dialoghi oltre il virus
di Emanuela Del Re
La riflessione sulla teocrazia come forma di governo assume accenti fortemente politici oggi nell’attuale pandemia da Covid-19, e la tecnocrazia – spesso considerata una patologia politica e spesso associata a visioni utopistiche – viene evocata come forma di risposta alla crisi. Nell’ordinamento politico definito “teocrazia” è l’autorità religiosa che gestisce tutti gli aspetti della vita sociale, sia quelli religiosi sia quelli attinenti agli aspetti laici della vita. Le due sfere religiosa e laica coincidono, nella teocrazia, con la religione che diventa strumento della politica e viceversa. Arabia Saudita, Iran e Vaticano sono esempi di teocrazia, con specificità diverse.
Perché mettere a confronto teocrazia e tecnocrazia? La tecnocrazia è una forma di governo gestita da tecnici, che sono guidati dalla loro conoscenza tecnica. È una forma di governance sociale in cui il potere esecutivo segue il parere vincolante di esperti, in tutti i campi scientifici, dalla medicina all’ingegneria, dall’economia alla giurisprudenza, alla psicologia.
La discussione sull’opportunità di tali forme di governo si basa su argomenti a favore e contrari. Nel caso della tecnocrazia, sarebbe positivo il fatto che se persone che hanno competenze governano, il welfare migliora, il processo decisionale e normativo è più spedito. Tuttavia, sostengono gli argomenti contrari, si tratta di decisioni prese da piccoli gruppi, il che può portare ad abuso di potere e ribellione. La questione delle competenze scientifiche è un altro elemento controverso, perché in alcuni casi esistono diverse scuole di pensiero soprattutto in ambiti come la medicina. La teocrazia secondo alcuni è un’ottima forma di governo perché nelle mani di poche persone che stabiliscono le norme, e quindi il processo decisionale sarebbe più rapido, meno corrotto. Però, e questo è la critica, proprio il fatto che le decisioni siano prese da un piccolo gruppo, con norme basate sulla religione, limita la libertà politica.
In tempi difficili – insegna la storia del XX secolo – le società fanno spesso appello a tecnici, le cui impostazioni sarebbero più pratiche, flessibili, indipendenti nell’affrontare le crisi, conferendo loro de facto potere. Tempi difficili che portano, ad esempio, alla messa in dubbio della reale separazione tra Chiesa e Stato in alcune democrazie, asserendo che il confine tra i due ambiti si sarebbe fatto sottile, e proprio i tempi duri porterebbero società che hanno maturato certe pratiche – più che convinzioni – nel tempo, a cogliere l’opportunità di sintesi che la teocrazia offrirebbe dal punto di vista politico. D’altra parte, il Covid-19 sta mettendo a dura prova i sistemi-paese, provocando anche crisi politiche. Ad esempio in Iran dove si susseguono manifestazioni di protesta fin dal 2017, nel 2020 il focus si è spostato su quella che i manifestanti definiscono “incompetenza” del governo a causa della mancata adozione di misure restrittive per prevenire il contagio da Covid-19.
In questo momento storico, il volume Teocrazia e Tecnocrazia (Guida ed., 2019) a cura di Guglielmo Chiodi e Maria Immacolata Macioti si rivela coraggioso e opportuno, perché coglie l’essenza di una questione poco esplorata eppure sempre latente, che riemerge ciclicamente. Probabilmente è il caso dell’Iran che potrebbe costituire oggi il punto di partenza del libro di Chiodi e Macioti, perché sembra suggerire che laddove non arriva la teocrazia potrebbe arrivare la tecnocrazia – vista come analisi scientifica. Ma è vero anche il contrario, perché dove non arriva la tecnocrazia può arrivare la teocrazia, che può cancellare assunti scientifici sostituendoli con il ricorso alla fede per contrastare anche il virus più pericoloso.
L’Iran è oggetto nel volume di un saggio interessante di Leila Karami dal titolo “Paradossi incrociati”, in cui la studiosa analizza realtà e mito relativi al grande Paese, e offre una prospettiva proprio sulla dimensione teocratica. Un testo che apre alla riflessione su Iran e pandemia, che ci offre spunti, ad esempio, per comprendere il rifiuto di accettare la realtà del virus.
Scienza e fede non trovano sempre equilibrio, e nella situazione attuale possono essere entrambe strumentalizzate. In questo ragionamento la dimensione storica diventa significativa. Tra i saggi che raccoglie il volume, non a caso quelli di Iannone e Boccaccio propongono una visione storica. Iannone si sofferma sul rapporto tra tecnocrazia e epoche, e sui movimenti di pensiero che a seconda dei contesti storico-sociali e politici orientano le società verso la religione o verso la tecnocrazia. Boccaccio nella sua ricostruzione ci porta a individuare punti di convergenza tra teocrazia e tecnocrazia nella storia, alla luce del concetto di progresso e dei cambiamenti ideologici che esso ha comportato. Parla di un salto epocale nella storia umana che mette in relazione morale e azione, rendendo a volte ciò che è possibile fare anche moralmente accettabile. Fondamentale comprendere questo passaggio perché in questo momento la pandemia ha sollevato questioni morali importanti, come ad esempio, incredibilmente, la possibilità eventuale di scegliere chi curare – in caso di scarsità di strutture e cure mediche – tra anziani e giovani. Il dibattito è restato sommesso, ma pone questioni di etica e bioetica molto serie che probabilmente riemergeranno.
Tecnocrazia e teocrazia restano dunque opzioni sempre valide, ma in opposizione e competizione tra loro o integrate tra loro? Chiodi e Macioti in questo libro utilissimo affrontano un accurato e non facile esercizio di definizione dei due concetti, sviscerando i nodi interpretativi per attrarre l’attenzione sulle trappole che emergono da facili collegamenti di causalità tra certi fenomeni sociali attuali – soprattutto in ambito religioso – e l’affermarsi della tecnocrazia. Quello che domina tutto sta nella desinenza, quel “crazia” di greca origine che cambia tutto quando è accostato a un concetto specifico. Per questo Castellano, Petroccia e Pitasi si soffermano nella loro analisi sull’accezione politica del concetto di tecnocrazia alla luce dell’attuale assetto globale, asserendo che se è chiaro che c’è bisogno di forme di governo globali oggi, allo stesso tempo è chiaro che queste devono essere accompagnate da una nuova consapevolezza politica globale su cui poggiare un nuovo equilibrio che superi la sovranità nazionale.
L’Unione Europea sarebbe un buon esempio, perché dotata di strutture sovranazionali che dovrebbero risolvere problemi comuni. Eppure, ricorda Consavo Corduas nel suo saggio, l’UE non ha compiuto il suo processo costituzionale, la Costituzione è incompiuta per cui si ricorre a una “flessibilità” per consentirle di vivere anche senza la sua carta d’Identità. Proprio questa incompiutezza avrebbe portato a quello che potrebbe essere definito un regime tecnocratico nell’UE, argomento anche questo di stretta attualità, visto che l’UE è chiamata proprio a risolvere i problemi comuni con azioni comuni. La Cooperazione Internazionale diventa più che mai un obiettivo essenziale, e la tecnocrazia, dicono Castellano, Petroccia e Pitasi, in contesti come questi si propone come soluzione, perché fa ricorso alla scienza, e tutto diventa indagabile con lo strumento delle scienze esatte. Cosa rischiosa, perché l’aspetto qualitativo rischia di venire offuscato, e l’analisi sociologica, ad esempio, in un fenomeno eminentemente sociale, potrebbe finire con l’essere subordinata agli indicatori quantitativi. Ma in questo momento storico predominano l’urgenza sanitaria e quella finanziaria. Essenziale l’apporto dei tecnici, ma non privo di criticità, sostiene Musaraj nel suo saggio, analizzando i Balcani Occidentali uno per uno nel loro processo di integrazione nell’UE. Sostiene che il potere dei tecnici in questo percorso sia molto incisivo, e bisogna saperlo.
Dove avviene la fusione tra tecnocrazia e teocrazia? Nei Big Data? La pandemia ha offerto una piattaforma eccezionale per i Big Data. Si è sollevato un dibattito molto acceso sulla questione del rapporto tra Big Data e privacy, ad esempio, perché i governi estraggono dati da sistemi privati e pubblici per prevenire o contrastare la diffusione del virus, ma queste azioni potrebbero portare a nuove norme, e queste norme potrebbero diventare permanenti anche se adottate in tempi straordinari. Maroscia nel suo saggio nel volume riflette proprio sul fatto che i numeri non sono neutrali, che possono avere un valore politico, che producono algoritmi che non sono sempre governabili. E torna il tema della necessità della ricerca qualitativa, della dimensione qualitativa.
Quale l’effetto della pandemia sulle persone? Come lo misureremo nel tempo? Quali le reazioni momentanee e quali i cambiamenti epocali permanenti? Che uomini e donne saranno i bambini che hanno vissuto il lockdown? Non bastano i numeri a dircelo. Macioti, studiosa che ha promosso da sempre la ricerca qualitativa, non ha trascurato questo aspetto nel volume, chiedendo a Spinelli di partecipare a questo esercizio analitico. Spinelli, regista, documentarista, condivide nel volume riflessioni scaturite dal suo documentario Da’Wah girato in Indonesia. Ecco la dimensione qualitativa: Spinelli ci riporta, sulla base delle sue osservazioni sul campo, a temi di pace, alla necessità di impegnarsi per ottenerla, anche con lo studio dei testi sacri, con l’educazione al dialogo. Grandi ideali alla prova della quotidianità della discriminazione, della persecuzione.
E torniamo così alla pandemia, pervasiva, senza confini, che soffia da est a ovest e da nord a sud senza risparmiare nessuno mettendo a rischio anche la tenuta sociale e politica delle società. Teocrazia e tecnocrazia presenta anche questa dimensione pan-geografica, conducendo il lettore in molti luoghi, attraverso molti confini. E allora possiamo concludere questa breve digressione ispirata dal volume con Germano: per rifuggire il nulla prodotto da società guidate dall’ossessione del web – anche ora durante il Covid-19 – bisogna tornare alla realtà sociale.
La situazione attuale ci impone, a mio parere, una forma di iper-realismo che porta a iper-azioni di cui non possiamo ancora misurare l’impatto perché le sperimentiamo mentre le viviamo. Il libro a cura di Chiodi e Macioti va letto, perché ci offre una pausa intellettuale che dobbiamo imporci per sapere come pensare al futuro. Un futuro che forse trascenderà teocrazia e tecnocrazia, trovando nuove soluzioni sociali che potrebbero davvero sorprenderci positivamente, ma solo se ci arriviamo preparati.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
______________________________________________________________
Emanuela C. Del Re è sociologa, specialista nello studio dei conflitti etnici e religiosi, Cooperazione allo Sviluppo, migrazioni, sicurezza. Professore Associato Abilitato, Ricercatrice confermata (Uninettuno), ha insegnato per anni presso l’Università La Sapienza di Roma. Vice direttrice della Rivista “Religioni e Società” diretta da Arnaldo Nesti, dal 1990 ha condotto sul campo ricerche in zone di conflitto (Balcani, Caucaso, Africa, Medio Oriente). Attualmente è Vice Ministra per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale (anche nel I Governo Conte) e deputato della Repubblica. Testimone delle trasformazioni sociali, politiche, economiche nel mondo – Kosovo, Iraq, Afghanistan e oltre – ha dato voce a politici, vittime, società civile e altri attraverso numerose pubblicazioni, film-documentari, attività accademica e nei fora internazionali. Scrive su importanti riviste e collane italiane e internazionali tra cui Limes, di cui è membro del consiglio redazionale. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Women and Borders. Refugees, Migrants and Communities (Tauris, 2018), con S. Shekhawat; Il comportamento collettivo. “Via con la pazza folla”: internet, ultras, terrorismo e oltre (Rubbettino, 2012).
_______________________________________________________________