Come un pomeriggio al mare, sotto il sole che fa crescere e nutre, un pomeriggio solare come leggiamo in Camus, una estate mediterranea sempre alla ricerca di una misura delle cose, acque e terra, coste, movimento delle onde; come uno sguardo lungo all’altipiano poco prima del tramonto, un mare di terre sterminato, orizzonte lontano, ore che sembrano perdersi, conti che non possono tornare.
Avventurarsi sulla strada delle similitudini può sortire effetti appaganti per lo spirito, però se volessimo scrivere di cosa sia oggi (e forse anche ieri) la poesia, basterebbe osservare attentamente questo nostro evo: ne vediamo così l’individualismo spietato, le smagliature nei rapporti tra gli esseri umani e tra questi e il Mondo, casa comune in rovina. La poesia è laddove qualcosa si perde, laddove restare e partire coinvolgono e intrecciano le storie degli esseri umani, laddove un bambino parla con una pietra inventando avventure e incredibili storie. La poesia è l’esattezza del dire, la verità senza infingimenti, lo sguardo soprattutto, anche lo sguardo ironico e disincantato sulle dinamiche del Mondo.
Poeta dell’ironia e della esattezza della scrittura è stato Lucio Zinna, morto lo scorso 11 luglio, «forse davvero l’ultimo protagonista di una stagione culturale vivace e irripetibile, e proprio per questo ormai consegnata all’oblio e alla memoria di quei pochi testimoni che l’hanno attraversata», come ha scritto Francesco Vinci [1]. Lucio Zinna è stato poeta, romanziere, raffinato saggista, scrittore appartato nella odierna “societas” letteraria italiana sempre più autoreferenziale, uomo sensibile e premuroso. Tre anni fa Bonifacio Vincenzi ha curato per i tipi “Italia insulare: i poeti” della sua casa editrice Macabor un volume prezioso che ripercorre tutta la poesia di Zinna con importanti interventi critici e una aggiornata bibliografia dell’autore e sull’autore: Lucio Zinna: ritratto di un poeta [2]. Precedentemente, nel 1994, era uscita la prima antologia delle poesie di Lucio Zinna intitolata Il verso di vivere (1994), libro curato da Francesco De Nicola per i tipi dell’editore Caramanica.
Tra gli autorevoli interventi critici raccolti nel volume di Macabor, citiamo qui le parole di Elio Giunta sulla vita e sulla poesia di Zinna:
«(…) riflettiamo come due siano le tensioni che caratterizzano le esistenze di ognuno di noi: il bisogno di sopravvivenza e il desiderio di felicità (…) Ma c’è anche un’altra via, quella dell’aderenza consapevole alla vita, smussandone i giorni dalle false attese, ponendo in una logica analitica le occasioni dolorose, snobbando le sollecitazioni al plauso del coro, sempre attenti al dettaglio. Ed è la vita dei poeti: un saggio ridursi al semplice mestiere di vivere, prendendo sempre il mare per il suo verso. (…) Questa in definitiva è stata la via di Zinna, poeta di pensiero, allorché appunto ci vuole invitare “a prendere il giorno come viene”» [3].
“Prendere il giorno come viene” qui vale non come abbandonarsi allo scorrere della vita senza scorgerne attriti, inciampi, sconvolgimenti veri e propri talvolta: è piuttosto una consapevolezza operosa dell’essere umani e sentirne responsabilità nelle azioni quotidiane, anche le più apparentemente insignificanti. Questa la “linea” della poesia di Zinna, e diremmo la traccia che i grandi poeti sempre seguono, mai disancorati dalla responsabilità della scrittura come testimonianza di vita.
Lucio Zinna nasce a Mazara del Vallo e muore a Bagheria; in mezzo a questi due estremi della sua vita è Palermo, città nella quale anima il gruppo di poeti di avanguardia “Gruppo Beta” (1964) insieme a Miki Scuderi, Nick Di Maio e Castenze Civello: ha scritto Salvatore Ferlita «Cavallo di battaglia del gruppo, l’esigenza di un nuovo umanesimo, da opporre allo sviluppo tecnologico indiscriminato, all’uso spersonalizzante della macchina» [4]. Sono gli anni ’60 e ’70 per l’Isola un fiorire continuo di gruppi e antigruppi, dibattiti culturali, neoavanguardie vere o presunte. Crescenzio Cane, Gaetano Testa, Roberto Di Marco e Pietro Terminelli sono gli autori del libro Quattro poeti (1961), mentre Edoardo Cacciatore, Antonio Pizzuto e Stefano D’Arrigo (misconosciuti ancora oggi a molti della colta società letteraria italiana) hanno pubblicato rispettivamente La restituzione, Si riparano bambole e I giorni della fera. Il fermento poetico siciliano ha nel Codice siciliano di Stefano D’Arrigo un punto luminoso fondamentale, a nostro avviso.
Lucio Zinna si muove dentro a queste congreghe con distacco, osservando con precisione, ad esempio, le dinamiche del cosiddetto Antigruppo. Scrive Carmelo Aliberti a proposito del rapporto di Zinna con l’Antigruppo e in generale con la neoavanguardia poetica:
«l’esercitazione linguistica in Zinna fu limitata ad un contenuto gioco-formalistico, in quanto egli ritenne pura illusione cambiare il sistema con la parola, per cui, secondo le sue dichiarazioni, rimase “con un piede dentro e un piede fuori” rinnovando le proprie strutture sintattiche, senza scivolare nella retorica della Neoavanguardia, avviando, invece, un’operazione di scavo della realtà, con gli strumenti della riflessione, passando dal gioco della parola, all’impegno civile, filtrato attraverso l’impegno etico che privilegia la pigmentazione ironica degli eventi, alla sovrapposizione sentenziosa» [5].
Se è vero che, come scrive Gesualdo Bufalino, è «impossibile per uno scrittore siciliano non scrivere della Sicilia», Zinna scriverà tantissimi interventi sui poeti siciliani, con grande generosità e attenzione; oltre ai poeti noti nel panorama delle lettere italiane, egli si è occupato di autori quali Giuseppe Ganci Battaglia, Calogero Bonavia, Orazio Napoli, Lino Angiuli, Pietro Mignosi, Achille Serrao, Mario Gori, Rolando Certa, Giuseppina Turrisi Colonna, Petru Fudduni. Dedicherà un libro, Lettere siciliane, ad alcuni autori che hanno informato il suo pensiero e la sua scrittura, ovvero Antonio Pizzuto, Ignazio Buttitta, Orazio Napoli, Virgilio Titone e Santino Caramella. Del suo concittadino, il grande poeta mediterraneo Orazio Napoli, ha scritto: «Orazio Napoli non è poeta che meriti di essere liquidato sulla scia di mutevoli umori della “piazza” letteraria, con i suoi “borsini” dalla volatilità analoga a quella delle “piazze” finanziarie, mentre il nostro Novecento letterario, nelle sue sistematizzazioni, appare soggetto all’urto di spinte e controspinte, spesso interessate» [6]. Queste sue parole potremmo usare per definire il suo percorso culturale e poetico, che è fondamentalmente un percorso di vita ricco di incontri, relazioni, impegno civile nel segno di una vocazione letteraria che Carmen De Stasio ha definito, a partire dalle «cadenze intramontabili nel tracciato umano» come, «coronata attraverso un pulsante pensiero che spinge all’indagine delle contingenze in un ritmo pienamente circadiano (…) una scelta e, insieme, una svolta che porta a coincidere poesia e testimonianza del verso di vivere (dal titolo di una sua raccolta) nell’interlocuzione con la realtà complessa di gesti e rimandi continui» [7].
Nessuna concessione alla posa letteraria cogliamo nelle poesie di Zinna: come ha scritto Raffaele Pellecchia, quello di Lucio è uno «stile di vita come stile di scrittura: l’uno e l’altra perseguiti con rigore e sobrietà, senza clamori ma senza reticenze, con pudore e insieme con coraggio e coerenza, senza velleitarie corse in avanti ma anche senza indietreggiamenti e chiusure in rassicuranti nicchie difensive e, di fatto, conservatrici» [8].
Appartiene alla raccolta poetica Il filobus dei giorni (1964), la poesia “Sparse mi ritorna sequenze”, che mi ricorda tanti racconti sulla Seconda guerra mondiale che ho ascoltato da mia madre e da mia nonna: è il racconto questo della fila per ricevere il poco cibo razionato, la paura dei bombardamenti e i rifugi antiaerei, gli americani che distribuivano chewingum, sigarette, barrette di cioccolato:
Mia madre nelle code
pane nero zuppa di lumache
posti di blocco elmetti muri scritti
urlo di sirene e notti sane
nei rifugi zeppi di gente
che guardavano con occhi senza sonno.
Lucio Zinna “vede” con gli occhi di chi gli ha raccontato, la memoria si nutre infatti di reminiscenze, anche sbiadite e lontane; tuttavia, corroborate dalle storie che nella nostra vita abbiamo avuto la ventura di ascoltare e che diventano così anche la nostra storia personale. La più convincente ricerca letteraria è quella di chi si occupa delle persone, della loro storia; la ricerca di chi dà voce a persone che altrimenti resterebbero mute per la storia ufficiale: pensiamo a Nino De Vita, a Vincenzo Consolo, a Danilo Dolci, a Maria Attanasio. Zinna si colloca proprio su questo versante letterario “impegnato”, dove con la parola tante volte equivocata, “impegno” appunto, si intenda non solo la presenza personale del poeta a festival, raduni, antologie collettanee, ma soprattutto la cura che chi scrive usa nella relazione con gli altri. Questo è l’impegno per eccellenza degli intellettuali, a mio avviso, e leggendo Zinna si ha proprio la certezza di un filo rosso etico che percorre l’intera sua produzione letteraria, non a svantaggio della forma però, che è sempre curata e cantabile, come in questi versi che traiamo sempre dalla poesia “Sparse mi ritorna sequenze”:
Io non vidi la morte ma la sera
mia madre lavorando a punti d’ago
i miei occhi chiamava due bottoni
grossi di vetro.
Ancora da Il filobus dei giorni leggiamo questi versi tratti dalla poesia “Processione”:
Certo non mi colpisce il santo
quanto Te, giovane conversa
che rechi il cero. Gli occhi il volto
il corpo tutto
parlano di vita.
Vita che irrompe
da ogni poro
antitesi al cero…
nella quale spicca ancora una volta lo sguardo di Lucio sul mondo, sulle persone, sui momenti della vita quotidiana come in uno scatto fotografico.
Riporto integralmente qui la poesia “Mio padre”, che tanto ricorda “In memoria” di Ungaretti con quel Moammed Sceab che visita in ogni tempo e in ogni luogo la memoria di chi parte, dei diseredati, degli sradicati, di chi ha sacrificato per qualcuno anche la vita:
Quando mio padre partì dal Marocco
io dovevo nascere ancora.
Andava in cerca di lavoro
e invece patì la fame.
La guerra lo portò lontano.
Fu prigioniero: giocò
con la morte e vinse lui.
Dopo il ciclone lo rispedirono
con un fardello di stracci
e il cuore nero, a Casablanca.
Conobbe una donna spagnola
ebbe un figlio da lei.
(Mia madre cucendo sacrificò
Per me gli occhi e la gioventù).
Un giorno tornò
che già mi preparavo la tesi.
Parlava un linguaggio arabo-franco-siculo.
Era un tipo sensibile.
- Se avessi avuto le scuole –
mi confidò – sarei divenuto poeta –
Poi mi chiese perdono
con occhi velati
chiese perdono a mia madre.
Il destino – si dissero – il destino.
Quindi riprese il treno
Quella stessa sera.
Si sente un’eco ungarettiana a mio avviso chiarissima: E forse io solo / so ancora / che visse, ma anche l’eco più remota e “archetipica” del rapporto Odisseo-Telemaco, come ha efficacemente notato Rinaldo Caddeo [9].
Il gusto del racconto, la pietas per una umanità derelitta e sola, ai margini della vita è nella poesia “Funerale all’Albergheria” contenuta nella raccolta Da un rapido celiare (1974). È la storia di una donna che subisce violenza da parte del marito, una donna che sulle braccia e sul volto porta scritta l’offesa della storia.
La poesia “Terra d’esordio” fa parte della raccolta Sàgana (1976) ed è a mio avviso emblematica e centrale nella produzione di Zinna per svariate ragioni. Qui il Nostro usa un linguaggio ancora diverso rispetto a quello usato nelle precedenti raccolte, qui Zinna ci mostra il proprio heimat, la radice profonda del suo canto, che è canto profondamente mediterraneo:
Dove s’insinua il fiume tra le case
e taglia la città e sconfinate frontiere
pone a un lato il mare – nostro una volta
ora conteso da due povere genti – dove
narrano storie per un lungo garage i
pescherecci e dove amico il vento reti
asciuga a un sole vagamente desertico (…).
Un luogo che potrebbe somigliare a una qualunque città sulle rive del Mare Nostrum, un luogo tagliato da un fiume, il Mazaro, e posto di fronte al Canale di Sicilia (o di Tunisi): Mazara del Vallo centro del Mediterraneo, porto franco, terra di mare dove restare e partire si compendiano nei volti, nei gesti delle persone, nella luce d’opale e ocra. Ne scrisse Consolo:
«Giunsero da Madhia, Sfax, Sousse, Monastir, Biserta, Tunìs, a gruppi sparuti, a scaglioni, a squadre massicce, in questa casbah separata dalla loro medina da un braccio di mare d’un centinaio di miglia, si sparsero per i bagli in rovina, le masserie deserte, le vigne (…) in questa terra speculare alla loro, uguale nel clima, nella luce, nel paesaggio, nelle fisionomie, nel cibo, nei suoni gutturali, aspirati della parlata, giunsero questi arabi a riempire i vuoti della fatica lasciati dagli emigrati locali…» [10].
Mazara del Vallo è il luogo della formazione di Zinna, una città che è anche “dentro” il corpo del poeta come sangue: «appresi ad amare e a patire – io – sorto / a grave vigilia d’armi nella costellazione / dei pesci – azzurro prediligo e di salmastro / forse il mio sangue è sapido – una domenica / di carnevale paesano. Di maschere operaie / un carro bagordava nei pressi, malinconiva / follemente romantico un violino». È la Mazara del restare e partire, il luogo ove si mischiano siciliani e Arabi ma non più la splendente città descritta da Idrisi, ma una città sovvenzionata dal miracolo economico degli anni Sessanta: «Mazara s’arricchì d’improvviso», scrive Consolo, «il denaro circolò impetuoso, cascò a valanghe, s’aprirono banche, botteghe, si risvegliò la campagna, s’abbandonò la casbah, la vecchia città di tufo e di malta, se ne costruì intorno, sulla piana, una nuova di cemento e marmo» [11].
Ogni poeta ha un paese, una città dentro di sé, e la sua scrittura ne mostra variamente strade, vicoli, angiporti, feritoie, cortili e muri; canali, segrete vie, colori e odori, vertigini e ritrosie come slanci. Ansia di chiarità è nella scrittura di Zinna, come la veduta prospettica di Piazza della Repubblica, colore azzurro della lontananza, dell’altrove “a portata di mano” ma sempre un poco più in là, come l’Africa, come le coste sempre cangianti delle sponde del Mediterraneo.
La tensione sempre presente tra il qui e l’altrove è certamente un motivo della poesia di Zinna, così come la ricerca di consistenza nel mondo, la ricerca del migliore modo di vivere nonostante spesso la vita sparigli le carte, il caso muova le pedine della scacchiera come un impertinente refolo di vento. Ciò nonostante, «Opera tu per la tua parte / mettiti in guerra la coscienza – insisti stringi / i denti – per il resto (sia chiaro) la vita / è vita e va (per la sua parte) dove la vita vuole / nei parametri suoi sceglie discreta a volte brutale / e all’improvviso arruffa sconvolge come un sisma / c’è una scala Mercalli del vivere con cui / si ristabilisce il gioco delle parti il misto imperio» (“Il bivio”, da Abbandonare Troia, 1986).
Una poesia del 1979 appartenente sempre ad Abbandonare Troia, è “Sessantacinque versi per il treno della Maiella”, «un viaggio di sofferenza, accompagnato dalla memoria dolente per la madre, da un’Italia centrale di paesi di campagna sempre più spettrali ad una Palermo “tradita moribonda / tra rifiuti e mostruosi palazzi”» [12].
La situazione dei paesi dell’Italia centrale rispetto al 1979 di “Sessantacinque versi per il treno della Maiella” è nettamente peggiorata, così come quella di Palermo, sempre sommersa dai rifiuti e in stato di totale abbandono, perduta tra fast food e periferie dove solo la scuola è presidio dello Stato.
La poesia deve servire a svegliare la coscienza, perché la coscienza dell’uomo sia in guerra contro se stessa, contro le facili convinzioni, l’acqua cheta del pensiero unico. L’uomo contemporaneo è un Odisseo sempre in viaggio ma che non fugge, bensì affronta i problemi della vita quotidiana cambiando lo sguardo sulle cose, affinandolo, percependone la hegeliana “sostanza etica”, «prima che entrino falsi cavalli / con semafori zebre ciminiere mitragliette skorpion / e kermesse mondane e sindacati autonomi e confederali…»[13]
Lucio Zinna ci lascia una testimonianza poetica vera, onesta nel senso sabiano; senza alcuna pretesa e con affetto e disincanto ma con altrettanta grazia ci ricorda cosa siano i giorni, questo ammasso di ore minuti secondi, questo fiorire di albe e tramonti, questa fatica e questo incanto che può trovarsi accanto a noi, insospettatamente; questi giorni «di biondo miele / e di nero veleno. / Giorni di primo amore / (che si credette vero) / giorni di vero amore / (brucia come un cero)» (“Tiritera dei giorni”, da La casarca, 1992).
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Note
[1] Cfr. Francesco Vinci, Addio a Lucio Zinna, poeta e saggista mazarese, su www.itacanotizie.it
[2]Aa. Vv., Lucio Zinna: ritratto di un poeta, a cura di Bonifacio Vincenzi, Macabor, Francavilla Marittima (CS) 2021.
[3] Elio Giunta, “Lucio Zinna e la saggia ironia del vivere”, in Aa. Vv., Lucio Zinna: ritratto di un poeta, op. cit.: 47
[4] Salvatore Ferlita, Sperimentalismo e avanguardia, Sellerio, Palermo 2008: 142
[5] Carmelo Aliberti, Lucio Zinna, “Terzo Millennio”, Barcellona Pozzo di Gotto (ME) 2018
[6] Lucio Zinna, Lettere siciliane. Autori del Novecento dentro e fuori circuito, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2019: 48.
[7] Carmen De Stasio, “Nel multiverso della materia – Le percorrenze poetiche di Lucio Zinna in Aa.Vv., Lucio Zinna: ritratto di un poeta, pp. 49-55
[8] Raffaele Pellecchia, “Lucio Zinna: “Le style est l’homme même”, in Aa. Vv., Lucio Zinna: ritratto di un poeta, op. cit.: 57.
[9] Cfr. Rinaldo Caddeo, “Tra acque, terre, cielo e mondo ipogeo, Ulisse e il Ciclope e Telemaco, il filo di un gomitolo di Lucio Zinna”, in Aa. Vv. Lucio Zinna: ritratto di un poeta, op. cit: 73-80
[10] Vincenzo Consolo, L’olivo e l’olivastro, Mondadori, Milano 2007: 137 e 138.
[11] Ibidem: 140
[12] Cfr. Francesco De Nicola, “Per Lucio Zinna: le poesie non sono solo parole”, in Aa. Vv. Lucio Zinna: ritratto di un poeta, op. cit.: 62.
[13] Cfr. “Sessantacinque versi per il treno della Maiella”, in AA. VV. Lucio Zinna: ritratto di un poeta, op. cit.: 130.
Riferimenti bibliografici
Aa. Vv. Lucio Zinna: ritratto di un poeta, a cura di Bonifacio Vincenzi, Macabor, Francavilla Marittima (CS) 2021.
Albert Camus, L’estate e altri saggi solari, Bompiani, Milano 2019
Carmelo Aliberti, Lucio Zinna, “Terzo Millennio”, Barcellona Pozzo di Gotto (ME) 2018
Gesualdo Bufalino, Il fiele ibleo, Avagliano Editore, Cava de’ Tirreni 1995
Lucio Zinna, Lettere siciliane. Autori del Novecento dentro e fuori circuito, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2019
Salvatore Ferlita, Sperimentalismo e avanguardia, Sellerio, Palermo 2008
Vincenzo Consolo, L’olivo e l’olivastro, Mondadori, Milano 2007
_____________________________________________________________
Nicola Grato, laureato in Lettere moderne con una tesi su Lucio Piccolo, insegna presso le scuole medie, ha pubblicato tre libri di versi, Deserto giorno (La Zisa 2009), Inventario per il macellaio (Interno Poesia 2018) e Le cassette di Aznavour (Macabor 2020) oltre ad alcuni saggi sulle biografie popolari (Lasciare una traccia e Raccontare la vita, raccontare la migrazione, in collaborazione con Santo Lombino); sue poesie sono state pubblicate su riviste a stampa e on line e su vari blog quali: “Atelier Poesia”, “Poesia del nostro tempo”, “Poetarum Silva”, “Margutte”, “Compitu re vivi”, “lo specchio”, “Interno Poesia”, “Digressioni”,“larosainpiù”,“Poesia Ultracontemporanea”. Ha svolto il ruolo di drammaturgo per il Teatro del Baglio di Villafrati (PA), scrivendo testi da Bordonaro, D’Arrigo, Giono, Vilardo. Nel 2021 la casa editrice Dammah di Algeri ha tradotto in arabo per la sua collana di poesia la silloge Le cassette di Aznavour. Con Giuseppe Oddo ha recentemente pubblicato Nostra patria è il mondo intero (Ispe edizioni).
_____________________________________________________________