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Spazio e luogo, ricerca e architettura, ideazione e creazione

coverdi Antonino Cusumano 

Costruire è un po’ come rifare il mondo, ha a che fare con la cosmogonia, con la dimensione sacra della Genesi connessa all’atto culturale di organizzazione e plasmazione dello spazio.  Lo abbiamo appreso, tra gli altri, da Mircea Eliade che riconduce ogni costruzione ad un “centro” simbolico, ad un archetipo magico-religioso, ad un modello microcosmico, all’axis mundi, punto di congiungimento tra Cielo e Terra, tra universo degli dèi e regno ctonio. «La cosmogonia è il modello e il tipo di tutte le costruzioni, e ogni città, ogni nuova casa che si costruisce, imita ancora una volta, e in un certo senso ripete, la Creazione del Mondo. Infatti, ogni città, ogni abitazione, sta al “centro dell’universo”, e in questo senso la sua costruzione è stata possibile soltanto abolendo lo spazio e il tempo profani e instaurando un tempo e uno spazio sacri» (Eliade 1976: 390).

In quanto ideogramma della Creazione la costruzione è costitutivamente azione correlata al mito di un sacrificio, quello primordiale delle origini, che vale a ‘riparare’ e reintegrare quanto dell’integrità della Natura o dell’ordine del cosmo è stato minacciato, offeso o sconvolto. La vita che si immette nelle fondamenta o nel corpo di un nuovo edificio nasce e si perpetua attraverso una morte rituale, un sacrificio umano in età arcaiche e poi divenuto simbolico – eseguito con il seppellimento di oggetti, di ossa, di alimenti, di monete – che Eliade ha documentato nelle tradizioni popolari, orali e materiali, in forza delle quali «le cose fatte, fabbricate, nascono e durano nella misura in cui diventano corpi organici» (Eliade 1990: 81). Il pranzo che ancora oggi si suole consumare in alcuni cantieri edili dopo la prima operazione di copertura del fabbricato è in fondo sopravvivenza o reminiscenza di quel rito che vale a scongiurare la paura del “vuoto” e propiziare l’atto di fondazione del “nuovo”, per assicurare entro un orizzonte protetto lo spazio destinato all’insediamento.

s-l1600Se è dunque vero che il costruire è di per sé un atto rituale che replica il momento aurorale della creazione dei mondi, l’abitare è paradigma verbale e fattuale non meno investito di valori e significati eminentemente simbolici. Lo stesso Eliade ci ha insegnato che l’abitazione è il luogo da cui il mondo può essere rifondato, riconosciuto, replicato. Nella casa s’incrocia la linea verticale che conduce agli dèi e quella orizzontale che ricongiunge i viventi ai defunti. Ordito e trama di quella tessitura del “centro” in cui consiste il processo culturale e umano di appaesamento, di domesticazione e appropriazione dello spazio. Non esiste spazio infatti al di fuori di queste coordinate, che nel costruito proiettano e materializzano come in un’estensione del corpo – una simmetria tra cosmo, casa e corpo umano – i confini tra interno ed esterno, tra familiare e naturale, tra privato e pubblico, tra sacro e profano. Non esiste spazio se non in quanto creazione e significazione culturale, se non rispetto ad una grammatica di segni, forme, volumi, regole, relazioni.

Ciò che costruiamo nel luogo in cui ci insediamo è l’immagine non solo di ciò che siamo ma anche di ciò che condividiamo con gli altri o dagli altri ci separa, ci fa diversi. Nella delimitazione dello spazio e nel suo ordinamento architettonico ci sono da sempre elementi morfologici, plastici, cromatici, estetici che trascendono le mere esigenze tecniche di costruzione e rinviano allo statuto segnico e simbolico. Cos’è infatti l’architettura – almeno nella sua funzione primitiva – se non l’arte esistenziale della perenne tensione dell’uomo a connettere natura e cultura, la vita nella sua duplice sfida, tra la risposta ai bisogni di produzione e riproduzione biologica e la incessante ricerca di un orizzonte di senso? «In una forma o nell’altra, – ha scritto Eliade (1990: 95) – l’architettura è rimasta fino a molto tardi in Europa, una espressione in pietra del corpo umano, o per meglio dire della misura umana. E attraverso l’architettura l’uomo si reintegrava o si armonizzava con esso, così come faceva, ad esempio, attraverso la musica, la filosofia o l’iniziazione».

Come è noto, del costruire l’architettura non è la scienza delle tecniche ma è piuttosto l’arte del progettare, compendio di idee e di visioni, pagina indissociabile della storia della cultura, perché – come ha scritto Antonino Buttitta (1998: 8) – «se gli uomini si diversificano dagli altri esseri viventi in quanto produttori e consumatori di simboli, il costruire, al di là della fisica evidenza dei suoi prodotti e della funzione concreta cui sono destinati, costituisce uno degli ambiti nei quali questa peculiare attitudine umana si testimonia e si impone in tutta la sua forza pervasiva e eversiva». Non c’è infatti probabilmente materia più densa di richiami mitici e magici delle ‘forme del tempo’ plasmate e custodite nelle pietre delle costruzioni, sostrato basilare delle civiltà urbane e rurali. Ai valori costruttivi della tradizione architettonica si connette quell’unità di linguaggio e di sintassi che, a livello profondo, informa il senso dell’abitare e amalgama l’immagine complessiva dell’abitato, quella pratica dell’edificare che – come ha annotato Natoli Di Cristina (1965: 75) – «trova nella salda correlazioni tra le parti e il tutto, nella limpida corrispondenza tra i ritmi spaziali e le strutture della vita, nella profonda integrazione tra l’elemento urbano e la situazione paesaggistica, i termini della sua più attuale validità».

s-l1600-1Che l’architettura abbia come fine ultimo quello di saldare in un equilibrato rapporto olistico ogni elemento costruito al paesaggio, al contesto, alla trama storica, culturale e ambientale del territorio non meno che della Terra, è sempre stato nella acuta consapevolezza e nelle vaste esperienze professionali di Antonietta Iolanda Lima, alla cui figura di architetto e di studiosa lungamente impegnata è dedicato un volume recentemente edito da Cangemi, Intrecci di saperi e creatività umana, a cura di Alessandro Brandino. Vi si raccolgono contributi e testimonianze di colleghi, allievi, amici, specialisti, unitamente a illustrazioni, progetti e piante, ad una intensa e illuminante intervista a conclusione del libro e a un corpus di pensieri e poesie da cui emerge l’intima natura di Iolanda Lima. Una rassegna di testi e di immagini, memorie e tracce, che restituiscono la complessità e l’ecletticità degli interessi scientifici e umani della studiosa palermitana, di cui tutti sottolineano lo sguardo olistico sul mondo dei saperi e sul modo di stare nel mondo. Da queste pagine, infatti, affiora il profilo di una donna cosmopolita, che ha sempre amato esplorare i confini disciplinari, puntualmente confutati, avendo dialogato con tutte le scienze umane, privilegiando le intersezioni tra i saperi, come l’antropologia o la sociologia, attingendo alla letteratura, incrociando orizzonti umani e culturali diversi.

s-l1600«L’architettura chiusa entro un confine invalicabile non mi è mai bastata, sicché il mio ragionare sarà qui un entrare e uscire nei/dai vari saperi, convinta che il valicarli fertilizzi mente, anima e corpo, riverberando positivamente su quanto ci circonda, vivente e inanimato». Così Antonietta Iolanda Lima (2022: 15) ha scritto nell’introduzione al volume che due anni fa ha curato e dato alle stampe: Frugalità. Riflessioni da saperi diversi. L’attitudine alla contaminazione dei contenuti e dei linguaggi, allo sconfinamento delle materie d’insegnamento e alla connessione delle differenze, ovvero l’apertura alle ibridazioni e alle sperimentazioni, l’insofferenza agli esasperati specialismi e la postura intellettuale naturaliter transdisciplinare l’hanno fatta incontrare con Dialoghi Mediterranei, con cui assiduamente collabora dal 2020, avendo accolto l’invito a far parte del comitato scientifico. Sulla rivista ha scritto fin qui di città mediterranee, della politica culturale a Palermo, dei maestri dell’architettura siciliana: da Pietro Culotta a Luigi Epifanio, da Paolo Emilio Carapezza a Giuseppe Caronia, da Vittorio Ziino ad Antonio Bonafede, e di architettura del sacro. Tema quest’ultimo caro all’autrice che nel 1984 ha pubblicato con Flaccovio La dimensione sacrale del paesaggio. Ambiente e architettura popolare di Sicilia, opera seminale, oggi ripensata e rieditata (nel 2023), fondamentale nel percorso della sua ricerca scientifica, una sorta di totem destinato a segnare uno snodo nella definizione e maturazione delle sue esperienze di studi.

Non si comprende pienamente il suo modo di fare architettura, di concepire ricerca e didattica, di comunicare e di costruire durature relazioni, se non attraverso le pagine di questo libro in cui è possibile leggere e riconoscere il senso primigenio della sua formazione di umanista, di intellettuale, di architetto dalla profonda sensibilità antropologica, attenta ai rapporti tra cultura subalterna e cultura egemone, ai valori del patrimonio paesaggistico, ai significati mitici e rituali del costruire e dell’abitare. Della Sicilia contadina ha indagato non solo gli insediamenti materiali ma anche le pratiche e le tradizioni immateriali, i segni sacri incisi nelle pietre come nelle rappresentazioni festive. Edicole votive e pagliai, abbeveratoi e dammusi, casali isolati e monumentali muri a secco, chiese rupestri e calvari, planimetrie di centri storici e mappe dei santuari e dei tesori incantati, apparati rituali e calendari dei riti e delle fiere locali, fonti orali e carte d’archivio e catastali: tutto si tiene nello splendido atlante di dati, documenti, notazioni, immagini, che l’autrice ha costruito riannodando i fili del tessuto connettivo del paesaggio siciliano. «Le nostre piccole città contadine o ancor più le contrade rurali, immerse a pieno nella dimensione del paesaggio e ad esso fortemente relazionate, pur possedendo spesso pochi edifici rimarchevoli sono delle straordinarie creazioni in cui tutto, dall’impianto urbano al tessuto, alla qualità e articolazione dello spazio, conferma l’identità tra architettura ed urbanistica e l’inscindibile unità del singolo costruito con la totalità dell’ambiente e dei suoi abitanti» (Lima 1984: 3).

L52070396a lezione antropologica sui simboli e sulla dimensione sacrale del paesaggio resterà alla base dell’ispirazione di Antonietta Iolanda Lima che in quasi sessant’anni di attività, tra docenza, ricerca e progettazione, ha sempre affermato e testimoniato le ragioni etiche e civili del ‘buon costruire’, del buon pensare e del buon fare, riferendosi costantemente alle responsabilità politiche di chi è chiamato ad intervenire sulla società, sulla forma urbis e sul territorio per ordinare lo spazio e con esso la vita quotidiana degli uomini. Nel denso e ampio concetto di paesaggio, quale campo di interazioni e complesso sistema integrato di relazioni tra natura e cultura, si riassumono e si spiegano in fondo teoria e metodologia, pensiero e prassi del suo intenso e ininterrotto lavoro, della sua stessa personalità.  Sulla scia dell’insegnamento di Bruno Zevi (1996:70) – «Ci sono vari modi di rapportarsi al paesaggio, e uno solo è gratuito e sbagliato: quello arcadico, nostalgico, meramente emotivo e misticheggiante» –, Iolanda Lima ha destrutturato e rifondato il concetto e il significato. Lo ribadiscono un po’ tutti gli autori che hanno collaborato al volume dedicatorio curato da Brandino. Ne scrive con particolare attenzione Flavia Schiavo che da allieva della Lima ne analizza l’attività didattica volta a «scandagliare criticamente le visioni categoriali che ancora oggi imbrigliano e definiscono il Paesaggio, le differenti prospettive interpretative, le concezioni della storia», proponendone una nuova denominazione: «immagine verbo-visiva che supera la pur interessante concezione di “spazio”, integrando gli aspetti materiali con quelli immateriali», qualcosa che ha a che fare con le rappresentazioni, le percezioni e le narrazioni elaborate e ‘vissute’ dagli abitanti.

Altri studiosi hanno messo in risalto «la vitale intelligenza storica e critica di Lima» (Maria Antonietta Crippa), la sua capacità di «mettere a confronto le fonti archivio con gli approcci critico-operativi di un progettista» (Massimo Locci), «il saper cogliere il messaggio dei maestri reinterpretandolo, facendo propri quei princìpi e le ragioni sottese al fare architettura» (Antea Mazzuca), dal momento che non esiste nessuno iato tra architettura e urbanistica, in un continuum di storia, ricerca, progetto ed esecuzione che si saldano nell’identità versatile e multiforme della sua opera tutta risolta a dare soluzione al problema dell’abitare nel mondo in crisi del nostro tempo inquieto. Alessandro Brandino illumina il ruolo dell’intellettuale a tutto tondo di questa «protagonista della cultura architettonica nazionale», la sua vocazione cosmopolita e la sua concezione ‘militante’ dell’architettura quale strumento di riscatto sociale, la sua maieutica dell’insegnamento e dell’apprendimento quale «esperienza conoscitiva sinestetica e completa», «un processo affettivo e cognitivo insieme in cui far emergere un’ecologia dello sviluppo umano».

Dalle eredità di Giancarlo De Carlo e Paolo Soleri e in costante dialogo con Bruno Zevi Iolanda Lima ha mutuato intuizioni, valori, stili e memorie del mestiere, riformulando caratteri e linguaggi in una visione autonoma e in una declinazione femminile. Libera dalle logiche di potere, insofferente alle angustie dell’accademia, consapevole delle responsabilità morali e politiche degli intellettuali, la studiosa è sempre intervenuta nella vita pubblica, ha preso posizione contro l’omologazione del pensiero, la mercificazione dei saperi professionali, la frammentazione molecolare delle competenze, la disciplina ridotta a pura astrazione concettuale. Di questo suo impegno civile, della sua straordinaria energia e delle sue passioni anticonformiste ha scritto, tra gli altri, Michele Sbacchi che, richiamando la classica figura di “intellettuale organico” di Gramsci, sostiene che «è fuori dal produttivismo positivista e fuori anche dalla deriva scientista delle specializzazioni che si dispiega la vicenda intellettuale di Iolanda Lima, storica dell’architettura  e architetto praticante – e non saprei quale scrivere prima fra queste due attività». Si legga a questo proposito il testo della stessa Lima “Ma quale visione senza una cultura diffusa?” pubblicato sul n. 54 di Dialoghi Mediterranei (marzo 2022). Dopo aver auspicato una coscienza ecologica che dovrebbe vertebrare lo sviluppo della nuova civiltà, così scrive: «Richiesta dalla grande complessità del mondo attuale, l’azione degli intellettuali ‘veri’ deve essere una azione militante e propulsiva, pari a quella che, colma di tensione visionaria, caratterizzò la prima stagione del dopoguerra; un’azione ininterrotta fondata su un programma profondamente meditato, fecondato dall’incrocio e dallo scambio propositivo di tutte le competenze in gioco, che abbia come finalità prioritaria l’alfabetizzazione di quanti abdicando al loro essere persona, perché privi di cultura, diventano massa».

9788893871693_0_536_0_75Il titolo del volume mette al centro l’idea fondante e costitutiva dell’architettura di Iolanda Lima, quella sua naturale attitudine ad intrecciare e contaminare i saperi e a immaginare e sperimentare creativamente nuove vie e nuovi linguaggi, nella incessante tensione ad allargare i propri orizzonti conoscitivi. Non è senza significato che “Trasversale” si chiami la collana di libri che cura per le edizioni Il Poligrafo dove si scandagliano parole chiave, «nodi di convergenza di pensiero e di azione conseguente, parole che abbiano identità di senso in contesti diversi per riscoprire la forza del progetto di architettura» (Lima 2022). Nell’approccio olistico rientra «la convivialità dialogica tra tanti punti di vista diversi» (Cosimo Scordato); «l’inconsistenza di ogni divisione delle arti» (Antonella Battaglia); «l’idea che studiare e lavorare siano due dimensioni inscindibili, radicate nell’esercizio quotidiano di saper vedere l’architettura e la città, alimentate dalla pratica riflessiva e sistematica della scrittura, protese verso un’ostinata visione di futuro» (Chiara Rizzica); «il messaggio più semplice e al tempo stesso straordinario e, purtroppo, non scontato: l’amore per la vita, umana, animale, naturale, tutta senza distinzioni e discriminazioni» (Antea Mazzuca).

A guardar bene, c’è nel largo respiro dell’umanesimo e del cosmopolitismo di Iolanda Lima una coscienza ecologica ante litteram, il rispetto dei principi dell’ecosostenibilità, quell’ispirazione “eretica e frugale” che caratterizza il suo lavoro e la sua vita e che fa di lei oggi una «tra i maggiori specialisti dell’architettura ecologica» (Isabella Daidone). Nello spirito pragmatico e combattivo della donna si coglie una particolare attenzione al destino della Terra, alla sacralità della biosfera e dei beni comuni, all’osservanza del codice etico cui affidare il governo dei rapporti fra la vita del pianeta e l’opera umana. In consonanza col pensiero di Edgar Morin che esplora le interdipendenze tra le parti e il tutto nel contesto della complessità del cosmo, Iolanda Lima critica gli esiti rovinosi di certo antropocentrismo e sollecita la promozione di una più diffusa e responsabile consapevolezza del nostro ruolo nel mondo di abitanti non unici né centrali.

Attraverso sia la approfondita intervista sia le poesie, che chiudono il volume, è possibile infine conoscere più da vicino il profilo umano di Iolanda Lima, la sua storia di vita, dall’infanzia familiare felicemente immersa nella sapienza della civiltà contadina «da cui tutti più o meno veniamo», agli anni dell’apprendistato scientifico con Giuseppe Cocchiara, allora Preside della Facoltà, Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi e Giuseppe Samonà, alla stagione dell’impegno politico, la militanza con Giulia Saladino e Marcello Cimino, l’amicizia con Pietro Consagra e Danilo Dolci: nomi di figure di studiosi, docenti, intellettuali a cui si aggiungono gli architetti, i critici e gli storici letti, amati, riconosciuti come maestri: da Pagano a Aalto, da Le Corbusier a Wright, da Gaudì a Zevi, da Soleri a De Grandi, ma anche gli scrittori e i classici della letteratura: da Dostoevskij a Tolstoj, da Gogol a Kafka, da Calvino a Sciascia, da Pasolini a George Steiner, per citare solo alcuni esempi.

«Dare spazio alle voci antiche dei ‘miei cari’» è il desiderio che Iolanda Lima esprime a conclusione del dialogo con Brandino e Crippa. Un auspicio che testimonia il debito che ognuno di noi ha per quanti ci hanno generato, formato, accompagnato, amato. Il riconoscimento del valore antropologico della tradizione e della memoria. L’impegno a raccogliere e trasmettere l’eredità delle esperienze vissute, delle lezioni apprese. La certezza che oltre le discipline, i progetti, le scienze, le arti ci sono le persone, gli uomini e le donne in carne e ossa, i loro bisogni, i loro sogni. Oltre l’architettura c’è la vita. Così come al di là della città, del quartiere, del palazzo da costruire c’è la casa da abitare, lo spazio più intimo da curare, la domesticità da coltivare. «Non ho mai cessato di riflettere sull’architettura – afferma nell’intervista Iolanda Lima – di come ciascuno di noi dovrebbe al meglio viverla nel quotidiano più intimo, la casa. Sicché ancora oggi, anche se in età più che avanzata, la casa è per me il mio costante laboratorio di osservazione, di studio, di comprensione. Ogni cosa, qualunque oggetto piccolo o grande che inserisco nel suo spazio pone il problema della relazione con tutto ciò che già vi si trova e mette in guardia sui rischi del ‘pieno’».

9788884905307_134445873_0_536_0_75Non è difficile leggere in queste parole la poetica del fare e del pensare l’architettura e la vita, la sua misura eminentemente umana e la funzione democratica della sua ideazione e attuazione. Una concezione che ribadisce quell’investimento magico-rituale che Mircea Eliade assegnava alla costruzione quale parafrasi della Creazione, forma materiale e simbolica del Centro, di cui la casa è il fondamento, riparo e difesa, radicamento e legamento, metafora della durata nel tempo e imago mundi, palinsesto dello spazio e soglia del nostro entrare e stare nel mondo. Qui è il nucleo rassicurante dei riferimenti stabili, delle genealogie familiari, della permanenza dell’essere nell’incessante scorrere del divenire. Qui si conserva il ricordo di chi l’ha abitato prima di noi, tracce impalpabili della presenza dei defunti, segni sparsi del dialogo con i viventi. Antonietta Iolanda Lima condivide con l’antropologa Carla Pasquinelli (2004: 116) la concezione demiurgica dell’ordine domestico, l’equivalente di un atto cosmogonico, l’idea che «abitare non è solo occupare un luogo, ma è riscattarne la datità tramite le azioni e le pratiche che si dispiegano al suo interno. Siamo noi i veri demiurgi, sono le nostre modalità quotidiane del fare, del prendersi cura, a trasformare una piccola porzione di spazio in un centro».

Nella latitudine cosmopolita del suo sguardo e nella salda convinzione che all’architettura è affidato il compito di rendere visibili e riconoscibili i rapporti tra gli uomini e i luoghi, la casa per Iolanda Lima è e resta Palermo e la Sicilia è la sua patria culturale, avendo «il cervello nel mondo e il cuore nel luogo, tra cosmo e campanile», per usare le parole di Alberto Mario Cirese (2003: 127). L’Isola con le sue stratificazioni storiche e le sue tradizioni culturali iscritte nell’orizzonte europeo del pensiero scientifico ha sempre rappresentato il centro gravitazionale dei suoi studi, la fidata sponda delle sue ricerche da cui muovere e a cui tornare, tenendo sempre insieme architettura e urbanistica, critica storica e attività progettuale. Da qui le sue numerose monografie sui centri monumentali e minori della Sicilia, sull’Orto Botanico di Palermo, sui Palazzi dello Steri e della Zisa, sui Gesuiti e la città, sulle architetture religiose e sui grandi maestri dell’architettura. Un’intensa produzione che si sovrappone per un certo periodo alle opere dei suoi lavori di progettazione e s’intreccia costantemente con il suo impegno civile e intellettuale nel dibattito pubblico, i suoi puntuali interventi nelle più diverse occasioni dentro e più spesso fuori dell’università, «sempre con la gioia di vivere e l’urgenza di non perdere tempo per non esistere invano», come annota acutamente Maria Antonietta Crippa.

Con questa irruente e infaticabile energia ho imparato a conoscerla nella sua generosa e pronta collaborazione con la rivista Dialoghi Mediterranei, alla quale non cessa di comunicare una straordinaria vitalità, una passionalità e una caparbietà tutta femminile, unitamente ad un’affettuosa condivisione dei tempi e dei modi di pubblicazione e ad una attestazione di fiducia e reciproca stima. Ho sempre apprezzato la sua scrittura, che ha una sintassi originale e un lessico elegante. Anche nella scelta e nell’ordinamento delle parole si ritrova, in fondo, quella sua capacità immaginativa di interpretare e usare lo spazio, la sensibilità artistica anticonvenzionale, l’amore per il disegno, la composizione delle linee e dei colori, il sostrato letterario dello stile, dei ritmi verbali, degli accenti e delle sonorità musicali. Un’architettura formale raffinata e singolare. Non poteva essere diversamente, essendo la cura delle sue pagine indissociabile dai tratti costitutivi della sua personalità non comune.  

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024 
Riferimenti bibliografici
A. Brandino (a cura), Antonietta Iolanda Lima. Intrecci di saperi e creatività umana, Cangemi Editore, Roma 2024
A. Buttitta, Introduzione a A. Cusumano, Madre pietra. Arte e tecnica del costruire a Salemi, Comune di Salemi 1998
A. M. Cirese, Tra cosmo e campanile. Ragioni etiche e identità locali, Protagon editore, Siena 2003
M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, Torino 1976
M. Eliade, I riti del costruire, Jaca Book, Milano 1990
A. I. Lima, La dimensione sacrale del paesaggio, Flaccovio, Palermo 1984
A. I. Lima, Frugalità. Riflessioni da saperi diversi, Il Poligrafo, Padova 2022
L. Natoli Di Cristina, La città-paese di Sicilia. Forma e linguaggio dell’habitat contadino, Quaderno n. 7 Facoltà di Architettura, Università di Palermo 1965
C. Pasquinelli, La vertigine dell’ordine. Il rapporto tra Sé e la casa, Baldini Castoldi editore, Milano 2004
B. Zevi, Dialetti architettonici, Newton Compton, Roma 1996.

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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. Nel 2015 ha curato un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (De Lorenzo editore)La sua ultima pubblicazione, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, è stata edita dal Museo Pasqualino di Palermo (2020). Per la stessa casa editrice ha curato il volume Per Luigi. Scritti in memoria di Luigi M. Lombardi Satriani (2022).

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