 24). Per mia parte, per quanto mi riguarda, più che alla penna, io penso a tenere la tazzina di caffè alta: interponendola tra me e mia zia, tra me e una eventuale distanza prodotta dal suo profumo. Io penso con la mia tazzina di caffè: attraverso il suo profumo diffuso nella stanza. Penso e alzo la tazzina di caffè per riprodurre una sorta di frontiera simbolica.
Vorrei così – magari fosse possibile realizzarlo con questo piccolo gesto di inerme riservatezza! – mettermi al riparo dagli altri, da me stesso, dal mio mondo interiore, dalle emozioni indisciplinate: per non mostrarle per quel che esse sono, quel qualcosa che si presenta a volte a noi – in me – in tutta la sua forza dirompente, come quel briciolo di presenza di estraneità ribelle e di non facile sottomissione, come quel mucchio indistinto d’alterità incontrollata con la quale siamo comunque costretti a fare i conti, giornalmente, nel corso della vita. Riformulato in uno spizzico di pensiero spaesato e spaccato, così, fuori dai denti, fuor dalla situazione, senz’altro direi: le emozioni ci costringono a prendere coscienza dell’alterità che è in noi e fuori di noi, ci costringono a riflettere su quelli che sono fughe e rimedi possibili, da vicino, da lontano, del passato, dal presente. Come scrive Despret, le emozioni sono «modi di definizione e di negoziazione delle relazioni sociali e del sé in un ordine morale» (Despret 2002: 185). Io, in questo momento, ne sono abbastanza consapevole e mi catapulto – mi lascio catapultare senza opporre loro un netto rifiuto – in questo ordito a maglia, diritto e rovescio, in cui fanno capolino pensieri sparsi, emozioni, azioni e quant’altro. L’intreccio di cognizione ed emozione è infatti talmente stretto che è poco pratico, se non addirittura inadeguato, assegnare una funzione all’una o all’altra in maniera esclusiva, separandole, sbrogliandole singolarmente, una a una, una per volta; affermerei che è più utile, al contrario, vedere in che modo esse si combinano insieme producendo intenzioni ed azioni di soggetti individuali e collettivi.
Tra l’altro: pensieri, emozioni e intenzioni ben dirette e organizzate in maniera univoca, linearmente prodotte o ricevute, non sono che una misera parte della nostra vita, forse pure minima, forse altrettanto superficiale; per il resto, per buona parte del nostro tempo, noi pensiamo per flussi, ci lasciamo andare al groviglio di emozioni e al viluppo d’azioni generate dalle loro sollecitazioni, noi intendiamo qualcosa man mano che siamo nell’azione stessa, riformulando inoltre intenzioni e azioni stesse in questo movimento continuo di riassestamento. (D’altronde è mai possibile estrapolarsi da quel tempo e spazio specifici in cui l’azione e l’emozione ci proiettano? Non è forse meglio rassegnarsi all’idea che siamo sempre in situazione?) Siamo sempre da qualche parte, pare persino quando immaginiamo, persino quando immaginiamo di non esserci o di essere altrove. Immaginiamo e siamo presenti nel tempo e nello spazio che ci dà ospitalità. Persino mentre attendiamo, proiettati in una sorta di pausa dal fare, siamo pienamente nello spazio e nel tempo che ci accoglie in quei momenti di apparente sospensione: nell’attesa, sì proprio nell’attesa, per quanto tale, pensiamo a qualcosa o siamo comunque intenti a portare a termine un compito, consapevoli o meno che siamo della sua sintassi d’azioni o dei suoi fini intenzionalmente preposti. Non mi sorprende Duranti, quindi, allorché scrive che la nozione di intenzione è polisemica e abbisogna, per potere essere presa in adeguato esame, di un più ampio ‘continuum intenzionale’ di riferimento: «One lesson of our interpretive journey has been that the reliance on intentions and their apparent avoidance must always be contextualised. The notion of “intentional continuum” will be here introduced as a way of making sense of the contextual variability in intentional action that I documented in this book» (Duranti 2015: 233).
Non sono io forse in fuga emotiva oltre che cognitiva, oltre le mie intenzioni, oltre una parte di me stesso? Già adesso non sono forse in fuga, in rotta da qualche altra parte, al mio esterno? Altrove o imbacuccato al mio interno fortificato per l’occasione, che importanza può avere? Senza rendermene pienamente conto, un po’ dentro un po’ fuori, io sto infatti esplorando il gioco straniante che si instaura nel ritaglio del continuum intenzionale creato da emozioni, pensieri e dimensione sensoriale: tutto questo, senza spostarmi dalla mia cultura, senza spostarmi dalla sedia in cui cerco di non sprofondare mentre mia zia mi dà la notizia della eventuale, forse prossima, morte di suo fratello. Ascolto e bevo un caffè, subisco l’assalto di pensieri e emozioni. Ascolto e bevo? Bevo e subisco l’ascolto? La notizia, aiutandomi con la forza della metafora per spiegarne l’effetto, mi colpisce come uno scudiscio in azione – su di me, sulle pieghe della mia vulnerabilità, sulla giornata di routine – al rallentatore, nello strano lento svolgersi di un tempo sonnacchioso e indifferente: mi aggredisce, dunque, dunque è così, dunque lo è ma mi concede pure spazi di inserzione della ragione intorpidita. Se non altro, per quanto angusto sia, ho spazio per combattere, motivo di resistere e controbattere e me ne faccio scudo per mettermi al riparo della mia interiorità.
Se fossi in casa, da me, da solo, mi precipiterei a corpo morto sulla chitarra acustica, la imbraccerei tenendola con il manico più alto del solito, mi sparerei tre accordi di blues a velocità inaudita, improvviserei in settima, per una buona mezz’oretta, grappoli di note litigiose e indiavolate. L’effetto è sempre sorprendente, l’efficacia è sempre certa, la dissonanza ha i suoi pregi benefici sullo spirito. Sento, in questi casi, qualora succede, che non sono io a suonare: non sono tanto le mie intenzioni a pianificare un qualche tipo di musica, quanto le mie dita che corrono all’impazzata sul manico della chitarra; le dita vanno dove vogliono e io le lascio andare liberamente senza pensarci, rilassandomi in modo particolarmente efficace, in quel modo difficile da spiegare a chi non suona, non improvvisa, non vive l’attimo non programmato, non si annulla al riparo del sopravvenire insubordinato di moti prepotenti del corpo. (Se non sono io a suonare, chi altri è allora? Dove sono io, con la testa, mentre le dita percorrono a piacimento i tasti della chitarra? Chi sono e dove sono io? Che fine fanno le mie intenzioni mentre mi rilasso improvvisando liberamente alla chitarra?) Se adesso avessi una chitarra in mano, forse mi adagerei in orizzontale – come fosse un armonico tappeto d’erba verde, comodo e accogliente – sul suono forsennato delle note rubate all’ansia degenerata; mi adagerei senza indugio al disporsi a me inconsapevole del fraseggio improvvisato. Mi adagerei a corpo morto, con i sensi in ritirata, insopportabilmente insofferente, fremente, assente dal mondo, incazzato e risollevato. In pochi minuti prenderei congedo da me stesso. Che sollievo! Che pace! Ma non posso, pur volendolo, pensandoci, non posso: non ho una chitarra sottomano, sono a casa di mia zia, bevo un caffè sorseggiandolo lentamente come fosse un whisky annacquato, sono seduto e perplesso, grippato e arrabbiato e pur tuttavia antropologo col senno di poi. Lo sono? Lo sono davvero? Sono sul punto di una abreazione? Lo percepisco. Lo sento. Arriva. Mi arrabbio per ora e non posso fare a meno di pensarci da antropologo proiettato nel tempo dell’esistenza, risucchiato indietro dai suoi studi sulle differenze culturali: penso infatti che si combatte contro la morte, nonostante tutto, lo si fa. E va bene così. Lo dobbiamo al senso del vivere: opporci al suo divenire inarrestabile e talvolta impercettibile. E sia pure questo. Credo. Suppongo che mio zio lo stia facendo: non si è arreso, ha deciso di operarsi, si è sottoposto ai disagi della chemioterapia, ne parla con mia zia nonostante sia timido da matti, nonostante non si apra facilmente con tutti, nonostante sia risoluto come sempre nel tentativo di tenere tutto dentro, per sé, per altri momenti di vita, perché lo vuole il suo introverso carattere di sempre.
E ne segue allora un principio antropologico di fondo che assolve, tra l’altro, una funzione di definizione della cultura. La morte riguarda il singolo e ha tuttavia un più ampio ufficio culturale: si muore singolarmente per mantenere viva, nel tempo, nel ricordo, la cultura collettiva e i modi rituali di concepirla. Come scrive Thomas, «ogni società vorrebbe essere immortale e ciò che chiamiamo cultura non è altro che un insieme organizzato di credenze e riti aventi lo scopo di lottare contro il potere di dissoluzione della morte individuale e collettiva» (Thomas 2006: 16). Noi moriamo e questo è certo: quel che resta è la lotta ingaggiata contro la morte nella forma cristallizzata dalla cultura attraverso i riti e le credenze tramandate ai posteri. Si fa fronte alla morte attraverso la forza del rito. (Come faccio fronte io alla situazione in questo momento? Lascio che sia il caffè a dirigere i miei pensieri; lascio che il suo profumo mi guidi negli strati sepolti della mia memoria?) Io ho le mie scappatoie. Io, di fronte a mia zia, al cospetto della brutta notizia, penso a Thomas, penso all’antropologia della morte, penso alla fine, alla morte come effetto di discontinuità individuale e continuità culturale. Penso infine alla vita, a come definirla, a come vivere e morire. Penso e ripenso, ancora e ancora, a quello strano, ma affascinante, libro di John Fante in cui il personaggio principale, Arturo Bandini, conduce una vita inconcludente, senza far niente tutto il giorno se non – pensare di – scrivere racconti, se non cercare di scrivere sperando di diventare, prima o poi, con un po’ di fortuna, uno scrittore affermato: non più squattrinato, non più alla deriva, non più in cerca di assetata affermazione. Certo, non so perché mi viene in mente, d’acchito, questo romanzo di Fante proprio in questo triste frangente. Non lo so purtroppo. Non lo so bene. Non lo afferro ancora. Ci potrei arrivare con un piccolo sforzo. Lambiccandomi un po’ le meningi, azzardando forse un’ipotesi promossa dal momento particolare, oserei dichiarare: mi viene in mente perché anche i miei pensieri, quali essi siano adesso, sono inconcludenti, non portano a niente di congruo, non cambieranno il corso degli eventi, né la malattia di mio zio, né la mia rabbia, tanto meno il mio senso di impotenza e di latitanza dal mondo di cause ed effetti. Né i miei pensieri, né tantomeno le mie emozioni, cambieranno lo stato attuale della situazione!
Forse, mi viene in mente il libro di Fante perché – me ne rendo conto meglio, sull’onda del sentire, proprio adesso – vivere nell’inconcludenza può, tutto sommato, essere una forma di vita in sé, una forma di vita da non disprezzare, da non scartare, non necessariamente connotata in negativo: visto che essa annulla la precipitazione che imprimono i grandi fini esistenziali, anzitempo posti, in ogni caso perseguiti, a tutti i costi ricercati e appagati, appagati e ricercati in vista di altri piani e fini da soddisfare, causa di ansie e preoccupazioni all’infinito. Non è forse un radicale principio buddista il volere annullare le illusioni e gli attaccamenti, i desideri e i vizi, che illudono l’uomo nella trappola del desiderare costantemente, senza sosta? A che pro? Il rimedio, per un buddista, non è forse il distacco dal senso di finalità attribuito da aspirazioni e ambizioni? Tanto più che «la finitezza della vita rende inevitabilmente incompiuta (interrotta) ogni impresa» (Dolfi 2015: 12). Meglio esserne consapevoli e accettarne l’incompiutezza! Meglio essere consapevoli del fatto che, anche all’interno della nostre società, molte persone – penso per esempio alle comunità hippies del passato – hanno cercato di azzerare l’affastellarsi e rincorrersi di fini su fini da realizzare e hanno privilegiato, invece, la «conversione della liminalità […] in un modo di vita» (Turner 1975: 66).
Pur non essendo buddista, né hippy, Bandini, il personaggio di Fante, vive così, vive a modo suo, vive da perditempo: vive nella presunta inconcludenza protratta, finché non conosce una ragazza della quale si innamora che, una volta scattata la scintilla, con la forza del sentimento suscitato, gli cambierà lo stile di vita, lo allontanerà dal sogno di una letteratura come deposito di vita, lo riporterà alla vita vera e propria. La vita ha dunque la meglio sulla letteratura nel romanzo di Fante? L’amore redime dalla passione per la scrittura, dalla sua apparente inconcludenza? Non ne sono così sicuro. Io, per esempio, scrivo per associazioni di brandelli di vita. Io scrivo per rimanere in uno stato di liminalità costante, per prolungare un momento di passaggio – senza finalità altre – in «una situazione senza tempo, [in] un eterno adesso, come un momento dentro e fuori dal tempo, o come uno stato al quale non è applicabile la visione strutturale del tempo» (Turner 1975: 26). Io non vivo per scrivere, io scrivo per vivere e potere capire perché vivo e continuare a scrivere.
Così, non avendolo ancora capito del tutto, purtroppo, continuo felicemente a dibattermi – posizionandomi – nella rete fitta di vita intessuta di letteratura, tra antropologia dell’esistenza e scrittura musicata, persino sincopata, controtempo. E poi chi può mai dire cosa è meglio includere nel bricolage della vita e della cultura porosa che la sottende? Intanto, nell’indecisione del momento, nella disseminazione del pensare e volere, l’incipit del romanzo di Fante s’impone, prende corpo da sé:
«Una sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d’albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell’albergo. O pagavo o me ne andavo: così diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce e andandomene a letto»(Fante 2003: 5).
Dopo aver letto questo incipit, il lettore si aspetterebbe di vedere il personaggio principale prendere, nell’immediato, una decisione importante che abbia un forte impatto sulla sua vita, un qualche cambiamento di direzione esistenziale. Arturo Bandini, il personaggio principale, non ha infatti altra scelta: deve pagare, altrimenti verrà cacciato dall’albergo dove è alloggiato. Tra le altre cose, si lascia intendere che Bandini non ha denaro a sufficienza, altrimenti avrebbe già pagato in precedenza e sarebbe stato lasciato in pace. Questo vuol dire, concretamente, che Bandini è in un bel guaio, di non facile soluzione, che richiede riflessione e pianificazione preliminare. In che modo lo risolve, invece, questo dilemma Bandini? Stranamente, incongruamente, andandosene a letto. Si potrebbe allora supporre che lo faccia per una ragione precisa: la notte porta infatti consiglio e, al mattino, Bandini sarà in migliori condizioni per prendere pienamente in conto il problema, con maggiore lucidità e senno di prima. E, invece, cosa fa Bandini non appena sveglio? Tutto, tranne che concentrarsi sul suo problema. La sua vita continua regolarmente, come se fosse la solita routine di sempre, come se nulla fosse, come se non avesse una decisione da prendere subito e non esistesse nessun problema in vista:
«Al mattino mi svegliai, decisi che avevo bisogno di un po’ di esercizio fisico e cominciai subito. Feci parecchie flessioni, poi mi lavai i denti. Sentii in bocca il sapore del sangue, vidi che lo spazzolino era colorato di rosa, mi ricordai cosa diceva la pubblicità, e decisi di uscire a prendermi un caffè. Andai al solito ristorante, mi sedetti su uno sgabello davanti al bancone e ordinai un caffè. Il sapore era più o meno quello ma, nel complesso, la bevanda non valeva quello che costava. Mentre ero lì seduto mi fumai un paio di sigarette, lessi i cartelloni che riportavano i risultati delle partite» (Fante 2003: 5).
Bandini si sveglia e comincia la giornata come se nulla fosse: facendo esercizio fisico, lavandosi i denti, prendendosi un caffè. Insomma, solita routine! Il narratore, per descrivere la solita routine, si concentra sui dettagli: su dettagli in apparenza inutili, al limite dell’insignificante. (L’insignificante non è al margine del dettaglio?) E questo aumenta maggiormente il senso di inconcludenza del personaggio principale che si perde nei mille rivoli del quotidiano fare, nelle azioni minute che sembrerebbero non portare a niente di rilevante, che effettivamente non portano a nessun risultato concreto, a niente di diretto e finalizzato. E anch’io amo perdermi – continuo a perdermi – nei dettagli, nei mille dettagli: del testo e della narrazione mia e altrui, per di più mescolandole. E so perché lo faccio adesso, in questo stesso momento, deviando me stesso e distraendo il lettore: lo faccio, a ragione, perché non voglio accennare a un episodio della mia vita passata che incomincia a prendere corpo lentamente nella mia testa, grazie al mio scavo emotivo, alla distillazione di sensazioni e cognizioni. Racconto la storia di Bandini per distogliere la mente dal mio frammento di storia annegato nel tempo: mio padre è morto di cirrosi epatica, quando io avevo undici anni, in un ospedale di Milano.
Sì, lo ammetto, inevitabilmente, c’è un nesso tra l’apparente inconcludenza di Bandini e l’inesorabile inconcludenza provata nel pensare alla malattia e alla morte: qualsiasi cosa io pensi e senta, non posso scongiurare ciò che dovrà comunque accadere, nell’inconcludenza delle mie intenzioni e azioni. E questo mi fa arrabbiare. Sono impotente! Rasento il grado zero dell’inconcludenza! E questo mi spinge, sempre più, a distillare ciò che sento. E, a poco a poco, però, allo stesso tempo, un ricordo lontano si fa strada nella mia mente – uno psicanalista direbbe: “Stefano, sta per avere luogo una abreazione” – e la invade letteralmente, impedendole di pensare ad altro: una volta morto, mio padre è stato portato in una camera mortuaria, avvolto in un lenzuolo bianco, insieme a tante altre salme anch’esse avvolte in sudari dalla testa ai piedi, con una targhetta agganciata, grazie a una cordicella, affinché si potesse individuare facilmente il cadavere. Avevano però, dall’ospedale, dimenticato di comunicarci il numero del nostro cadavere: mio padre. E nessuno di noi parenti aveva il coraggio e la voglia di sollevare il lenzuolo dei vari cadaveri al fine di arrivare sino in fondo, di arrivare a quello buono: significava guardare un cadavere dopo l’altro, significava riconoscere il fatto che mio padre era morto ed era uno tra i tanti, un corpo senza vita, in via di irrigidimento, che rilasciava liquidi e odori appartenenti già alla sfera dell’aldilà connotato e non più all’esistere nel mondo. E ci ha finalmente provato mia zia e ci è riuscita, con un po’ di fortuna, dopo un paio di tentativi, dopo aver visto alcune facce stecchite, occhi aperti sospesi nel nulla, bocche socchiuse. E si è messa, dopodiché, con metodo, a spruzzare un forte profumo, un buon profumo dappertutto, nella stanza, in aria, su se stessa e sul corpo inerte di mio padre, allo scopo di smussare l’odore di stantio che regnava nella camera mortuaria. E quel profumo, diciamo pure quel buon profumo, mi ha perseguitato per anni: più esattamente, mi braccava negli anni quella commistione di profumo e di stantio, quell’aleggiare di profumo che non riusciva a coprire il lezzo di cadavere e di calura appiccicaticcia, quell’insopportabile sovrapporsi di due odori diversi che non riuscivano ad amalgamarsi bene, ma lottavano – forse soltanto nella mia testa di ragazzino – per cercare di prevalere l’uno sull’altro.
Negli anni a venire, vero o falso che fosse, immaginato o reale, lo sentivo dappertutto quell’odore, e mi proiettava, volente o nolente, in quella merda di camera mortuaria d’ospedale in cui si alternavano silenzi e singhiozzi, profumi e lezzi, parole sussurrate e ricordi in forma di lamento gridato. Il passaggio tratto da Lévi- Strauss, in cui si parla di memoria olfattiva e di profumo – per quanto da me scelto consapevolmente al fine di produrre, a partire dalla rabbia, uno scavo nell’intreccio di emozioni, sensazioni e cognizioni, soprattutto nel presente – ha ‘lavorato’ in modo autonomo, suppongo a mia insaputa, riallacciandomi a questo episodio del mio lontano passato che avevo seppellito negli strati profondi della mia memoria di adolescente di allora. Avevo undici anni, ne è passato di tempo! È venuto invece a galla adesso, inatteso, quel ricordo, mentre parlavo del più e del meno con mia zia, mentre il profumo di caffè si faceva strada verso le mie narici ignare e la notizia della malattia di mio zio è stata dichiarata di colpo, sebbene con dolcezza; è affiorato, a poco a poco, mentre cercavo di reprimere la rabbia che montava dal basso del mio corpo e si faceva spazio verso l’alto, verso una sua probabile razionalizzazione; è comparso, ritengo, anche grazie a quel passaggio, tratto da Tristi tropici di Lévi-Strauss, che avevo dimenticato da tempo, sotterrato dal mucchio di letture giornaliere di altri testi di antropologia; è spuntato, incredibilmente, in conseguenza dell’associazione col personaggio di Fante che beve un caffè proprio nell’incipit del suo ‘romanzo sull’inconcludenza’ – Chiedi alla polvere – mentre io ne bevo un altro durante la conversazione inconcludente con mia zia.
Mi chiedo, con perplessità, fino a che punto queste coincidenze casuali sono tali o, al contrario, come direbbe Jung (Jung 1980), rappresentano ‘coincidenze significative’, forme di sincronicità sulla cui finalità devo ancora mettere a fuoco, andando ancora a ritroso nella mia vita, nel mio passato trascurato, da recuperare, da dissotterrare attraverso – come mi sono proposto di chiamarle all’inizio del saggio – altre ‘distillazioni-partecipanti’. Perché, infatti, questo ricordo olfattivo è venuto a galla proprio ora, dopo anni, dopo una rimozione così lunga? Cosa aspettava per emergere? Chi lo tratteneva? Che posso saperne io? Potrei supporre che la notizia della malattia di mio zio mi ha proiettato nel passato facendo riaffiorare il ricordo della malattia di mio padre e la sua lotta contro la morte, purtroppo non vinta, finita nell’afosa Milano d’agosto. E io mi sono arrabbiato. E l’impotenza mi ha fatto arrabbiare ancor di più. E, sicuramente, l’arrabbiatura non è mai soltanto tale, cioè non è mai soltanto elemento emotivo fine a se stesso, ma risulta per lo più essere – se non altro nel suo svolgersi – un vero e proprio intreccio intessuto di emotività, razionalità e sensorialità che apre la strada ad associazioni varie e più o meno controllate o incontrollate. L’arrabbiatura è inoltre relazionale: mette in relazione con se stessi e con gli altri, benché in un modo inusuale, non pianificato, imprevisto. (Mattia, mio figlio, dice sovente – a proposito di ricordi, mi viene in mente or ora, mentre scrivo le conclusioni – che la rabbia serve a farsi capire: senza di essa non sarebbe così facile esprimere cosa si sente o si vuol dire.) In altri termini, la rabbia è uno strumento della comprensione intraindividuale e interindividuale. “Se mi arrabbio, in qualche modo comunico efficacemente (persino con parti di me stesso che non ne avevano voglia prima)”, si potrebbe dire.
Più comunemente, più generalmente, l’arrabbiatura viene intesa come una sorta di esplosione alla quale ci si lascia andare o alla quale, al contrario, un individuo riesce a opporsi. Persino in questi termini più semplici, minimali e oppositivi, l’arrabbiatura può essere intesa come una chiave di accesso all’individuo in società, sulla base di uno schema attanziale semplice ma significativo dal punto di vista antropologico: se ci si può lasciare andare alla rabbia, si sottintende che l’arrabbiatura è in fondo controllabile, individualmente, ma il suo intervento si rivela utilmente essere un ‘aiutante’ allo sfogo di quella parte dello stesso individuo che ne patisce l’influsso e così si libera; se, invece, non si è capaci di lasciarsi andare nonostante tutto, vuol dire che un ‘opponente’ prende il controllo e lo esercita sull’altra parte dell’individuo che subisce. Da questa prospettiva, si vede bene che la psiche può essere vista come un campo di forze interattanziali che si regolano e sregolano continuamente, narrando storie e controstorie, i cui protagonisti sono gli intrecci figurativizzati – sciolti e riavvolti – di emozioni, sensazioni e cognizioni.
Infine, per continuare l’enumerazione dei suoi possibili significati, è necessario ribadire il principio che l’arrabbiatura, per quanto fondata su un sostrato talvolta irrazionale, ha una sua logica d’ordine strettamente culturale, oltre che sintattico. È noto il controverso testo di Rosaldo in cui l’antropologo spiega il modo di concepire la rabbia da parte degli ilongot, tagliatori di teste delle Filippine. Perché tagliano le teste gli ilongot? Se lo si chiede a un ilongot, questi risponderà «che la rabbia, nata dal dolore, lo spinge a uccidere […] l’atto di troncare la testa della vittima e lanciarla in aria gli consente di sfogarsi e – così almeno spera – liberarsi dalla rabbia del suo stato di lutto e privazione» (Rosaldo 2001: 37). In altri termini, per quanto strano possa sembrare a noi, la pratica del taglio delle teste, da parte degli ilongot, è un fatto culturale – forse uno dei più importanti, ribadisce Rosaldo – e rappresenta una parte costitutiva dell’ordine sintattico in cui si inserisce la rabbia: dolore, rabbia, taglio delle teste. Per fare fronte alla perdita di una persona cara, dunque, un ilongot può fare riferimento, nella sua cultura, a questa sintassi in cui dolore, rabbia e taglio delle teste sono strettamente interconnesse e rappresentano, in sequenza, un modo attraverso cui il lutto viene ritualizzato.
Al pari della rabbia ilongot, e nonostante io non tagli teste ai miei simili, questo mio scritto è uno sfogo. Suppongo. Perché no? Lo prendo come tale, mi giova. Questo scritto è forse il risultato di uno sfogo: questo scritto è dopotutto uno sfogo. Ma è soltanto questo? Soltanto uno sfogo? No, non soltanto. Dietro il pretesto dello sfogo, si cela una disamina, in chiave autoetnografica, del modo in cui l’interiorità diventa esteriorità (e viceversa), del modo in cui ciò che è dentro di sé viene espresso all’esterno, agli altri, al prossimo. Lo sfogo, così concepito, può essere una porta efficace verso le emozioni e il loro agganciarsi alle ragioni di una cultura. Mi sono sfogato, lo ammetto definitivamente, mi sono liberato della rabbia provocata dalla mia evidente impotenza a cambiare lo stato delle cose, la malattia di un parente, il passato che non torna, i genitori che non ci sono più, l’inevitabilità della morte. Per quanto spesso nociva, soprattutto quando sfocia nell’aggressività inconsulta, io vedo la rabbia – quella auto-analizzata, riconvertita in elemento di riflessione su se stessi e sull’interazione con gli altri, con il presente e il passato, quella che consente di sfogarsi – come uno spazio di vera e propria liminalità. Gli spazi liminali sono sovente ambigui e latori di sofferenza. È pure vero però che essi possono essere illuminanti, individualmente e socialmente. Come scrive Stoller: «The liminal, then, can be a space of creative imagination, of provocative linkages» (Stoller 2008: 6).
Ovviamente – penso che risalti da sé leggendo questa mia distillazione-partecipante ancora in atto – gli spazi della liminalità non si impostano soltanto nella prossimità e nella distanza (da vicino e da lontano), ma, anche, dall’interno e dall’esterno. Tra le altre cose, soprattutto d’ordine esperienziale sulle quali ho insistito, mi preme ribadire anche un elemento d’ordine più teorico riguardante soprattutto la figura di Lévi-Strauss, un antropologo che continuo a stimare, nonostante le mie simpatie esistenzialiste e postmoderniste. Ci sono diversi Lévi-Strauss e non soltanto, come potrebbe più comunemente sembrare, una figura di uomo e studioso fissa nel tempo: come qualsiasi altro autore, nel corso degli anni, Lévi-Strauss è stato soggetto alle diverse tendenze teoriche che egli stesso ha contribuito a modellare e rimodellare, rifiutare o accettare, in conversazione con altri autori, persino con la sua stessa opera divenuta testo da leggere e rileggere, tradurre e risistemare di volta in volta. L’interazione tra individuo che pensa (e scrive) e la sua stessa opera (e le opere d’altri) non è mai statica, checché ne dicano i simpatizzanti delle essenze immutabili. E ciò vale, ancor di più, per uno studioso come Lévi-Strauss – così come per buona parte di antropologi che sono piacevolmente ‘costretti’ a lavorare in lingue e con culture diverse – che ha ‘praticato’ la sua disciplina in portoghese e in inglese, oltre che in francese, traducendo e riassumendo da una lingua all’altra, rivedendo talvolta alcuni passi, aggiungendo inoltre delle note qui e lì. A conferma di ciò, ecco cosa dice Lévi-Strauss nella prefazione a Antropologia strutturale:
«Molti miei articoli sono stati scritti direttamente in inglese, e bisognava dunque tradurli. Ora nel corso del lavoro, sono rimasto colpito dalla differenza di tono e composizione tra i testi concepiti nell’una o nell’altra lingua. Ne risulta una eterogeneità che, temo, compromette l’equilibrio e l’unità dell’opera. Questa differenza si può spiegare, in parte, con cause sociologiche; non si pensa né si espone nello stesso modo quando ci si rivolge a un pubblico francese o anglosassone. Ma vi sono anche ragioni personali. […] Io penso in inglese quello che scrivo in questa lingua, ma, senza rendermene sempre conto, dico quello che posso con i mezzi linguistici di cui dispongo, non quello che voglio. Di qui il sentimento di estraneità che provo di fronte ai miei testi, quando cerco di trascriverli in francese. E siccome è possibilissimo che questa insoddisfazione sia condivisa dal lettore, era necessario che ne dessi la ragione. Ho tentato di rimediare alla difficoltà adottando una traduzione molto libera, riassumendo alcuni passi e sviluppandone altri. Anche alcuni articoli francesi sono stati leggermente riveduti. Infine, ho aggiunto qua e là delle note, per rispondere a critiche, correggere errori, o tener conto di fatti nuovi» (Lévi-Strauss 1966: 11-12).
L’ipotesi, dunque, di un Lévi-Strauss rigidamente strutturalista e razionalista, alieno all’impatto prodotto dalla scrittura, va rivista con l’ipotesi di un Lévi-Strauss traduttore e revisore delle sue stesse opere, le quali, grazie tra l’altro a un effetto di estraneità (di cui parlerà poi, più diffusamente, recuperando la questione teoricamente, in Da vicino e da lontano), produrranno, nel tempo, una retroazione sul suo stesso lavoro. E ciò nonostante nello stesso testo, in Antropologia strutturale, Lévi-Strauss cerchi di fissare il compito dell’etnologo al di fuori del raggio d’azione della scrittura:
«L’etnologo s’interessa soprattutto a ciò che non è scritto, non tanto perché i popoli che egli studia sono incapaci di scrivere, quanto perché ciò che lo interessa è diverso da tutto ciò che gli uomini pensano solitamente di fissare sulla pietra o sulla carta» (Lévi-Strauss 1966: 11-12).
L’oscillazione incerta tra i due Lévi-Strauss va, forse, giustificata con lo sforzo di creare una nuova corrente in antropologia da parte dello studioso (lo Strutturalismo) e di fondarla su un sostrato teorico coerente e univoco. L’oscillazione, secondo me, è inoltre il frutto del fatto che un autore ‘migra’ nel tempo, teoricamente e praticamente, raffinando il proprio punto di vista, talvolta modificandolo o integrandolo. In questa ‘prospettiva oscillatoria’ – secondo cui un autore è soggetto al divenire della comunicazione e significazione nel tempo – non stupisce rileggere un Lévi-Strauss che, in Tristi tropici, parla proprio di distillazione dei sensi e di recupero del passato come forma di conoscenza sostenuta anche dalla scrittura meno convenzionale. A questo riguardo, non si può non pensare a Paul Stoller e alla sua idea di un sapere – lui la definisce sensuous scholarship (Stoller 1997) – che passa attraverso i sensi che lo costituiscono in parte indipendentemente dalla pura razionalità. Nonostante Stoller critichi, in alcuni antropologi, un modo eccessivamente razionalistico di concepire le credenze (per Lévi-Strauss impostato soprattutto sui simboli; per Evans-Pritchard impostato soprattutto sui rapporti di causa ed effetto) è possibile però, almeno a mio parere, fare un collegamento tra il modo di concepire la memoria (e i sensi) di Stoller e Lévi-Strauss, soprattutto il Lévi-Strauss di Tristi Tropici. L’instaurazione di un rapporto più stretto tra memoria e sensi può essere utile per capire un’altra cultura (i songhay con cui Stoller ha vissuto) o una complessa proiezione di un soggetto nel passato e nello spazio (il Brasile di Lévi-Strauss).
In ultima analisi, tuttavia, questo rapporto più stretto tra memoria e sensi – e, io aggiungerei, flussi di pensiero – dovrebbe, secondo me, andare in un senso specifico che più mi aggrada personalmente: comprendere meglio il valore della vita. Secondo lo stesso Stoller: «In the end, the most important question we face is: How can we live well in the world? How can we live well regardless of what is happening to us? A significant part of our well-being is, after all, internal» (Stoller, Stoller 2016: 162). Io, in qualche modo, la penso allo stesso modo di Stoller: il benessere, oltre che fondato su principi economici, deve anche, se non soprattutto, essere interiore. Personalmente, non mi importa molto di avere tanti soldi: mi basta il necessario e la libertà di potere fare però ciò che voglio senza costrizioni dall’alto, senza l’intralcio di chi crede di potere/sapere dire come stanno (o dovrebbero andare) le cose.
Per riepilogare e chiudere veramente, ricordo sinteticamente le questioni affrontate volutamente e direttamente, per partito preso, nel loro intreccio d’insieme, un intreccio che merita naturalmente un ulteriore lavoro di scavo in futuro: la semantica della rabbia in un contesto vissuto personalmente, l’uso di una scrittura meno convenzionale ai fini di un maggior scavo interiore, l’esemplificazione letteraria come contrappunto e verifica tematica ed esistenziale, la possibilità di descrizione del tempo e dello spazio nell’arco stesso della prossimità del vissuto, il contrasto tra ‘forme di vita concepite per fini da raggiungere’ e ‘forme di vita concepite nella liminalità’, la riflessione sull’oscillazione autoriale di un Lévi-Strauss preso tra strutturalismo e soggettivismo, la riformulazione in metodo più generale della – da me definita – ‘distillazione-partecipante’ (da sviluppare in concomitanza con l’osservazione-partecipante), l’insistenza sull’intreccio inestricabile tra emozioni, sensi e cognizioni (viste soprattutto nel loro aspetto di flussi magmatici e incontrollati), il tentativo di ridefinizione di un’emozione socio-individuale quale la rabbia.
Dialoghi Mediterranei, n.26, luglio 2017
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Stefano Montes, ha insegnato Letteratura francese, Antropologia Culturale e Semiotica nelle Università di Parigi, Catania, Tartu, Tallinn, Palermo e Agrigento. Al di là delle etichette disciplinari, s’interessa ai modi molteplici secondo cui dinamiche culturali organizzano forme testuali (letterarie ed etnografiche). Nelle sue ricerche, ha privilegiato le analisi delle narrazioni di vita, lo studio delle modalità di produzione della cultura in alcuni testi esemplari, l’enunciazione della soggettività nelle teorie e pratiche antropologiche. Da alcuni anni i suoi campi di interesse scientifico vertono sulle strategie di conversione religiosa e sull’esperienza turistica.
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