Assistere allo State of Play significa andare a vedere a che punto siamo con l’immaginario. La lascio così questa frase. Sbilenca e dalla derivazione spiccatamente orale. Ci ho pensato a lungo, perché volevo il miglior incipit possibile per quella che deve essere una riflessione necessariamente breve, puntuale e con meno fronzoli possibile. Il punto è proprio questo: sviluppare uno strumento analitico (un linguaggio, in questo caso) adeguato al fenomeno preso in considerazione. Se vogliamo ragionare sul videogioco come medium siamo costretti a confrontarci in maniera preliminare con l’ardua missione di coniugare linguaggi di mondi all’apparenza distanti: il gioco virtuale, con tutta la trattazione psicoanalitica del caso [1]; la tecnologia, il videogioco in quanto medium altamente tecnologico e tecnologizzato non è soltanto un cyberspazio elettronico ma anche l’espressione di una macchina virtuale [2]; il worldbuilding, il “fare mondo” come macro area analitica, un vastissimo territorio ermeneutico che comprende la teoria letteraria, le scienze cognitive, la geografia e l’antropologia culturale, la filosofia e così via [3]. Discutere del medium videoludico ci costringe quindi a sviluppare un’analisi intrinsecamente multidisciplinare anche quando scegliamo una sola delle prospettive epistemologiche. Ma torniamo all’incipit.
Il videogioco, in qualsivoglia maniera lo si osservi, è oggi uno dei settori di punta dell’industria dell’immaginario, per eccellenza quel prodotto che più è legato alla costruzione dell’immaginario sia in quanto organo più o meno collettivizzato di produzione di immagini e mondi alternativi sia in quanto rêverie bachelardiana o nella sua accezione sociale e cosmologica [4]. Ecco perché il nostro incipit. Lo State of Play [5] infatti non è altro che una presentazione commerciale periodica dei nuovi prodotti. Solo che si tratta di videogiochi. Lo State of Play è allora una sorta di evento streaming che non si limita alla messa in onda dal canale ufficiale ma che viene ritrasmesso attraverso tutti quei canali Youtube e piattaforme Twitch permettendo così all’utente di assistere all’evento insieme al proprio content creator preferito, il quale spesso commenta, traduce, approfondisce in tempo reale ciò che viene trasmesso su schermo. A causa della natura del “prodotto” presentato, cioè i videogiochi in uscita o in fase ultima di produzione, lo State of Play è quindi una sorta di finestra sul “mercato dell’immaginario”, o per meglio dire sugli immaginari, che si preparano a entrare nel mercato globale. Se ogni videogioco realizza un mondo a tutti gli effetti, ragionando dal punto di vista ultimo dell’immaginario collettivo, lo State of Play non è altro che un appuntamento periodico che ci consente di andare a vedere lo stato evolutivo del mercato videoludico e quindi del suo immaginario, figlio diretto di quello stesso immaginario collettivo in continuo mutamento. Un paragone con l’universo della letteratura può aiutarci a comprendere l’impatto culturale di ciò che è lo State of Play.
Immaginiamo che due volte l’anno, le più grandi case editrici del mondo, in diretta streaming globale, rivolgendosi quindi ad un pubblico praticamente composto dai lettori dell’intero pianeta, illustrino in breve i contenuti, lo stile, la lingua e le forme dei romanzi in via di pubblicazione. Immaginiamo che durante queste presentazioni, gli editori e gli autori in persona ci parlino di questi nuovi romanzi, anticipandoci quindi dettagli di trama, leggendoci certe scene, commentando le loro scelte linguistiche e tematiche, in confronti e dialoghi quasi mai in competizione fra loro ma con l’obbiettivo anzi di ampliare il numero di lettori fornendo il maggior numero di opere possibili e di maggior qualità. Immaginiamo che critici letterari, o semplicemente lettori che in qualche modo sono diventati più influenti di altri, ritrasmettano queste presentazioni attraverso i loro canali, commentando in tempo reale i passi letti, le dichiarazioni di quell’autore e di quell’editore. Immaginiamo che tutto questo avvenga in una data ora e giorno dell’anno e che tutti i lettori del mondo si colleghino dai rispettivi luoghi e orari per assistere a queste presentazioni. C’è chi semplicemente assiste, c’è chi preferisce collegarsi col suo critico preferito così da commentare con lui ciò che sta accadendo insieme a tutti gli altri lettori ecc..
Qualcuno potrebbe qui dire “cose del genere ci sono già, per esempio il Salone del Libro di Torino”. Ora, lasciando alle riflessioni individuali l’impietoso paragone fra la qualità e l’efficacia della narrazione pubblica del videogioco rispetto a quella del libro, soprattutto se allorquando lo misuriamo in relazione alla comunicazione verso un pubblico più giovane, pur considerando l’esistenza di suddetti saloni del libro e simili, è semplice notare la differenza di quantità e qualità del fenomeno. Qualcuno dirà che la struttura mediale del libro è totalmente differente da quella del videogioco [6], e avrebbe ovviamente ragione. Ma il punto del mio discorso qui, come si deduce dall’incipit sul quale ho indugiato stucchevolmente, è l’immaginario. È cioè il fatto che per “pesare”, “misurare” e “studiare” l’immaginario, sia da un punto di vista critico-teorico che da semplice osservatore, assistere allo State of Play è tanto utile quanto semplice e immediato. Lo State of Play ha la qualità di essere uno strumento di narrazione e comunicazione efficacissimo che necessita soltanto di una connessione internet, strutturalmente costruito per rivolgersi a tutte le tipologie di giocatori in tutto il mondo (l’inglese è la lingua parlata ma sono normalmente disponibili sottotitoli in centinaia di lingue), facilitandone al massimo la fruizione di tutti i contenuti, nonostante il suo concept comunicativo sia banalissimo.
Immagiamo allora una fiera del libro qualsiasi, fino a ieri, senza il coronavirus, avremmo dovuto raggiungere il luogo dove la fiera si tiene, fare la fila, il biglietto di entrata alle volte, scegliere a quale presentazione andare e a quale rinunciare, e via dicendo (quest’anno, il Salone del Libro di Torino che doveva tenersi a maggio è stato ovviamente rinviato [7]). Ho personalmente assistito ad alcune presentazioni telematiche di libri; le case editrici, annullando gli incontri fisici nelle varie città, hanno creato delle suppletive riunioni su Zoom. Ora, sappiamo che l’accesso alle riunioni su Zoom necessita di link apposito e password, che il software si deve scaricare sul proprio device, installare, accettare le opzioni sulla privacy che richiede ecc. E tutto ciò per una sola presentazione di un solo libro. Anche in questo caso, ci si rende conto della differenza di qualità di accessibilità, di facilità di fruizione fra uno State of Play e una ipotetica fiera telematica del libro.
Ma qual è il punto? Che il mondo del libro, nella fattispecie italiano, sia in qualche modo banalmente “arretrato”? Che i giovani non leggono più? E perché? Che la letteratura smuove meno soldi dei videogiochi? Che il mondo è cambiato e si stava meglio quando si stava peggio? Ovviamente no. Ovviamente è palese come il libro continua e continuerà ad essere il medium creatore di mondi immaginari più efficace di sempre. Che per scrivere un libro, teoricamente, basta una penna e tanti fogli, che invece per sviluppare un videogioco ci vogliono equipe di sviluppatori, informatici, esperti CG, direttori della fotografia, sceneggiatori, illustratori, storyteller, studiosi di storia o robotica (dipende dal mondo fantastico che si intende costruire) e via dicendo – un romanzo continua a costare in media quindici euro mentre un videogioco di grande produzione può arrivare a costarne settanta.
Approfondire pertanto il confronto libro-videogioco richiederebbe monografie dedicate, ma limitatamente a questa riflessione possiamo sorridere di fronte al carattere paradossale della narrazione del prodotto-libro rispetto alla narrazione del prodotto-videogioco, limitandoci a considerare quanto il prodotto più costoso, sia in termini di produzione che di acquisto, sia oggi sul web quello più efficacemente narrato. Ciò che colpisce è quindi il respiro globale della narrazione del videogioco che costituisce una delle cause principali della creazione delle community di videogiocatore le quali sono determinanti nell’evoluzione dell’industria, sia ragionando in termini meramente commerciali che in termini di creatività intellettuale e artistica.
Orientando la riflessione verso lo studio dell’immaginario collettivo, soprattutto tenendo conto della crisi dell’immaginario attuale recentemente osservata da molti studiosi delle più diverse discipline [8], ne deduciamo che il mondo del videogioco è quello che sta rispondendo più attivamente. Al di là delle valutazioni sulla effettiva capacità dei videogiochi di riattivare l’immaginazione in quanto processo creativo ma soprattutto operativo e ermeneutico nei confronti di un mondo, il nostro, quello reale, che oggi come non mai esige uno sforzo di re-immaginazione e riconfigurazione della sua immagine nel presente della crisi ecologica, ci appare chiaro che l’immaginario di un videogioco è per natura quello più interattivo. In termini di worldbuilding, il mondo di un videogioco si presta ad essere esperito con il grado massimo di interattività e libertà [9] in relazione a un mondo immaginario letterario o cinematografico, è questa è la caratteristica più banale e più importante. Inoltre, il videogioco è quell’ambito di worldbuilding meno soggetto alle restrizioni causate dalla scelta di un genere specifico, poiché l’industria videoludica è meno soggetta a regole di tipo editoriale traendo la sua forza dalla “novità” del blending di generi e immaginari. Per esempio, alla luce del dibattito sul ruolo che può avere la fantascienza anziché il fantastico, in merito allo sviluppo di una scienza degli scenari futuri [10], se andiamo a vedere ciò che accade nel mondo dei videogiochi, spesso, questi due generi si con-fondono, si ibridano, dando vita a narrazioni inaspettate, a scenari appunto innovativi e a immaginari vividi in cui si strutturano interazioni verosimili fra giocatore e mondo-ambiente di gioco. Quest’ultimo non è un termine assoluto che garantisce qualità al prodotto in termini di sceneggiatura, o di gameplay e così via, ma comunque è un terreno di “sfida” commerciale rendere conseguentemente l’immaginazione dei creativi del settore la facoltà cardine appunto dell’industria.
Alla lunga, tutto ciò comporta in ogni caso un ampliamento continuo delle frontiere del possibile del worldbuilding videoludico, il quale contribuisce all’immaginario e alle narrazioni culturali globali. Il mondo dei videogiochi quindi ci offre già esempi di coesistenza di immaginari diversi (fantascienza e fantastico; distopico e cyberpunk; post-apocalittico e survivalista; fantasy e storico; ecc.) in un’unica narrazione-mondo virtualmente esperibile. Infatti, generi diversi non sono altro che schemi narrativi differenti la cui cooperazione organica, sotto forma di opera videoludica, ci testimonia la capacità sincretica del medium. Tale capacità di costruire mondi così funzionanti e ben strutturati attraverso schemi diversi, può fornire esempi operativi in grado di rispondere a quella crisi dell’immaginazione in atto riguardo la questione antropocenica, la quale ci obbliga a ripensare la nostra condizione e relazione odierna e futura con il Sistema-Terra (sia da un punto di vista meramente speculativo che tecnologico) [11]. In definitiva, riconsiderare l’impatto dei videogiochi sulle narrazioni che plasmano l’immaginario contemporaneo del nostro mondo reale, può risultare uno strumento determinante in più per ripensare il nostro mondo a venire, re-immaginando la partita vincente che possiamo giocare in quanto specie per determinarne le sorti.
Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Note
[1] Si veda, per esempio, Marzi A. (ed), Psychoanalysis, Identity, and the Internet. Explorations into Cyberspace, London, Karnac.
[2] Cfr. Maldonado T. 2007, Reale e virtuale, Milano, Feltrinelli; Woolley B. 1993, Mondi virtuali, Torino, Bollati Boringhieri; Montani P. 2014, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, Milano, Raffaello Cortina.
[3] Cfr. Turchi P. 2004, Maps of the Imagination. The Writer as Cartographer, Trinity University Press, 2004; Wolf M. J. P. 2012, Building Imaginary Worlds. The Theory and History of Subcreation, London Routledge; Descola P. 2010, Cognition, Perception and Worlding, in «Interdisciplinary Science Reviews», n. 35, vol. 3-4: 334-340.
[4] Si rimanda a Bachelard G. 2006, La poetica dello spazio, Bari, Dedalo; Appadurai A. 2007 Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Meltemi; Humboldt A. Von 2010, Cosmos. Sketch of a Physical Description of the Universe, Volume 2, Sabine E. ed., Cambridge, Cambirdge University Press.
[5] Il più recente State of Play di Playstation è stato il sei agosto.
[6] Cfr. Manovich L. 2010, Software Culture, Milano, Olivares.
[7] https://www.lastampa.it/torino/2020/03/16/news/coronavirus-rinviato-anche-il-salone-del-libro-di-torino-1.38600215.
[8] Cfr. Ghosh A. 2017, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Vicenza, Neri Pozza; Appadurai A. 2000, Grassroots Globalization and the Research Imagination, in «Public Culture», Duke University Press.
[9] A proposito, si veda https://www.indiscreto.org/diventare-o-perdere-se-stessi-nei-mondi-virtuali/?fbclid=IwAR1AHE2t7Ixh2zjdBr568UpBCVTjIAVGWBCmkgYCdT5ydBkjzxgZOEWtRHM.
[10] Si rimanda, per esempio, a https://singola.net/articolo/antropocene-possibile-giorgiomaria-cornelio-e-matteo-meschiari.
[11] Cfr. Morton O. 2017, Il pianeta nuovo. Come la tecnologia trasformerà il mondo, Milano, Il Saggiatore; Danowski D., Viveros de Castro E. 2019, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Milano.
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
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